di Raffaele Del Vecchio, responsabile relazioni industriali, norme e safety di Enel
Le considerazioni che seguono nascono dalla lettura del libro di Pietro Ichino (A che cosa serve il sindacato).
E’ nozione comune che il nostro Paese sia pervenuto al suo sviluppo con un’azione riformatrice insufficiente delle istituzioni. Non abbiamo avuto rivoluzioni cruente, come quella francese, che attraverso il trauma hanno impresso svolte decisive all’ossatura dello Stato. Il lavoro, invece, questa la sottolineatura, ha dovuto misurarsi con standard internazionali elevati per raggiungere i quali poco è stato il tempo a disposizione.
A cinquant’anni di distanza dal “miracolo economico” cominciamo a capire quanto sia stata compressa l’azione di sviluppo economico. A mo’ di contrappasso il trauma allora ha riguardato il mondo del lavoro e non quello delle istituzioni che avrebbero dovuto svolgere un compito di supporto fondamentale. E’ in questo modo che i valori della civiltà contadina si sono misurati, trasfusi e poi con-fusi in quelli della civiltà industriale. A questi temi è dedicata la recente pubblicazione del corso universitario tenuto da Giulio Sapelli sulla concezione di P.P. Pasolini sullo sviluppo economico italiano (Modernizzazione senza sviluppo, Milano, 2005).
Non abbiamo avuto, per conseguire questo progresso, i tempi di maturazione che hanno caratterizzato l’Inghilterra o la Francia, ma il quindicennio che va dal 1945 al 1960. In questo senso concordo con l’analisi di M. Romani, secondo cui la vera rivoluzione industriale noi l’abbiamo vissuta nel secondo dopoguerra. Se ci pensiamo, la dinamica impetuosa di Boccioni ne “La città sale” è forse l’immagine più incisiva di questa volontà di fare, mista a una intraprendenza che consente di unificare il concetto di lavoro: senza aggettivi, né autonomo né subordinato. E’ forse questo, allora, il motivo per cui ogni qualvolta c’è da riprendere il cammino della riforma, dando corpo alla maledizione biblica che accompagna Adamo fuori dall’Eden, si guarda al lavoro come mondo che deve dare un contributo: a lavoro e a imprese, così unite nello studio che Mortillaro concepì a inizio degli anni ’80 su una possibile riforma del sistema di relazioni industriali.
E il lavoro alla domanda reagisce consapevole di essere carattere distintivo e vantaggio competitivo di questa nostra Italia, anche se, sempre più spesso, si chiede quale sia il contributo degli altri corpi intermedi: domanda inutile, certo, ma non per questo eludibile. Come altrettanto ineludibile è l’impegno a rinnovarsi che lo riguarda, giacché non c’è eredità su cui si possa vivere tranquilli. E’ per questo che dobbiamo essere grati a Ichino che, dopo trent’anni, continua a presentarci con freschezza i risultati delle sue analisi, cercando di mettere a nudo i falsi problemi della tradizione e della contingenza sindacale. Possiamo criticarlo, se non siamo d’accordo, ma difficilmente possiamo ignorarne giudizi e proposte di soluzione.
Il suo libro si mescola a monografie giuridiche – con l’ultima fatica, promessa mantenuta con Mengoni, del trattato di diritto del lavoro – e ad altre di impegno militante. Esso è la continuazione ideale dell’altro volume “Il lavoro e il mercato”, apparso nel 1996, quando stava per volgere a termine una stagione di riforme, lasciata incompiuta e svolta in una sorta di eterogenesi nella legislatura attuale. Allora, nel 1996 cioè, Ichino pensava ad un diritto del lavoro che potesse diventare maggiorenne, affrontando alcuni nodi delle regole del rapporto.
Come ho detto, il processo riformatore si bloccò, e nessuno ha ancora spiegato bene quale sia stato il motivo: appagamento, come negli anno ’60, timore di lasciare per strada i vagoni più lenti? Un giorno sapremo qualcosa in più e meglio di quel che è avvenuto. Ichino ha ripreso il cammino interrotto nel 1996 e, spostando il fuoco della sua attenzione, è passato dal diritto del lavoro alle relazioni industriali: dal complemento oggetto al soggetto. Egli concentra la sua attenzione su tre punti:
il primo è rappresentato dall’antica difesa dei posti di lavoro. Il caso Alfa di Arese evidenzia che difendendo i posti di lavoro, difendiamo male i lavoratori. È un difetto reale del nostro sistema: correttamente vengono criticati il sindacato e anche le istituzioni che perseguono posizioni di conservazione dell’esistente;
il secondo è rappresentato dall’incapacità di andare oltre lo sciopero. Il caso del settore dei trasporti evidenzia che va cambiata la direzione del conflitto, non rivolgendo l’azione contro i consumatori; Ichino propone l’adozione dello sciopero virtuale: chi scrive ci sta tentando da tempo (nel settore elettrico). Confermo che non è facile cambiare abitudini e resistere al fascino dell’azione a forte risonanza;
il terzo è rappresentato dalla necessità non più procrastinabile di approvare la legge sindacale: il punto è quello più criticato dalla Cisl, rimasta fedele all’impostazione di non dare corso all’applicazione dell’art. 39 della Costituzione. Qui rilevo nella posizione cislina una sorta di contraddizione. Questo sindacato si è più speso di altri nella richiesta di riforma degli assetti contrattuali in una direzione che accentui il peso del livello aziendale/territoriale. Se veramente dovessimo andare in questa direzione lo strumento dell’art. 19 della l. 300/1970 potrebbe non essere più sufficiente e, implicitamente, dovrebbe essere necessaria l’adozione di una legge che eviti il dilagare di organizzazioni sindacali di comodo. Il problema, cioè, non è di uno scambio ma verte sull’agibilità della contrattazione decentrata. D’altronde, se ben ricordo, la Confindustria pose sin dal 1997 la necessità di governare la derogabilità in pejus del Ccnl proprio per contrastare il fenomeno dei c.d. contratti-pirata, registrando l’indisponibilità della Cgil ad abbassare il livello dei minimi nazionali. A questa impostazione aderì, tra l’altro, lo stesso segretario pro tempore dei Ds D’Alema, che a causa di ciò si prese il plauso di Confindustria e i rimbrotti di Cgil
Un punto ulteriore, quello che secondo me dovrebbe stare a cuore alle imprese è la governabilità della dinamica salariale. Come ricorda Cremaschi (Liberazione, 23 novembre),prima del ’93 gli input alla dinamica erano almeno due, oggi si sono ridotti a uno: ma il sistema di allora andò in crisi perché non era governato, essendo saltata l’integrazione dei vari livelli; è negli anni successivi al ’93 che il sistema viene ricondotto a unità. Quel che non è chiaro, e a parer mio è decisivo per il decentramento, è come si realizzi l’equilibrio e il coordinamento fra le sedi contrattuali. Sapremo far meglio del 1962 (protocollo Intersind, Asap) e del 1993 (protocollo Ciampi)?
In una recente intervista Cipolletta ha detto che spesso abbiamo legiferato avendo come riferimento le grandi imprese, dimenticando le piccole. Mi auguro che non avvenga lo stesso, pensando ai contratti.
























