Ma davvero il titolare di quello stabilimento, in un angolo, neanche fra i più pregiati, della Versilia che, da sempre, si vanta di non pagare un euro di tasse (Iva compresa) e solo pochi spiccioli per la concessione dal Demanio della spiaggia, sarà costretto a ricomprarsi pubblicamente, all’asta, la sua gallina dalle uova d’oro? E veramente quel muro di stabilimenti che, a Ostia, per tre chilometri e mezzo ininterrotti impedisce anche di vederlo, il mare, dovrà fare spazio a qualche spiaggia libera? Così dice il governo che ha varato un emendamento alla legge sulla concorrenza che dovrebbe, finalmente, regolamentare il mondo delle sdraio e degli ombrelloni. Tuttavia, sarà meglio crederci quando potremo effettivamente vederla questa rivoluzione delle spiagge.
Le poche migliaia di concessionari che hanno sequestrato, a scopo di lucro, i tremila chilometri di coste nazionali si dimostrano da decenni una lobby agguerrita e capace di tenere sotto scacco i partiti. I mal di pancia che già si avvertono, almeno nel centrodestra, fanno temere, infatti, imboscate parlamentari su un testo di legge che, già così, lascia aperte, forse, troppe scappatoie.
Le spiagge sono una storia italiana come poche: la raccontiamo con i dati dell’Autorità della Concorrenza, di Legambiente e di Nomisma. Eccola. In teoria, le coste sono un bene pubblico inalienabile, ma, in realtà, sono inscatolate in una teoria infinita di stabilimenti a pagamento. In Francia, solo il 20 per cento delle coste può essere gestito da privati. In Italia, siamo al 42 per cento. Ma in Campania, in Liguria, in Emilia-Romagna, le zone a più alta densità turistica, la percentuale sale al 70 per cento. In Toscana e nelle Marche siamo al 50-60 per cento. Ma, su 30 chilometri di Versilia, 27 sono presidiati dagli stabilimenti. A Riccione, l’83 per cento della spiaggia del Comune.
E’ un business ricco e privilegiato.
Ogni anno, i concessionari si spartiscono un fatturato di 15 miliardi di euro. Per capirci, l’1 per cento del Pil nazionale. Questa pioggia di denaro non bagna un esercito sterminato di imprenditori, ma una fetta assai ristretta. In tutto, le concessioni demaniali sulle coste sono 30 mila, ma, al netto degli insediamenti industriali, logistici ecc., quelle esplicitamente turistiche non sono più di 14 mila. I signori degli ombrelloni che presidiano centinaia di chilometri di spiaggia sono, insomma, poco più di un pugno di privilegiati. Questo, almeno, dicono i loro conti: 15 miliardi di euro di incassi diviso 14 mila concessionari fa una media di un milione di euro a testa di fatturato annuo. Gli appelli e i lamenti che si sentono in questi giorni a difesa di famiglie di ex pescatori che a malapena sbarcano il lunario affittando qualche ombrellone e vendendo qualche Coca hanno sicuramente riscontro nella realtà, perché le medie statistiche, come è noto, ingannano. Ma se c’è qualcuno che, a malapena, tira avanti, per arrivare a 15 miliardi ci deve essere anche chi di euro, ogni anno, ne fattura qualche decina di milioni.
Il testo licenziato dal Consiglio dei ministri si preoccupa di contenere i prezzi di sdraio e ombrelloni che costituiscono quel fatturato.
Ma il vero scandalo delle spiagge non sono i 15 miliardi di incassi, ma i costi connessi. Per avere dal Demanio le spiagge, infatti, i 14 mila concessionari non spendono più di 115 milioni l’anno. In pratica, meno di un euro ogni cento di fatturato: quasi l’equivalente di una marca da bollo. E solo perché da tre anni c’è stata una stretta. Prima, uno stabilimento non in qualche palude alla foce del Po o del Volturno, ma in Costa Smeralda, poteva cavarsela anche con 300 (trecento) euro l’anno. Adesso, una concessione costa, al minimo, 2.500 euro l’anno, sempre meno dell’affitto estivo di un appartamento senza vista mare. E il minimo non è un caso estremo: tre concessionari su quattro pagano appunto 2.500 euro.
Mettiamo in fila le cifre: 15 miliardi di euro di fatturato, 115 milioni di incasso per lo Stato, per un costo individuale quasi sempre di 2.500 euro l’anno, praticamente all’infinito. Per mettere fine a questa situazione c’è voluta una sentenza del Consiglio di Stato, che ha messo il governo al riparo delle riottosità trasversali dei partiti: le concessioni decadono in blocco al 31 dicembre 2023 e devono essere messe nuovamente all’asta dal 1 gennaio 2024.
E’ una rivoluzione. A ben vedere, anche morale. Mancano ancora, però, i dettagli e le modalità di queste aste e, considerato il peso, particolarmente a livello locale, in cittadine spesso piccole, delle lobby dei concessionari, il rischio che la rivoluzione si inceppi in corso d’opera è alto. Tutto ruota intorno ai margini di discrezionalità delle nuove concessioni. Il governo, giustamente, si preoccupa di garantire situazioni in cui le concessioni costituiscono un modesto reddito familiare e, contemporaneamente, assicura ai vecchi concessionari, l’ammortamento degli investimenti effettuati, a carico dei nuovi concessionari. Ma deve chiarire oltre ogni ombra di dubbio che non è consentita la pratica del subaffitto che ha consentito (prezzi di mercato contro un canone di 2.500 euro l’anno) le forme più vistose di rendita.
La chiave, tuttavia, è nella discrezionalità della durata della concessione. In Francia è, al massimo e comunque, di 12 anni. Nel testo licenziato dal Consiglio dei ministri, invece, si negano proroghe o rinnovi automatici, ma la durata è legata al tempo necessario per rientrare degli investimenti autorizzati ed effettuati. E’ una trappola che abbiamo già visto in azione. “Faccio un ristorante più grande” dice il titolare e la concessione viene rinnovata. Ricorda niente? I concessionari delle autostrade ci marciano da anni, prolungandosi le concessioni con la promessa di una carreggiata più larga o un ponte in più. Le promesse sono così sistematiche che non si ricorda un’asta per rimettere in gioco la concessione di un’autostrada. Meglio un ristorante più piccolo e un mercato funzionante. Altrimenti, la rivoluzione si sgonfia.
Maurizio Ricci