Fernando Liuzzi – Il Diario del Lavoro https://www.ildiariodellavoro.it Quotidiano online del lavoro e delle relazioni industriali Tue, 26 Mar 2024 10:20:06 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.3 https://www.ildiariodellavoro.it/wp-content/uploads/2024/02/fonditore.svg Fernando Liuzzi – Il Diario del Lavoro https://www.ildiariodellavoro.it 32 32 Editoria e politica, Agi: le ragioni di uno sciopero https://www.ildiariodellavoro.it/editoria-e-politica-agi-le-ragioni-di-uno-sciopero/ Thu, 21 Mar 2024 16:08:59 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=184601 Oggi e domani, due giornate di sciopero dei redattori dell’Agi, l’Agenzia giornalistica Italia. Per essere precisi, l’astensione dal lavoro è scattata dalla mezzanotte di mercoledì 20 marzo e si prolungherà fino alle ore 23:59 di venerdì 22 marzo. Lo ha annunciato, ieri sera, un comunicato del Comitato di redazione della stessa Agi, specificando che lo sciopero è stata proclamato dal Cdr “in applicazione del mandato conferito all’unanimità dall’Assemblea dei redattori”, svoltasi lunedì 18 marzo.

Perché un’iniziativa di lotta così dura? Il comunicato, che è stato diffuso dall’Associazione Stampa Romana, spiega che la decisione è stata assunta dopo che era stata “constatata l’assenza di una tempestiva risposta ufficiale da parte dell’Azienda sul futuro assetto proprietario dell’agenzia”. Infatti, “nonostante le formali richieste di chiarimento sulle ipotesi di vendita”, richieste “avanzate prima tramite il comunicato dell’Assemblea dei redattori, e poi attraverso la richiesta formale di un incontro urgente presentata dal Cdr”, finora “l’Azienda non ha fornito alcuna risposta”, né ha ritenuto di doversi confrontare “con l’organismo sindacale interno”.

Cos’è, dunque, che ha tanto allarmato i redattori dell’Agi? Il comunicato, su questo punto, è inizialmente piuttosto asciutto. Infatti, si limita a citare le “insistenti indiscrezioni e notizie sulla possibile vendita dell’Agenzia” che, effettivamente, circolano almeno da qualche giorno. Ma su questo torneremo dopo.

Al di là delle voci citate, il comunicato parte da un più solido terreno sindacale, relativo alle relazioni fra dipendenti e proprietà dell’Agi. Infatti, sempre secondo il comunicato, le indiscrezioni di cui sopra sono arrivate “poche settimane dopo la firma, avvenuta il 2 febbraio scorso, dell’accordo tra Cdr, Azienda e Fnsi (Federazione nazionale della stampa italiana) sulla procedura di isopensione, destinata a determinare entro l’anno una sensibile riduzione dell’organico”. Un accordo, spiega ancora il comunicato, che “è stato approvato con grande senso di responsabilità da parte dell’Assemblea dei redattori”, e cui “si era arrivati anche dopo le rassicurazioni verbali fornite dai vertici aziendali sull’assenza di trattative in essere per una vendita”. Un’assenza “sottolineata dalla presenza di un piano strategico 2024-2027 volto ad ‘implementare la strategia di trasformazione in una news company”.

Ora, si sa, il sindacalese è un gergo che presenta sempre delle difficoltà di lettura. E ciò, tanto più quando si intreccia con un altro gergo, il temibile aziendalese. Ma, letto e riletto questo testo, certamente un po’ spigoloso, quel che par di capire è che il Comitato di reazione, assieme alla Fnsi, cioè al sindacato nazionale dei giornalisti, aveva accettato quella che, in prospettiva, si presentava come una riduzione dell’organico – ottenuta per via di alcuni pensionamenti -, in cambio di rassicurazioni sul futuro editoriale dell’Agi.

A questo punto, il comunicato ricorda che l’editore dell’agenzia di stampa, ovvero l’Eni, nel corso degli anni si è dimostrato “capace di salvaguardare i livelli occupazionali e di garantire sempre l’indipendenza e l’autonomia dei giornalisti”. Ma, e qui si arriva finalmente al punto del contendere, tutti questi elementi “sarebbero fortemente a rischio nello scenario prospettato di vendita al gruppo editoriale Angelucci”.

Dopo aver ricordato che l’Agenzia Italia “è da oltre 70 anni un punto di riferimento dell’informazione italiana e ha sempre assicurato un notiziario di qualità e pluralista”, il comunicato si conclude cambiando tono, ovvero passando da un terreno strettamente relativo ai livelli di occupazione interni a un’azienda editoriale, a considerazioni che, passando dalla politica industriale relativa al settore dell’editoria, arrivano a più ampie questioni di democrazia. Riferendosi alle voci relative ai rapporti fra l’Eni e la parte editoriale del gruppo Angelucci, il comunicato si conclude, infatti, affermando che “in questa possibile compravendita, riteniamo sia in gioco la garanzia del pluralismo dell’informazione del Paese: un’agenzia di stampa, fonte primaria di informazione, è infatti per sua natura pluralista e imparziale”.

Fin qui il comunicato sindacale. Comunicato cui sarà forse opportuno aggiungere qualche nostra considerazione.

Prima considerazione. Una riduzione di organico perseguita attraverso pensionamenti, e richiesta da un’azienda a fronte dell’assunzione di un suo nuovo piano strategico, in determinate condizioni può essere considerata, anche da un’organizzazione sindacale, come uno strumento di rafforzamento delle prospettive industriali dell’azienda stessa. Ma qui, nel presente caso dell’Agi, par di capire che gli organismi sindacali dei giornalisti si sono sentiti come presi in giro; e ciò perché la prospettiva connessa al cambio di editore potrebbe essere radicalmente diversa: ovvero quella di un alleggerimento dell’organico volto a favorire un processo di concentrazione editoriale.

Seconda considerazione. Perché parliamo di concentrazione editoriale? Perché, come è ampiamente noto, il gruppo Angelucci si articola su due rami. Da un lato, il ramo su cui l’azienda è nata e si è via, via sviluppata, fino a trasformarsi in un tronco piuttosto robusto: quello della sanità privata. Dall’altro lato, il ramo innestatosi, successivamente, su quel medesimo tronco: quello dell’informazione.

Ora qui va precisato che, formalmente, non esiste un gruppo editoriale Angelucci. Esiste la famiglia Angelucci cui, anche se in termini e con modalità diverse, fanno capo ben cinque quotidiani cartacei: i milanesi Il Giornale e Libero, il romano Il Tempo, e i laziali Corriere di Rieti e Corriere di Viterbo. Alla famiglia Angelucci fa poi capo anche una società attiva nel campo dei servizi di promozione e marketing per l’editoria, denominata Gruppo Editoria Italia.

Come è anche altrettanto noto, da un punto di vista politico-culturale le testate citate sono tutte schierate sul lato destro del nostro spettro politico. E si fanno notare anche per il loro sostegno all’attuale Governo. Tanto che il direttore di una di queste testate, ovvero di Libero, Mario Sechi, giornalista peraltro molto stimato, l’anno scorso è stato per qualche mese a capo dell’Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio dei Ministri; per poi assumere, in settembre, la direzione del quotidiano milanese.

Terza considerazione. In democrazia, non c’è niente di male se un quotidiano palesa una sua specifica connotazione politica. Per le agenzie di notizie, però, la cosa è diversa. La loro credibilità si basa fortemente sulla loro, certo relativa, indipendenza.

Quarta considerazione. L’Agenzia Italia è sempre stata un fiore all’occhiello della stampa italiana. Non solo, è anche stata un fiore all’occhiello per l’Eni, l’Ente nazionale idrocarburi fondato, nel lontano 1953, da Enrico Mattei. Ma adesso stiamo vivendo uno strano periodo, in cui si ha l’impressione che il Governo guidato da Giorgia Meloni tenda a fare cassa, vendendo vari gioielli di famiglia, ovvero vari soggetti produttivi di proprietà pubblica o semi pubblica.

A occhio e croce, pare quindi di poter dire che l’iniziativa assunta dai Comitato di redazione dell’Agi dovrebbe essere seguita con attenzione non solo da chi si interessa alle vicende sindacali, ma anche da chi segue le più ampie vicende industriali relative al mondo dell’informazione, nonché le più ampie vicende politiche del nostro Paese.

In serata è poi uscito un comunicato dell’Associazione Stampa Romana che, oltre a dichiarare che l’associazione stessa si considera “accanto ai colleghi dell’Agi”, rileva che, al momento, non vi è ancora stata “nessuna smentita delle insistenti voci” relative a “una trattativa per la cessione dell’Agenzia di stampa al gruppo di Antonio Angelucci, parlamentare della Lega, da parte del colosso energetico controllato dal suo maggiore azionista, il ministero del Tesoro, di cui è titolare Giancarlo Giorgetti, anche lui della Lega”.

Il comunicato della Asr si conclude rilevando che le “circostanze” di questa “singolare” vicenda “richiederebbero trasparenza”.

Fernando Liuzzi

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Forza Italia, con Tajani verso una nuova Dc https://www.ildiariodellavoro.it/forza-italia-con-tajani-verso-una-nuova-dc/ Fri, 15 Mar 2024 08:55:29 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=184427 Uno degli aspetti più interessanti delle elezioni regionali svoltesi recentemente in Abruzzo, è sicuramente rappresentato dal risultato conseguito dalla lista di Forza Italia. Tale lista, infatti, con 77.841 voti, pari al 13,4%, si è piazzata al terzo posto assoluto, nonché al secondo posto nell’alleanza di centro-destra.

Sopra a Forza Italia, troviamo, anche se a una certa distanza, solo Fratelli d’Italia, con i suoi 139.578 voti (24,1%) e, a ridosso di questa lista, il Partito Democratico, con i suoi 117.497 voti (20,3%). Specularmente, per trovare la quarta lista, bisogna scendere di più di 30 mila voti. La quarta casella, in senso assoluto, è infatti occupata dalla lista Abruzzo Insieme (la seconda dell’alleanza di opposizione), che ha conseguito 44.353 voti (7,7%).

Ancora sopra i 40 mila voti, troviamo al quinto posto assoluto (terzo del centro-destra) la filiazione locale della Lega di Salvini (Lega Salvini Abruzzo), che si è dovuta accontentare di 43.816 voti (7,6%), mentre al sesto posto assoluto c’è il Movimento 5 Stelle, con appena 40.629 voti (7,0%).

Piccole o piccolissime cifre, si potrebbe dire, e per di più conseguite in un’elezione locale. Insomma, un risultato troppo contenuto, da un punto di vista quantitativo, e troppo eccentrico, da un punto di vista qualitativo, per ricavarne qualche significato nazionale.

Io, però, penso esattamente il contrario. Penso cioè che, dopo le elezioni abruzzesi, bisognerà guardare alla Forza Italia di Antonio Tajani con rinnovato interesse. E ciò per vari motivi.

Innanzitutto, direi che, dal punto di vista delle classifiche elettorali, ci troviamo, ormai, di fronte a un trend non solo positivo, ma anche abbastanza netto. Infatti, nell’ambito del centro-destra, Forza Italia si sta ormai configurando come il secondo partito, dietro a Fratelli d’Italia, ma sopra alla Lega, e non di poco. Tanto che sia in Sardegna, dove si è votato il 25 febbraio, che in Abruzzo, dove si è votato dopo appena due settimane, e cioè il 10 marzo, Forza Italia ha quasi doppiato la Lega. Nell’isola, il partito di Tajani ha preso 43.171 voti (6,3%), contro i 25.609 (3,7%) di quello di Salvini. In Abruzzo, come si è già visto, Forza Italia ha avuto 77.841 voti (13,4%), contro i 43.816 (7,6%) della Lega.

Risultati elettorali a parte, c’è però anche qualcosa di più profondo che ci obbliga a dedicare alla nuova Forza Italia una maggiore attenzione di quella che gli è stata data nei primi mesi successivi alla morte di Silvio Berlusconi. E questo qualcosa ha un nome e un cognome: quelli di Antonio Tajani.

Al momento della scomparsa di Berlusconi, molti – fra cui il sottoscritto – hanno pensato che la sua creatura politica, ovvero Forza Italia, non avesse un grande futuro davanti a sé. E ciò per due motivi. In primo luogo, il declino di Forza Italia era cominciato ben prima del giugno dell’anno scorso. Da un lato, c’era il progressivo esaurimento della forza attrattiva dell’originale progetto politico berlusconiano, dopo quasi un trentennio dalla sua fondazione (1994). Dall’altro, almeno apparentemente, stava un fatto che molti imputavano al Cavaliere, ovvero quello di non aver saputo, o voluto, costruire la figura di un suo successore che potesse sia ereditarne, che proiettarne in avanti, il lascito politico.

Ammetto di aver cominciato a cambiare idea solo in tempi molto recenti. E, precisamente, alla fine della settimana che ha immediatamente preceduto le elezioni in Sardegna. In quei giorni, da venerdì 23 a sabato 24 febbraio, si è infatti tenuto a Roma il Congresso nazionale di Forza Italia, quello che si è concluso con la plebiscitaria riconferma di Tajani nell’incarico che aveva assunto il 15 luglio dell’anno scorso, ovvero nell’incarico di Segretario nazionale del partito.

Ebbene, anche in questa occasione Radio Radicale ha assolto alla preziosa funzione di servizio pubblico che si è autoassegnata. Un po’ in diretta, e un po’ in differita, ho così potuto ascoltare comodamente da casa diversi e successivi passaggi di questo dibattito congressuale. E mi sono fatto l’idea che Forza Italia non sia più quell’incerto aggregato, sopravvissuto a un tempo che fu, che avevo immaginato tra me e me, ma si stia trasformando in una realtà politica rappresentativa di un’Italia poco conosciuta, provinciale e profonda. Un’Italia, ancora, laboriosa, moderata, bisognosa di essere rassicurata rispetto ai minacciosi orizzonti che ci circondano, ma anche vogliosa di operare nel privato per migliorare le proprie prospettive personali e familiari.

Insomma, mi sono fatto l’idea che Tajani abbia capito, con prudente realismo, che Berlusconi era ed è una figura assolutamente inimitabile. E comunque, non per lui imitabile, visto che l’uomo Tajani è lontanissimo dall’uomo Berlusconi. E dunque, niente studi televisivi, niente riflettori, niente cerone, niente battutacce, niente stadi di calcio, niente predellini, niente culto della propria personalità, niente folle osannanti. Soprattutto, niente Olgettine e niente “lettone di Putin”. Soprattutto nessuna ammiccante giustificazione della sciagurata invasione russa dell’Ucraina. Ma anzi, un certo qual dignitoso perbenismo, un solido rapporto col Partito Popolare europeo, e quindi anche un solido ancoraggio politico occidentale, da un lato europeista e, dall’altro, atlantista.

Il che non significa, nel modo più assoluto, un ingrato allontanamento dalla figura di Silvio Berlusconi. Figura cui, anzi, Tajani rimane prontissimo a porgere reiterati omaggi. Omaggi che, peraltro, sono risultati molto graditi dalla platea dei congressisti. Ma ognuno è sé stesso. E quindi Tajani non prova mai, neanche per sbaglio, ad azzardarne una qualsivoglia imitazione. Semmai, l’operazione è inversa. Perché, attraverso un silenzioso lavoro volto a stabilire un calibrato rapporto con i famosi e agognati “territori”, la nuova Forza Italia appare pronta ad accogliere e a lasciar spazio, staremmo per dire, al “Berlusconi che è in te”, ovvero ai mini giovani Berlusconi che albergano negli animi, nei sogni e nelle volontà di tanti giovani professionisti e piccoli imprenditori di provincia. Figure appartenenti a quei settori sociali che il Pci, nel suo linguaggio politico, chiamava, con evidente interesse, “ceti medi produttivi”, e che gli operaisti dei tardi anni 60 del Novecento chiamavano, con esibito disprezzo, “bottegai” o “padroncini”.

Ecco dunque l’entusiasmo dei tanti delegati dal nome ignoto, che raccontano con orgoglio ciò che stanno facendo in quella tal Regione o in quel tal Comune. Pronti a irridere “la sinistra”, ma anche a prendere le distanze dagli eccessi leghisti o dai conformismi dei fratelli e delle sorelle d’Italia. E soprattutto, pronti a esprimere la loro riconoscenza a Tajani, cioè all’uomo che ha saputo rapidamente trasformare il loro scoramento in una nuova speranza.

Tutto ciò, lo ripetiamo, ci obbliga e ci obbligherà a dare una maggiore attenzione alla nuova Forza Italia. Che non è più la Forza Italia corsara di Silvio Berlusconi, e non è ancora una nuova Dc. Anche se ha già stabilito, da un lato, promettenti rapporti di vicinanza con la Cisl di Luigi Sbarra, e, dall’altro, solidi legami col Partito Popolare europeo di Manfred Weber.

Una maggiore attenzione, dunque, volta, innanzitutto, a monitorare le conseguenze che questa auspicata e, almeno in parte, già ritrovata centralità del partito ormai guidato da Antonio Tajani avrà sui due lati del nostro teatro politico.

Dal lato destro, lo si è già visto, questa ritrovata centralità ha già cominciato a dare un concreto contributo al ridimensionamento della Lega di Salvini, che appare ormai relegata al ruolo di terza gamba dell’alleanza guidata da Giorgia Meloni. Anche se, per adesso, è troppo presto per immaginare quali conseguenze tale ridimensionamento potrà avere sia nell’insieme del centro-destra, che all’interno della stessa Lega.

Ma, cosa meno prevedibile fino a pochissimo tempo fa, con ogni probabilità la nuova vitalità di Forza Italia appare destinata ad avere effetti significativi anche sul cosiddetto centro dello schieramento politico, ovvero sull’ex Terzo Polo.

Infatti, come è ampiamente noto, sia Italia Viva di Matteo Renzi che Azione di Carlo Calenda sono nate avendo in mente qualche pensierino riguardo alla declinante Forza Italia dell’ultimo Berlusconi. Calenda, anzi, era stato più lesto di Renzi, offrendo rifugio, già nell’estate del 2022, a figure significative che, come Mara Carfagna e Mariastella Gelmini, lasciavano Forza Italia in polemica con lo stesso Berlusconi. Adesso, però, il più veloce è stato Renzi che già domenica 10 marzo, dalla Leopolda, ha aperto preventivamente il fuoco contro la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. E ciò, a prima vista, perché quest’ultima si è mostrata troppo amica di Giorgia Meloni; ma forse, anche per differenziare nettamente Italia Viva dal Partito Popolare Europeo di cui von der Leyen è esponente di spicco.

Sia come sia, il buon avvio dell’operazione di rivitalizzazione di Forza Italia intrapresa da Antonio Tajani costituisce un brutto colpo sia per Renzi che per Calenda. I quali, fra l’altro, non sono ancora riusciti a profittare dell’occasione che, in vista delle elezioni europee, è stata loro generosamente offerta da Emma Bonino. Quella di dar vita a una “lista di scopo” europeista che potesse consentire ai loro partiti, come a +Europa, di superare, tutti insieme, la soglia di sbarramento posta al 4%.

Adesso, a breve, c’è quindi il rischio che Forza Italia, invece di cedere parte del voto moderato ai partiti dell’opposizione più vicini al centro, riesca, al contrario, a catturare parte del voto neo-centrista, convogliandolo verso l’area conservatrice. Ovvero verso un’area che, in Italia, sostiene il Governo guidato da Giorgia Meloni, mentre, nel Parlamento Europeo, potrebbe rompere con i socialisti e finire per allearsi con la destra-destra. Il seguito, come si dice in questi casi, alla prossima puntata.

@Fernando_Liuzzi

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Più costi e meno profitti: Federmeccanica fa il punto in vista del contratto https://www.ildiariodellavoro.it/piu-costi-e-meno-profitti-federmeccanica-fa-il-punto-in-vista-del-contratto/ Wed, 13 Mar 2024 09:05:09 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=184338 Non si è forse mai visto che, alla vigilia di un impegnativo confronto contrattuale con le organizzazioni sindacali dei lavoratori, un’associazione imprenditoriale si metta a dire che, per le imprese ad essa associate, gli affari stanno andando a gonfie vele. Infatti, non risulta che le imprese abbiano mai cercato di stimolare gli appetiti rivendicativi dei sindacati.

Ora, come è noto, entro la prima metà del prossimo mese di aprile, i sindacati dei metalmeccanici italiani porteranno a compimento l’ampia consultazione che hanno avviato nelle fabbriche sulla bozza di piattaforma messa a punto, nel febbraio scorso, in vista dell’imminente rinnovo contrattuale. E tuttavia, non ci sentiamo di ipotizzare che l’insistenza con cui i massimi dirigenti di Federmeccanica hanno sottolineato i dati non positivi relativi alla nostra industria metalmeccanica, raccolti nell’Indagine congiunturale presentata ieri a Roma, sia dovuta a una scelta tattica di natura preventiva. E ciò per vari motivi.

Innanzitutto, perché c’è una continuità fra i dati contenuti nell’indagine congiunturale n. 168, quella presentata il 14 dicembre scorso, e quelli contenuti nell’edizione n. 169, quella presentata ieri. In secondo luogo, perché c’è una coerenza fra i ragionamenti analitici già svolti da Federmeccanica nel recente passato e quelli svolti ieri. E in terzo luogo, perché i caratteri non confortanti di questi dati hanno offerto al Presidente di Federmeccanica, Federico Visentin, l’occasione per rivolgersi direttamente, in termini critici, al Governo italiano. Cosa non frequente in questi periodici appuntamenti con le indagini trimestrali dell’associazione delle imprese metalmeccaniche e meccatroniche.

Ma cominciamo dai dati.

Primo punto. L’indagine congiunturale n. 169, quella di cui stiamo parlando, ci dice che, nel 2023, la produzione industriale italiana, complessivamente intesa, è in decrescita “chiudendo l’anno con un -2,9% rispetto al 2022”.

Fra le cause di questo arretramento, i “fattori di forte criticità” ricordati da Federmeccanica: “i conflitti in corso, con tensioni geopolitiche crescenti”, le “ripercussioni negative” che tali conflitti hanno “sulle catene di approvvigionamento”, nonché “i costi del credito, ancora elevati”.

Secondo punto. Nel settore metalmeccanico, la situazione si presenta meno negativa di quella relativa all’insieme dell’industria. Qui, infatti, i volumi produttivi, nel 2023, sono “mediamente diminuiti dello 0,7% rispetto al 2022”. Tuttavia, per consentirci di cogliere appieno il valore di questa diminuzione, apparentemente non grave, Federmeccanica ci ricorda che, nella media dei Paesi dell’Unione Europea, tali volumi sono cresciuti, sempre nel 2023, dello 0,5%.

Ancor più rilevante, poi, il confronto con altri importanti Paesi industriali della UE: nello stesso 2023, i volumi produttivi della metalmeccanica/meccatronica sono cresciuti del 2,0% in Germania, del 3,8% in Spagna e del 4,5% in Francia. E quindi, visti questi dati, crediamo di poter dire che, relativamente, l’industria metalmeccanica italiana ha perso non poco terreno.

Terzo punto. Come è noto, l’export è uno dei punti di forza della nostra industria metalmeccanica. Purtroppo però, come osserva Federmeccanica, “a causa delle crescenti tensioni globali che hanno caratterizzato il 2023”, la “frenata del commercio mondiale (…) ha avuto riflessi negativi sugli scambi internazionali del nostro Paese”. Infatti, nel 2023 “le esportazioni metalmeccaniche”, se confrontate con quelle del 2022, sono sì cresciute del 2,7%, ma questa crescita è notevolmente inferiore a quella verificatasi nell’anno precedente. Infatti, tali esportazioni, nel 2022, erano cresciute di un +14,5% rispetto al 2021.

Siamo dunque di fronte a un “rallentamento dell’export”. Rallentamento che “è stato ben evidenziato dalla dinamica discendente delle vendite all’estero che sono costantemente diminuite nei singoli trimestri, fino a diventare negative nel quarto trimestre 2023 (-1,1%)”.

Quarto punto. Fin qui, abbiamo visto i dati relativi all’insieme del 2023. Per ciò che riguarda poi, più specificamente, il quarto trimestre dell’anno scorso, secondo Federmeccanica, i risultati dell’indagine n. 169 rilevano una persistente “debolezza” dell’attività produttiva. Infatti, mentre alla fine del terzo trimestre 2023, il numero delle imprese intervistate che dichiaravano di avere un portafoglio ordini in miglioramento era pari al 25% del totale, alla fine del quarto trimestre tale numero si è contratto al 23%. Inoltre, la quota delle imprese che “prospettano una stazionarietà dei livelli di produzione” sale al 52% dal 46% della precedente rilevazione. Mentre “giudizi negativi sul livello degli ordini prevalgono nelle piccole e medie imprese”.

Infine, per ciò che riguarda le prospettive dell’occupazione, solo il 20% delle imprese intervistate “presume di dover aumentare, nel corso dei prossimi sei mesi, gli attuali livelli occupazionali”. Ciò “a fronte del 67%” di tali imprese che ritiene di dover lasciare “inalterati” tali livelli e del 19% che, invece, prevede una loro “riduzione”.

Quinto punto. E veniamo, adesso, a quella che, forse, è la preoccupazione più acuta per Federmeccanica. Una preoccupazione cui, ieri, ha dato voce Diego Andreis, Vicepresidente dell’Associazione, collegato da remoto all’albergo romano che ha ospitato la conferenza stampa di presentazione dell’indagine. Proseguendo e implementando un ragionamento che aveva già avviato nella presentazione dell’Indagine congiunturale n. 168, Andreis ha denunciato “l’impatto che l’incremento dei costi ha avuto e continua ad avere sulla marginalità delle nostre imprese”. E ha proseguito affermando che “più del 60% delle nostre aziende ha un Margine Operativo Lordo sul fatturato inferiore al 10%, soglia che delimita una zona rossa dalla quale si deve uscire”. Aggiungendo che “è estremamente preoccupante trovare addirittura più del 30% delle imprese sotto il 5% di MOL”, con un “alto rischio di scendere sotto il livello di sopravvivenza”.

“L’incremento dei costi che abbiamo subìto in questi anni – ha poi spiegato Andreis – ha eroso la profittabilità della stragrande maggioranza delle nostre imprese, quasi il 70%.” Infatti, ha aggiunto il Vicepresidente di Federmeccanica, sono pochissime “le aziende che hanno trasferito l’incremento dei costi sui prezzi dei loro prodotti. Una fetta molto significativa delle nostre imprese, più del 30%, non ha scaricato a valle alcun incremento dei costi, e si arriva alla quasi totalità considerando anche la parte di aziende che ha operato un trasferimento parziale sui prezzi”.

E qui, nel ragionamento di Andreis, si arriva all’unico riferimento, sia pure relativamente indiretto, a uno dei temi che sarà verosimilmente al centro della prossima trattativa contrattuale: “Tante, troppe imprese si trovano strette tra incremento dei costi e mancato aumento dei prezzi dei loro prodotti. Tantissime aziende hanno assorbito buona parte dell’inflazione, finendo per pagarla due volte dopo aver adeguato ex post i salari dei propri collaboratori all’Ipca Nei (Indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi della UE, al netto dei beni energetici importati)”.

Morale della favola: “È facile comprendere quanto tutto questo possa comportare per chi aveva già una marginalità molto bassa. Aziende con marginalità in contrazione sono aziende che perdono sempre più capacità, ma anche propensione all’investimento”. E ciò “in un contesto dove investimenti in tecnologia e competenze sono fondamentali per avere un futuro”.

Sesto punto. In conclusione della presentazione dell’indagine, ha preso la parola il Presidente di Federmeccanica, Federico Visentin. Il quale, sia pure col suo tono pacato, ha lanciato un vero e proprio allarme: “Italia – ha detto – abbiamo un problema! Si chiama competitività”. I dati “della nostra indagine”, ha poi aggiunto, “parlano chiaro: stiamo perdendo competitività. E questo è un problema, un grande problema. Gli altri Paesi europei nostri concorrenti hanno aumentato la loro produzione industriale, il nostro Paese l’ha ridotta”.

Visentin ha poi sottolineato un fenomeno che abbiamo già visto: “Le esportazioni, che per la metalmeccanica/meccatronica sono da sempre un fondamentale volano di crescita, hanno prima rallentato il passo con un incremento via, via minore, fino ad arretrare nell’ultimo trimestre del 2023. Vedere il segno più davanti all’export con la doppia cifra era una costante. Osservare, nel corso del tempo, il passaggio a una cifra e infine al segno meno impressiona, fa riflettere e ci deve far agire. La competitività della nostra industria sarà la nostra assoluta priorità e lo deve essere per tutti: è in gioco il futuro di tutti noi, non solo della metalmeccanica/meccatronica”.

E qui i massimi dirigenti di Federmeccanica hanno chiamato in causa il Governo. Andreis ha ricordato che “da tempo chiediamo che ci siano interventi strutturali sul cuneo fiscale”, ovvero interventi che “possano comportare benefici sia per i collaboratori, che per le imprese”. Mentre Visentin, dopo aver affermato che “un Governo che volesse aiutare le imprese dovrebbe contenere i costi dell’energia e occuparsi dei tassi troppo alti”, ha sollevato la questione degli aiuti governativi volti a consentire alle imprese di affrontare i costi della transizione digitale. Atteso che l’ultima proroga della cosiddetta Industria 4.0, l’efficace provvedimento volto a sostenere le attività di innovazione delle imprese – voluto da Carlo Calenda quando era ministro dello Sviluppo Economico – è scaduta a fine novembre 2023, Visentin ha lamentato che a metà marzo del 2024 non sia ancora stato messo a punto un nuovo provvedimento di legge relativo alla cosiddetta Industria 5.0. E ha anche avanzato il timore che le nuove norme rendano troppo difficile per molte imprese, e specie per quelle di minori dimensioni, mettere a punto le pratiche necessarie per avere gli auspicati benefici fiscali.

Insomma, stando a ciò che dice il Governo, che peraltro influenza molti mezzi di informazione, le cose non vanno poi così male, per l’economia del nostro Paese. E d’altra parte, non è che, dalle forze di opposizione, si ascoltino approfondite analisi che vadano in senso contrario. Ma il confronto con i dati di un singolo settore – ancorché rilevante come quello dell’industria metalmeccanica e della installazione di impianti – messi insieme e dotati di un senso da un’associazione imprenditoriale come Federmeccanica, può indurre pensieri diversi. In realtà, i problemi che stanno davanti al nostro sistema produttivo sono molto seri. Purtroppo, il dibattito pubblico sembra concentrarsi su altre questioni, non sempre così rilevanti.

@Fernando_Liuzzi

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Metalmeccanici, la piattaforma per il nuovo contratto guarda al salario, all’orario, ma anche alle transizioni https://www.ildiariodellavoro.it/metalmeccanici-la-piattaforma-per-il-nuovo-contratto-guarda-al-salario-allorario-ma-anche-alle-transizioni/ Wed, 21 Feb 2024 16:26:03 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=183757 Servizio video di Emanuele Ghiani; Interviste di Fernando Liuzzi

Con l’Assemblea dei 500, svoltasi ieri a Roma, presso il teatro Italia, i sindacati dei metalmeccanici hanno compiuto una tappa significativa lungo il percorso che punta al rinnovo del Contratto nazionale attualmente vigente per i lavoratori della massima categoria dell’industria manifatturiera. Ovvero al rinnovo del Contratto che, il 5 febbraio del 2021, in piena epidemia da Covid-19, fu firmato da Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil con Federmeccanica e Assistal, le due organizzazioni imprenditoriali aderenti a Confindustria che associano le imprese del settore che raggruppa l’industria metalmeccanica propriamente detta e quella della installazione di impianti.

Il rinnovo contrattuale di cui stiamo parlando, ricordiamolo subito, grazie ai dati che sono stati forniti ieri dai tre sindacati, riguarda più di 1 milione e 500 mila fra lavoratrici e lavoratori. Questi lavoratori costituiscono circa il 6,2% degli occupati nel nostro Paese. Ma va sottolineato che, grazie anche al loro impegno, i risultati delle attività produttive delle circa 30.000 imprese in cui tali lavoratori prestano la loro opera, sono stati pari, nel 2022, all’8% del nostro Pil e al 45% delle nostre esportazioni. Questo, in generale. Se, invece, si fa riferimento solo all’insieme dell’industria manifatturiera, si vedrà che il comparto metalmeccanico rappresenta il 44% dell’occupazione e quasi il 50% del valore aggiunto.

Chiarite le proporzioni del settore economico di cui ci stiamo occupando, torniamo al percorso del rinnovo contrattuale cui abbiamo sopra accennato. Dalla metà di dicembre dell’anno scorso, alla metà di gennaio dell’anno in corso, i tre sindacati confederali dei metalmeccanici, in vista di tale rinnovo, hanno avviato quella che è stata definita come una fase di ascolto delle voci di lavoratrici e lavoratori. Fase volta a raccogliere le problematiche più diffusamente o più acutamente avvertite nella categoria.

Al termine di questo ampio e partecipato sondaggio, le Segreterie nazionali di Fim, Fiom e Uilm hanno messo a punto una Ipotesi di Piattaforma composta da una premessa cui seguono 11 punti rivendicativi, ciascuno dei quali è, a sua volta, abbastanza articolato.

Due giorni fa, ovvero nella giornata di lunedì 19 febbraio, si sono poi riuniti a Roma, separatamente, gli organismi dirigenti nazionali dei tre sindacati. Organismi cui è stata sottoposta la stessa Ipotesi di Piattaforma e che, dopo approfondite discussioni, la hanno approvata.

Dopodiché, come si diceva all’inizio, ieri, martedì 20 febbraio, l’Ipotesi di Piattaforma è stata presentata alla cosiddetta Assemblea dei 500, ovvero a un’assemblea composta da delegati provenienti dai luoghi di lavoro e da dirigenti locali dei tre sindacati. Anche se, a quanto pare, i lavoratori e i sindacalisti presenti ai lavori dell’assemblea, svoltasi in mattinata, sono risultati ben più di 500.

Ma non si deve credere che il percorso di cui stiamo parlando sia finito qui. Infatti, si può dire che cominci adesso un’altra delle pagine più importanti del percorso stesso, ovvero quella della validazione democratica dell’ipotesi rivendicativa. Lunedì prossimo, 26 febbraio, si aprirà una campagna di assemblee, volta a portare tale ipotesi alla conoscenza diretta del maggior numero possibile di metalmeccaniche e metalmeccanici. Infine, da venerdì 8 a domenica 10 aprile, si svolgerà il referendum in cui l’ipotesi di piattaforma verrà sottoposta al voto segreto delle lavoratrici e dei lavoratori.

L’abbiamo fatta un po’ lunga. Ma questa scelta del vostro cronista, pur discutibile, non è stata fatta a caso. E’ stata fatta perché ci è parso necessario ricordare tutti i passaggi di un percorso che, intenzionalmente, vuole essere ancora all’altezza delle tradizioni democratiche della categoria, quelle tradizioni che risalgono all’autunno caldo del 1969, ovvero alla fase che portò alla formazione dei mitici Consigli di fabbrica.

Ma veniamo adesso alla struttura della piattaforma e ai suoi contenuti. Struttura e contenuti che ieri, dopo la conclusione della citata assemblea, sono stati illustrati alla stampa dai Segretari generali dei tre sindacati dei metalmeccanici, ovvero da Roberto Benaglia (Fim-Cisl), Michele De Palma (Fiom-Cgil) e Rocco Palombella (Uilm-Uil).

Come sopra accennato, l’ipotesi rivendicativa presentata ieri si articola su 11 punti: relazioni industriali; inquadramento; welfare integrativo; ambiente, salute e sicurezza sul lavoro; occupazione e mercato del lavoro; riduzione dell’orario di lavoro; conciliazione fra tempi di vita e lavoro; politiche di genere; salario; diritti sindacali; percorso democratico.

L’ultimo punto lo abbiamo già visto e commentato. Qui basterà aggiungere che la pratica della “consultazione certificata” non vale solo all’andata, ma, ovviamente, anche al ritorno, se così si può dire. In altre parole, anche l’auspicata ipotesi di accordo, quando sarà definita, verrà sottoposta al “voto segreto delle lavoratrici e dei lavoratori”.

Quanto ai primi dieci punti dell’ipotesi illustrata ieri, diciamo subito che non è semplice riassumerli in questa sede. Infatti, la piattaforma ha una sua indubbia complessità. Ci proponiamo quindi di ritornare su di essi con specifici contributi analitici.

Ci sono però tre cose che possiamo dire già adesso. Qualche parola su salario e orario e un primo giudizio sull’insieme dell’ipotesi rivendicativa.

Si sa che, di fronte all’apertura di una vertenza contrattuale, i cronisti si sentono in dovere di rispondere subito alle due domande che, con ogni probabilità, verranno proposte per prime dal pubblico dei lettori, dei radioascoltatori o dei telespettatori: “Quanti soldi in più”; e “Quante ore in meno”. Richieste di informazione certamente legittime. Ma il fatto è che la cultura sindacale maturata nel confronto fra rappresentanti dei lavoratori e rappresentanti delle imprese nella categoria dei metalmeccanici, almeno a partire dal Contratto rinnovato nel novembre del 2016, ha maturato delle sue complessità che rendono più difficile rispondere seccamente a quelle due domande.

Ma cerchiamo di farlo, a partire dal tema, per certi aspetti, più attuale, quello dell’orario di lavoro. Un tema che la piattaforma affronta avendo in mente, e citando i nessi, fra questa problematica e “i cambiamenti epocali” che sono oggi in corso a causa delle transizioni “ecologica, digitale e tecnologica”, nonché con gli annessi “processi di riorganizzazione e crisi”.

Ebbene, avendo presenti le esperienze già fatte in tema di “rimodulazione” degli orari – “telelavoro, lavoro agile, ecc.” -, nonché le tematiche del “maggior utilizzo degli impianti” e delle conseguenti “nuove turnistiche”, oltre alla problematica della “conciliazione” fra “tempi di vita e di lavoro”, l’ipotesi di piattaforma non chiede una riduzione secca dell’orario, ma chiede che “si avvii una fase di sperimentazione contrattuale” con “l’obiettivo di raggiungere progressivamente una riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore settimanali”. E ciò “facendo salve le intese aziendali esistenti”.

Insomma, come nella miglior tradizione sindacale italiana, la piattaforma cerca di mantenere e implementare un rapporto virtuoso, di reciproca implementazione, fra contratto nazionale e contrattazione aziendale. Allo stesso tempo, non presenta una rivendicazione del tipo prendere o lasciare, ma si propone di avviare un percorso che possa tenere insieme, anche qui in modo virtuoso, i nuovi bisogni sia dei lavoratori che delle imprese.

E veniamo al salario. Innanzitutto, dobbiamo ricordare che gli ultimi effetti retributivi del Contratto attualmente vigente scatteranno a fine giugno del corrente anno. È infatti ai primi di giugno che l’Istat deve rendere noto l’andamento dell’inflazione misurato dall’Ipca, ovvero dall’Indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi dell’Unione europea, depurato dai costi energetici importati. Annuncio che dovrebbe avere effetti cogenti sul pagamento dell’ultima tranche degli aumenti salariali contemplati dall’accordo del febbraio 2021.

Dopodiché, ci limiteremo qui a osservare che la piattaforma di cui stiamo parlando si appoggia, saldamente, su tre punti fermi: i Contratti nazionali di categoria del novembre 2016 e del febbraio 2021, nonché il Patto per la fabbrica definito nel marzo 2018 tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria. Con tutto ciò che questo significa in materia di rapporto tra inflazione e difesa del potere di acquisto delle retribuzioni.

Ciò detto, nell’ipotesi di piattaforma si può leggere che “la nostra richiesta di aumento, relativa al periodo di vigenza 2024-2027, è pari a 280 euro al livello C3 (ex 5° categoria)”. Laddove questa cifra media va intesa come somma di aumenti scaglionati anno per anno.

Infine, eccoci al primo giudizio complessivo cui ci eravamo impegnati. Letta e riletta l’ipotesi di piattaforma, ci pare di poter dire che ci troviamo di fronte a un testo frutto di serie riflessioni. Un testo, ancora, che, pur partendo dai risultati acquisiti con i precedenti contratti, o anzi, forse proprio perché fa tesoro delle esperienze più recenti, oltre che di quelle passate, cerca di trovare risposte possibili non solo ai nuovi problemi oggi avvertiti da lavoratrici e lavoratori (salute, sicurezza, orari), ma anche alle problematiche generali, come appunto quelle delle cosiddette transizioni oggi in corso (ambientale, tecnologica e digitale) che pongono domande ineludibili alle stesse imprese.

@Fernando_Liuzzi

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Ex Ilva, la situazione precipita, il governo chiama i sindacati https://www.ildiariodellavoro.it/ex-ilva-la-situazione-precipita-il-governo-chiama-i-sindacati/ Mon, 19 Feb 2024 09:03:44 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=176520 Stasera, nuovo incontro Governo-sindacati sull’infinita vicenda della ex Ilva. O per dir meglio, i sindacati dei metalmeccanici – Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil – sono riusciti a ottenere per stasera un nuovo incontro, che dovrebbe svolgersi a palazzo Chigi, col ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso.

Al momento, è difficile prevedere quali risultati potrà portare questo appuntamento. Ma quel che è certo è che mai una riunione fra i rappresentanti dell’Esecutivo e quelli dei lavoratori della ex Ilva è stato annunciato in una situazione così drammatica come quella che si è creata in questi ultimi giorni.

Infatti, il punto vero della questione è che non siamo più in una delle classiche situazioni del conflitto industriale. Una di quelle situazioni in cui da una parte c’è un’impresa, magari un grande gruppo, e dall’altra i lavoratori da essa dipendenti, con in mezzo il Governo a cercare di favorire un’intesa. Ormai, il conflitto frontale fra Acciaierie d’Italia – la società mista pubblico-privata nata nell’aprile 2021 per gestire le attività produttive della ex Ilva – e i sindacati, o il braccio di ferro fra il Governo e ArcelorMittal, il socio privato di AdI, hanno lasciato il posto alla frammentazione di questo confronto-scontro in una serie di conflitti parziali che si svolgono in parte a Taranto e in parte a Milano, con l’aggiunta di sfiancanti tentativi, almeno fin qui non coronati dal successo, di governare da Roma l’intera vicenda, per indirizzarla verso un qualche approdo.

A Taranto, il conflitto più drammatico, in questo momento, non è quello fra Acciaierie d’Italia e sindacati, ma quello che oppone alla grande azienda siderurgica le imprese dell’indotto, creditrici di somme sempre più consistenti.

Ma, sempre a Taranto, si sono profilati anche forti dissensi fra i Commissari che esercitano l’Amministrazione straordinaria della ex Ilva e l’Amministratore delegato di AdI, Lucia Morselli. Infatti, secondo i Commissari, AdI si sarebbe rifiutata di fornire loro alcuni dati da essi stessi richiesti. Circostanza negata da Morselli.

A Milano, invece, sede di Acciaierie d’Italia, si è fatto sempre più aspro il contrasto interno che oppone il socio pubblico Invitalia (38%) al socio privato ArcelorMittal (62%). Col primo che insiste per ottenere la messa di AdI in amministrazione straordinaria, e il secondo che si oppone, accampando una sua volontà di raggiungere un accordo fra le parti che scongiuri il commissariamento.

Ma a Milano non c’è solo la sede di Acciaierie d’Italia. C’è anche il Tribunale competente in merito agli aspetti giudiziari delle vicende della maggiore impresa siderurgica attiva nel nostro Paese. A questo Tribunale, AdI si era dunque rivolta, come scrive Il Sole 24 Ore di sabato 17 febbraio, “per ottenere misure cautelari e confermare quelle protettive verso i più importanti creditori”. Ma il giudice milanese Francesco Pipicelli, dopo aver ricordato che “per la conferma delle misure protettive, condizione necessaria è l’esistenza di una concreta, attendibile e realistica prospettiva di risanamento dell’impresa”, ha affermato che “una prognosi positiva”, allo stato, “non pare sussistere, in quanto la situazione finanziaria attuale”, nonché “l’assenza di disponibilità di soci o di terzi” a “rifinanziare AdI Spa”, “non sembrano consentire all’impresa ricorrente di avere una liquidità di cassa a breve per l’acquisto di materie prime e per la stessa sopravvivenza della continuità aziendale diretta”.

La situazione sta dunque precipitando. E infatti, nella giornata di ieri Invitalia ha reso noto di aver “inoltrato al Ministero delle Imprese e del Made in Italy un’istanza per le conseguenti valutazioni tecniche e amministrative per la procedura di amministrazione straordinaria per Acciaierie d’Italia”. La prosa legalese è un po’ pesante per il lettore non specialistico, ma il fatto ci pare sufficientemente chiaro.

A questo punto, porgiamo orecchio a ciò che è stato detto a Roma, sede del Governo. E così apprendiamo che il titolare del Mimit, ovvero il ministro Adolfo Urso, ci è andato giù pesante. Egli, infatti, ha affermato che “l’investitore straniero che guida l’Azienda, e che ha la maggioranza delle azioni, non intende mettere risorse nell’azienda” stessa. E ha poi aggiunto che se tale soggetto (che immaginiamo sia la qui non citata ArcelorMittal) “non intende investire sull’impresa”, allora “credo che sia giusto che il Paese si riappropri di quello che è il frutto del lavoro e del sacrificio di intere generazioni”.

Sempre ieri, si è appreso che Acciaierie d’Italia, già nei giorni scorsi, avrebbe presentato una istanza di “concordato con riserva” per la capogruppo e le sue controllate. Secondo quanto scrive l’agenzia Ansa, si tratterebbe, di fatto, di una “contromossa preventiva (…) che avvia una procedura diversa, che richiede tempi più lunghi, da quella dell’amministrazione straordinaria”.

La sensazione è insomma che la rottura fra Invitalia, ovvero il Governo italiano, e il colosso siderurgico indiano-lussemburghese ArcelorMittal, non possa più essere recuperata. In tarda serata, dopo l’incontro con i sindacati dei metalmeccanici, dovremmo saperne di più.

@Fernando_Liuzzi

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Acciaierie d’Italia verso l’Amministrazione straordinaria https://www.ildiariodellavoro.it/acciaierie-ditalia-verso-lamministrazione-straordinaria/ Fri, 19 Jan 2024 10:50:13 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=175354 L’intreccio si infittisce. Non ci crederete, ma è proprio questa la sintesi che si può fare della puntata odierna dell’infinita storia di quell’azienda che prima si chiamava Ilva, poi è stata chiamata, convenzionalmente, ex Ilva e attualmente si chiama Acciaierie d’Italia. Senza mai dimenticare che l’Ilva in Amministrazione straordinaria esiste ancora, ed è proprietaria degli impianti gestiti da AdI.

L’intreccio si infittisce, dunque. E ciò accade proprio nel momento in cui la vicenda Ilva si allontana dagli impianti siderurgici di Taranto, Genova e Novi Ligure non solo per infilarsi su e giù per le scale di Palazzo Chigi e di altre sedi governative romane, ma anche per raggiungere gli uffici che ospitano gli Amministratori delegati e per far capolino in qualche studio legale, oltre ad avventurarsi verso diverse sedi amministrative e giudiziarie milanesi.

Di che cosa stiamo parlando? Di ciò che è uscito fuori dall’ennesimo incontro Governo-sindacati che si è svolto ieri pomeriggio a Palazzo Chigi. Da una parte, i Segretari generali dei sindacati dei metalmeccanici – Benaglia (Fim), De Palma (Fiom) e Palombella (Uilm) -, dall’altra una nutrita pattuglia governativa coordinata dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano.

Ma diciamo subito che, data la complessità della situazione, questo incontro non ha avuto, né avrebbe potuto avere, un carattere negoziale nel senso stretto del termine. Come prevedibile, infatti, l’incontro ha avuto, essenzialmente, una funzione informativa. Anche se, va detto, si è trattato di informazioni che segnano sviluppi significativi dell’intera vicenda.

Prima di entrare nello specifico dell’incontro di cui stiamo parlando, ricordiamo lo scenario in cui esso si è collocato. Dopo l’incontro col vertice di ArcelorMittal, rappresentato dall’Amministratore delegato Aditya Mittal, svoltosi a Palazzo Chigi l’8 gennaio scorso, il Governo italiano, con l’intervento in Senato del ministro Adolfo Urso dell’11 gennaio, ha preso atto della rottura strategica palesatasi tra i propri disegni e quelli del colosso siderurgico indiano-lussemburghese. Dopo aver tentato la strada di un divorzio consensuale fra i due soci di Acciaierie d’Italia, ovvero tra il socio pubblico Invitalia (38%) e il socio privato ArcelorMittal (62%), nella giornata di martedì 16 gennaio lo stesso Governo ha varato un nuovo decreto in materia di crisi aziendali. Decreto volto anche a facilitare il ricorso alla messa di Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria.

Ieri sera, dopo l’incontro con i sindacati dei metalmeccanici, il Governo ha quindi emesso una nota in cui ha dichiarato, appunto, di aver “illustrato alle organizzazioni di categoria i contenuti del decreto legge approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 16 gennaio”. Dopodiché, lo stesso Governo, è scritto ancora nella nota, “ha informato i rappresentanti dei lavoratori in merito agli ultimi sviluppi del confronto con il socio di maggioranza” all’interno di Acciaierie d’Italia, e cioè con ArcelorMittal.

Si tenga presente, per poter andare avanti nella lettura del comunicato governativo, che Invitalia, come hanno scritto ieri Paolo Bricco e Carmine Fotina sul Sole 24 Ore, ha “voce in capitolo” all’interno di Acciaierie d’Italia Holding, e non nella società operativa denominata, semplicemente, Acciaierie d’Italia. Ebbene, “lo scorso 15 gennaio”, prosegue la nota, “Acciaierie d’Italia (…), nonostante le trattative in corso, ha presentato istanza presso la Camera di commercio di Milano per la composizione negoziata”. Laddove, hanno ricordato ancora Bricco e Fotina, la “composizione negoziata” costituisce “uno strumento giudiziale previsto dal nuovo Codice della crisi d’impresa”. Uno strumento, aggiungiamo noi, che, una volta attivato, prevede dei suoi percorsi specifici.

Pare insomma di capire che ArcelorMittal, attraverso la società operativa Acciaierie d’Italia, sia stata più lesta del Governo e già lunedì scorso, e cioè prima che l’Esecutivo mettesse a punto il suo nuovo decreto, ha avviato tale procedura presso la Camera di commercio competente per territorio. Ovvero, in questo caso, presso la Camera di commercio di Milano, dal momento che il capoluogo lombardo è la città ove hanno sede sia la Holding, sia la società operativa. Una collocazione territoriale derivante, probabilmente, dai tempi in cui l’Ilva, prima di essere commissariata, era ancora in mano ai Riva.

Pare anche di capire che l’istanza di composizione negoziale sia vissuta, almeno da alcuni protagonisti della vicenda, più come un tentativo di allungare i tempi di questa fase della storia della ex Ilva, che non come una strada utile alla ricerca di un accordo in extremis.

Sia come sia, tornando alla nota di cui sopra, in essa si può leggere, a questo punto, un passo particolarmente significativo. Eccolo: “La delegazione del Governo ha annunciato che il socio pubblico di Acciaierie d’Italia”, ovvero Invitalia, “ha inviato nella giornata di ieri”, cioè nella giornata del 17 gennaio, “una lettera ad Acciaierie d’Italia Holding” e a “Acciaierie d’Italia” per “chiedere la verifica dei presupposti per avviare le procedure per l’amministrazione straordinaria dell’ex Ilva”.

Oltre a ciò, si legge ancora nella nota, “Il Governo ha annunciato che, qualora sia avviata la procedura di amministrazione straordinaria, sarà garantita la liquidità corrente con un prestito ponte a condizioni di mercato per 320 milioni di euro. Inoltre, “i rappresentanti dell’Esecutivo hanno informato che la fase di amministrazione straordinaria sarà temporanea e che il Governo è alla ricerca dei migliori partner privati con l’obiettivo di salvaguardare la continuità produttiva, tutelare l’occupazione e garantire la sicurezza dei lavoratori”.

Infine, si legge ancora nella nota governativa, le parti “hanno convenuto sul momento estremamente difficile dell’ex Ilva e hanno concordato di proseguire il confronto”. In particolare, “già nei prossimi giorni sarà aperto al Mimit e al ministero del Lavoro un tavolo sulla vicenda che riunirà tutti i soggetti interessati: istituzioni locali, sindacati e associazioni datoriali”.

Concludendo: con la lettera indirizzata mercoledì da Invitalia ai due livelli – holding e società operativa – di Acciaierie d’Italia, il percorso che può portare alla collocazione della società in amministrazione straordinaria è stato ormai imboccato. Secondo varie fonti, per raggiungere questo traguardo sarebbero necessari 14 giorni.

Un’ultima notizia, uscita nella tarda serata di ieri. Il Consiglio di Stato ha sospeso l’ordinanza del Tar della Lombardia sull’interruzione della fornitura di gas da parte della Snam ad Acciaierie d’Italia. In pratica, ha scritto sul suo sito l’agenzia Ansa, è venuta meno per Snam “la possibilità di interrompere le forniture” alla stessa Acciaierie d’Italia. Per la sopravvivenza a breve di AdI, quella di cui stiamo parlando si presenta, indubbiamente, come una buona notizia. Ma, poiché il contenzioso con Snam è stato originato da significativi ritardi nel pagamento delle fatture, si tratta anche di una notizia che consente di capire, immediatamente, la gravità della situazione in cui versa il grande gruppo siderurgico.

@Fernando_Liuzzi

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Ex Ilva, l’unica certezza è l’incertezza https://www.ildiariodellavoro.it/ex-ilva-lunica-certezza-e-lincertezza/ Fri, 12 Jan 2024 15:22:49 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=175174 L’unica certezza con cui si è chiuso, ieri sera, l’ennesimo incontro tra il Governo e i sindacati dei metalmeccanici sulla ex Ilva, è che il prossimo incontro è stato fissato tra una settimana, ovvero per la giornata di giovedì 18 gennaio. Tuttavia, non si può dire che questo nuovo appuntamento costituisca solo l’ennesimo rinvio nell’ambito di una infinita storia di rinvii. Infatti, almeno sul piano della comunicazione, la giornata di giovedì 11 gennaio ha segnato una tappa importante nella vicenda della ex Ilva. E quindi la convocazione di un nuovo incontro per la prossima settimana non è solo la conseguenza di un’incertezza di fondo nella conduzione governativa della vicenda stessa, come è accaduto più volte in passato, ma la ragionevole conseguenza del fatto che, a quanto pare, il Governo italiano si è dato, almeno sul piano tattico, un obiettivo preciso: esplorare, di qui a mercoledì 17 gennaio, le possibilità di impostare un divorzio consensuale da ArcelorMittal.

Per ciò che riguarda la vicenda di cui stiamo parlando, l’evento principale della giornata di ieri è stata l’informativa resa al Senato, in mattinata, dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso. Il quale ha chiarito il suo pensiero fin dall’inizio del suo intervento, quando, a proposito della ex Ilva, ha parlato della volontà del Governo di imprimere una “svolta netta” rispetto a quanto accaduto negli ultimi dieci anni. E ha poi rincarato la dose affermando che il Governo intende “invertire la rotta, cambiando equipaggio”.

Dopo aver ricostruito sommariamente la storia dell’Ilva a partire dal 2016, ovvero da quando il Governo Renzi (ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda) impostò la gara internazionale per la vendita dell’azienda a investitori privati, e dopo aver ricordato l’arrivo sulla scena di ArcelorMittal che, aggiungiamo noi, col veicolo AM InvestCo si aggiudicò l’affitto delle strutture produttive della ex Ilva, nella prospettiva di completarne in seguito l’acquisto, il Ministro ha ricordato anche la crisi intervenuta nei rapporti tra ArcelorMittal e Governo italiano a partire dal 2019, dopo la rimozione del cosiddetto “scudo penale”, nonché la successiva intesa con Invitalia che ha portato alla nascita di Acciaierie d’Italia.

Parlando poi della successiva, prolungata, progressiva fase di crisi dell’azienda, e dell’azione impostata in merito dal Governo di cui fa parte, Urso ha detto che “a più riprese, abbiamo chiarito al socio privato come sia necessario un impegno congiunto” su fabbisogni immediati e ricapitalizzazione, nonché su investimenti produttivi e ambientali.

Dopodiché, Urso ha sottolineato che, nell’incontro svoltosi lunedì 8 gennaio a Palazzo Chigi, il socio privato, richiesto di un impegno finanziario pro-quota (…), ha detto con estrema chiarezza che “non ha intenzione di immettere alcuna risorsa” nell’azienda. E ciò anche nell’ipotesi in cui la sua quota nel capitale sociale “dovesse scendere al 34%”.

In altre parole, secondo Urso, ArcelorMittal si è dichiarato disponibile a scendere in minoranza rispetto all’attuale assetto che, col 62%, lo vede in maggioranza all’interno di Acciaierie d’Italia, “ma non a contribuire finanziariamente in ragione della propria quota”. E ciò pur “reclamando” nel contempo “di condividere la governance, così da condizionare ogni ulteriore decisione”. Cosa che, ha ancora sottolineato Urso, “non è accettabile, né percorribile”. “Abbiamo quindi dato mandato a Invitalia e al suo team legale – ha scandito il Ministro – di esplorare ogni possibile, conseguente soluzione.”

Uscendo, in tarda serata, dall’incontro con i Ministri interessati alla vicenda, i Segretari generali di Fim, Fiom e Uilm – rispettivamente Roberto Benaglia, Michele De Palma e Rocco Palombella – hanno mostrato di aver apprezzato il fatto che il Governo abbia ufficialmente esplicitato la sua nuova posizione in merito ai rapporti col socio privato di Acciaierie d’Italia. Ma si sono anche mostrati consapevoli del fatto che il difficile comincia adesso.

Oggi, infine, è uscita una notizia che suona beffarda. La giornalista tarantina Annarita Digiorgio ha ripreso da YouTube un intervento di Lakshmi Mittal, il Presidente di ArcelorMittal, nonché padre dell’attuale Amministratore delegato, Aditya Mittal. Secondo Di Giorgio, che ha postato su X (ex Twitter) tale intervento, il capostipite della famiglia Mittal avrebbe annunciato la costruzione, entro il 2026, di una nuova acciaieria in India.

@Fernando_Liuzzi

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Ex Ilva: i mille problemi del dopo rottura con ArcelorMittal https://www.ildiariodellavoro.it/ex-ilva-i-mille-problemi-del-dopo-rottura-con-arcelormittal/ Tue, 09 Jan 2024 19:29:57 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=175055 Dunque è successo. Dopo mesi di incertezze e di rinvii, il Governo italiano “ha preso atto della indisponibilità di ArcelorMittal ad assumere impegni finanziari e di investimento, anche come socio di minoranza” di Acciaierie d’Italia, e quindi “ha incaricato Invitalia di assumere le decisioni conseguenti, attraverso il proprio team legale”.

Si potrebbe perfino dire che il Governo italiano è riuscito a farsi dire in modo esplicito dal vertice di ArcelorMittal, rappresentato ieri a Roma dall’Amministratore delegato del Gruppo, Aditya Mittal, ciò che fin qui molti avevano pensato, ma che il colosso siderurgico indiano-lussemburghese si era ben guardato dal formalizzare. Ovvero che la proprietà di ArcelorMittal non aveva più intenzione di assumersi impegni in Acciaierie d’Italia, il gruppo siderurgico pubblico-privato nato formalmente nell’aprile del 2021 per gestire gli assetti produttivi appartenenti a Ilva in Amministrazione straordinaria.

Al termine dell’incontro svoltosi ieri a Palazzo Chigi, il Governo ha infatti emesso una nota in cui ha dichiarato che la sua delegazione aveva “proposto” ai vertici di ArcelorMittal una “sottoscrizione dell’aumento di capitale sociale” di Acciaierie d’Italia, “così da concorrere ad aumentare al 66% la partecipazione del socio pubblico Invitalia”. E ciò, “unitamente a quanto necessario per garantire la continuità produttiva” del gruppo stesso.

In altre parole, il Governo ha proposto ad ArcelorMittal di diventare socio di minoranza di Acciaierie d’Italia, partecipando comunque intanto a un aumento del capitale sociale il cui maggior peso andava a ricadere sul socio pubblico Invitalia. Socio pubblico la cui partecipazione al capitale sociale di Acciaierie d’Italia doveva così salire dal 38% al 66%. Oltre a ciò, il Governo chiedeva al socio privato di assumersi parte degli oneri finanziari necessari, come si è appena ricordato, a “garantire la continuità produttiva” di AdI. Ma non c’è stato nulla da fare. Ormai, siamo a una rottura esplicita. Tanto che vengono convocati gli avvocati.

L’unico aspetto positivo di quanto è accaduto lunedì 8 gennaio a Palazzo Chigi è dunque questo: anche il Governo Meloni ha dovuto “prendere atto” di una realtà che altri protagonisti della vicenda Ilva o ex-Ilva che dir si voglia, come i sindacati dei metalmeccanici Fim, Fiom e Uilm, avevano intuito e venivano denunciando da tempo. In altre parole, era sempre più chiaro che ArcelorMittal aveva perso, nei confronti di Acciaierie d’Italia, ciò che è essenziale in ogni imprenditore: la volontà di produrre un bene o un servizio per ricavare un profitto da tale attività produttiva.

Al posto di tale volontà, mai formalmente negata, ArcelorMittal, nella conduzione pratica di Acciaierie d’Italia, ha esibito da tempo comportamenti che potremmo definire come “risparmiosi”, ovvero propensi a un ricorso minimo a risorse finanziarie fresche. Conseguentemente, ha manifestato comportamenti caratterizzati da un ampio ricorso alla Cassa integrazione, nonché da scarso impegno nelle attività di manutenzione, ritardi nel pagamento dei fornitori, assenza di piani strategici, a partire da quelli relativi al concreto avvio di un’opera di decarbonizzazione. Si è così creata una situazione di impasse in cui ogni tentativo di sbloccare la situazione dava luogo solo alla calendarizzazione di riunioni e incontri che, a loro volta, mettevano capo a nuovi appuntamenti inconcludenti.

Adesso tutto questo è finito. La rottura c’è stata. Si tratta di dar vita a un nuovo futuro. E qui, però, si apre una selva di nuovi problemi.

Prima di cominciare a individuarli, sarà però utile ricordare che, davanti a noi, già vicine o vicinissime, ci sono due date di cui occorre tener conto. La prima è quella di giovedì 11 gennaio, la giornata in cui i sindacati saranno ricevuti dal Governo che, ci si immagina, dovrà dire loro qualcosa di più di ciò che ha scritto nello scarno comunicato di lunedì 8. La seconda è quella del maggio 2024, ovvero del mese in cui scadrà il contratto di affitto degli impianti produttivi che lega Acciaierie d’Italia alla società Ilva in Amministrazione straordinaria.

Torniamo dunque al discorso sul futuro. L’unica cosa che ci sentiamo di affermare è che, da un punto di vista strategico, il Governo italiano non ha nessuna intenzione di dar vita a una nuova Italsider, ovvero a un soggetto pubblico dedito alla produzione di acciaio.

È però inevitabile che, mentre viene cercata una nuova soluzione, ovvero un nuovo soggetto privato che abbia dimensioni e progetti imprenditoriali tali da consentirgli di assumersi il compito di gestire con profitto il più grande gruppo siderurgico italiano, i poteri pubblici dovranno provvedere, intanto, a mandare avanti la realtà della cosiddetta ex Ilva. Senza, peraltro, farla ulteriormente deperire.

In parallelo, i medesimi poteri pubblici dovranno assumersi il compito di risolvere il contenzioso legale che, come annunciato, si è virtualmente già aperto con ArcelorMittal. Sarà un contenzioso lungo? Sarà un contenzioso finanziariamente gravoso? Qui è impossibile fare previsioni. E ciò, innanzitutto, perché, a tutt’oggi, non sono noti i patti che sono stati stipulati fra il Governo italiano e ArcelorMittal non solo tra la fine del 2020 e gli inizi del 2021, quando fu prima avviato e poi concluso il processo che ha portato alla costruzione del rapporto fra Invitalia e la medesima ArcelorMittal (quel processo che ha portato alla trasformazione di AM InvestCo Italy in Acciaierie d’Italia Holding e di ArcelorMittal Italia in Acciaierie d’Italia), quanto in successive intese.

C’è, poi, il punto più importante. Ovvero la ricerca del nuovo soggetto privato cui cedere, in tutto o in parte, la proprietà degli impianti produttivi della ex Ilva. Qui si pone l’interrogativo: soggetto italiano o straniero? Difficile rispondere. Certo è che la contrastata storia dell’avventura italiana di ArcelorMittal non deve aver proiettato all’estero un’immagine positiva del nostro Paese come luogo verso cui dirigere investimenti importanti.

E qui sarà utile aggiungere una considerazione. Il settore dell’acciaio, da un lato, è uno dei settori più integrati da un punto di vista globale, mentre, dall’altro, è un settore ancora percorso da forti spinte competitive che ne possono mettere in discussione gli equilibri. In altre parole, come è già successo pima anche nel settore dell’alluminio, e poi in quello dell’auto, i grandi soggetti attivi sulla scena siderurgica mondiale sono sempre di meno, ma hanno dimensioni sempre maggiori. Basti pensare che quando ArcelorMittal, nel 2016, si affacciò nel nostro Paese per partecipare alla gara internazionale indetta dal Governo italiano per l’acquisizione della ex Ilva, era considerato il primo produttore di acciaio a livello globale. Oggi, pare che sia solo il terzo. E ciò perché sarebbe stato sopravanzato non solo dalla cinese Baowu Steel, ma anche dal gruppo nato dalla recentissima fusione tra la giapponese Nippon Steel e l’americana US Steel. Un soggetto globale che fosse dunque posto di fronte alla scelta se investire o meno in Italia, valuterebbe, probabilmente, tale alternativa non solo guardando alle opportunità che un’eventuale scelta positiva potrebbe aprire grazie alle sue qualità intrinseche, ma, semmai, guardando alla collocazione del sistema siderurgico italiano su una scala, quanto meno, europea.

Ciò detto, torniamo a ciò che dovrebbe/potrebbe fare il Governo italiano. Esclusa reiteratamente l’ipotesi drammatica della messa in liquidazione della società, la mossa più probabile, come ripetuto stasera anche dal Sottosegretario Bitonci (MImit), è quella del ricorso alla messa di Acciaierie d’Italia in Amministrazione straordinaria. Anche se, almeno a chi scrive, non è chiaro come possa essere realizzata l’amministrazione straordinaria di una società che ha preso in affitto i suoi impianti produttivi da un’altra azienda, l’Ilva, anch’essa collocata da tempo in amministrazione straordinaria.

Conclusione provvisoria: grande è la confusione sotto il cielo, ma la situazione non è eccellente.

@Fernando_Liuzzi

POST SCRIPTUM

Incredibile ma vero. Questo articolo era in corso di pubblicazione sulla home page del Diario del lavoro, quando alcuni telegiornali della sera di martedì e alcuni siti on line hanno diffuso le “precisazioni” emesse da “fonti legali vicine ad ArcelorMittal”. Ad esempio, secondo il sito de La Stampa (9 gennaio, ore 19:23) ArcelorMittal sarebbe “favorevole al versamento da parte di Invitalia di ulteriori 320 milioni di euro di capitale fresco per supportare le operazioni di AdI, con la propria conseguente diluizione al 34%”.

Secondo le stesse fonti, la stessa ArcelorMittal sarebbe anche “favorevole all’acquisizione degli impianti da Ilva in Amministrazione straordinaria che era originariamente prevista per maggio 2022 e in seguito posticipata a maggio 2024”.

Inoltre, sempre secondo le stesse fonti, “ArcelorMittal conferma la volontà di collaborare con il Governo italiano a livello tecnico e tecnologico per la decarbonizzazione e la transizione ambientale dell’azienda”.

Da questo insieme di affermazioni, alcune testate hanno tratto l’impressione che ArcelorMittal sia intenzionata a riaprire il rapporto col Governo italiano dopo la rottura intervenuta nel pomeriggio di lunedì 8 gennaio.

Ad avviso di chi scrive, però, ciò non appare al momento credibile. Infatti, va detto, innanzitutto, che le parole fatte circolare nella serata del 9 gennaio non provengono, in via ufficiale, da una nota emessa da una fonte aziendale, ma, appunto, da “fonti legali vicine ad ArcelorMittal”. La prima sensazione, insomma, è che si tratti di affermazioni fatte circolare mirando più a precostituire posizioni di vantaggio in vista di un confronto legale, che non a riaprire un rapporto positivo col Governo italiano. Rapporto venuto meno dopo un incontro col vertice mondiale di ArcelorMittal, ovvero con l’Amministratore delegato Aditya Mittal.

Tuttavia, non ci sentiamo di affermare con certezza che l’accettazione della proposta secondo cui ArcelorMittal dovrebbe scendere da una posizione di maggioranza pari al 62% del capitale di Acciaierie d’Italia a una di minoranza pari al 34%, ancorché affidata, almeno per adesso, solo a fonti ufficiose, possa essere considerata come meramente strumentale. Infatti, le fonti di cui sopra, fanno osservare che nonostante che Invitalia detenesse il 38% del capitale di AdI, ArcelorMittal aveva “accettato di condividerne il controllo e la governance al 50%”, mentre la nuova proposta di Invitalia, quella, cioè, in base a cui ArcelorMittal scenderebbe al 34%, “prevede anche la cessazione del controllo condiviso al 50% tra i due soci”. “ArcelorMittal”, dicono ancora le fonti citate, “si sarebbe aspettata invece di poter continuare a esercitare il ruolo di partner industriale di Invitalia, con il medesimo status di controllo al 50% anche a pesi azionari invertiti”. Considerazioni simili si possono fare per il favore espresso rispetto al progetto di acquisizione degli impianti di Ilva in Amministrazione straordinaria fin qui detenuti in affitto.

Ancora una volta, ci vediamo quindi costretti a rinviare la speranza di poter formulare giudizi più netti alla prossima puntata. Ovvero, in occasione dell’incontro Governo-sindacati messo in calendario per il pomeriggio di giovedì 11 gennaio.

(F.L.)

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Agenzia Dire, dalla redazione un appello per la difesa dell’occupazione e del pluralismo dell’informazione https://www.ildiariodellavoro.it/agenzia-dire-dalla-redazione-un-appello-per-la-difesa-delloccupazione-e-del-pluralismo-dellinformazione/ Mon, 08 Jan 2024 17:20:13 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=175022 “Una vicenda grave e paradossale.” A parlare così è Stefano Ferrante, dell’Associazione Stampa Romana. Che con due aggettivi ha fotografato lo stato attuale della vicenda dell’Agenzia Dire.

Siamo a fine mattinata, in corso d’Italia, davanti alla sede della redazione romana della nota agenzia di notizie. Tra il marciapiede e la strada si è radunata una piccola folla fatta di lavoratrici e lavoratori dell’agenzia in sciopero, giornalisti di altre testate, sindacalisti, parlamentari e amministratori locali. Su un lato, quattro redattrici dell’agenzia reggono uno striscione su cui campeggia la scritta “La Dire siamo noi”.

A prendere la parola per prima, poco prima di mezzogiorno, è Alessandra Fabbretti, una giornalista che fa parte del Comitato di Redazione della Dire. Megafono in mano, tocca il lei il compito di spiegare motivazioni e obiettivi dell’odierna iniziativa di lotta.

Ma prima di venire alle parole di Fabbretti, sarà forse il caso di ricordare che, a monte di tutto, c’è l’apertura, negli anni scorsi, di un conflitto giudiziario che ha visto contrapposti il Ministero dell’Istruzione e la proprietà della Com.e, l’editrice della Dire.

Come si sa, le vicende giudiziarie, nel nostro Paese, non sono velocissime. Fatto sta che, nonostante che la Com.e, nel frattempo, abbia cambiato proprietario, il Ministero dell’istruzione ha recentemente disposto un “fermo amministrativo” nei confronti della casa editrice. A seguito di questa decisione, il 29 dicembre scorso il Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio comunica che, avendo preso atto del suddetto fermo amministrativo e del successivo parere dell’Avvocatura Generale dello Stato, ha a sua volta deciso di sospendere l’erogazione dell’ultima tranche dei contributi dovuti per il 2023 alla Società editrice Com.e, nonché l’accesso della medesima “alla procedura negoziata prevista per gli iscritti all’elenco di rilevanza nazionale” per ciò che riguarda il 2024.

Tutto ciò si è prodotto in una situazione in cui i rapporti di lavoro fra l’Agenzia e i suoi dipendenti erano già tesi da tempo, anche a causa di un reiterato ricorso da parte dell’Agenzia stessa agli ammortizzatori sociali. Fatto sta che, a fine 2023, la situazione precipita. Il 28 dicembre, la Dire comunica la sua decisione di effettuare 14 licenziamenti, parte dei quali relativi alla sede romana, e parte a Bologna e in altre sedi. Ma non è finita. Perché nella tarda serata del 31 dicembre, quando la maggior parte degli italiani si accinge a festeggiare l’inizio dell’anno nuovo, dall’Agenzia partono 17 cosiddette “sospensioni” senza stipendio per altrettanti dipendenti della redazione romana.

Ora, a parte il fatto sconcertante relativo alla data e all’orario prescelti per comunicare il provvedimento aziendale, resta soprattutto il fatto che gli esperti di diritto del lavoro non conoscono l’istituto della sospensione senza stipendio. E resta ancor più il fatto di una redazione già in precedenza non sovraccarica di giornalisti che vede ulteriormente ridursi le sue dimensioni. Così come resta il fatto, particolarmente sottolineato da Fabbretti, che le famiglie dei lavoratori colpiti sono mediamente composte da persone piuttosto giovani con figli relativamente piccoli, e comunque minorenni.

Nell’immediato, gli obiettivi dell’azione sindacale, che vede affiancate le organizzazioni dei giornalisti e quelle dei poligrafici, sono dunque due: ritiro dei 14 licenziamenti e delle 17 “sospensioni”. A proposito delle quali sarà utile aggiungere che, dato il loro carattere incongruo da un punto di vista contrattuale e giuridico, i giornalisti hanno risposto presentandosi comunque in redazione.

Fabbretti ha anche sottolineato che lavoratrici e lavoratori della Dire non vogliono essere scudi umani e che, per parte loro, non intendono politicizzare lo scontro. Al contrario, si appellano a tutte le forze rappresentate in Parlamento affinché si trovi una soluzione che salvaguardi, allo stesso tempo, i diritti dei lavoratori dell’informazione e il pluralismo delle testate. E bisognerà, comunque, far presto. Infatti, alla fine del corrente mese di gennaio scadrà il Contratto di solidarietà, attualmente in essere, che è relativo a una trentina di poligrafici delle sedi di Roma e di Bologna.

@Fernando_Liuzzi

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Braccio di ferro asimmetrico sull’ex Ilva https://www.ildiariodellavoro.it/braccio-di-ferro-asimmetrico-sullex-ilva/ Fri, 29 Dec 2023 10:07:59 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=174823 Di rinvio in rinvio, da un’Assemblea dei soci che rinvia a un Consiglio di amministrazione, da un Cda che rinvia a una nuova Assemblea, inserendo tra una riunione e l’altra qualche incontro fra Governo e Sindacati, siamo arrivati alla fine dell’anno senza che neppure si profili all’orizzonte una qualche soluzione all’infinita vicenda della Ex Ilva.

Come aspiranti cronisti di questa vicenda, abbiamo tentato più volte di aggrapparci all’unica ipotetica certezza che ci si parava davanti: quella delle date dei successivi incontri che – via, via – venivano messi in calendario. Ma anche le ultime date annunciate per il corrente anno, quelle relative all’Assemblea dei soci di Acciaierie d’Italia (venerdì 22 dicembre) e alla successiva riunione del Consiglio di Amministrazione della medesima AdI (giovedì 28 dicembre), sono passate via senza nessuna conclusione positiva. E, onestamente, credo che nessuno si aspetti qualche concreta novità dall’incontro fra il Governo e i sindacati dei metalmeccanici che, dopo essere stato programmato per la mattinata di oggi, venerdì 29 dicembre, è stato infine spostato al pomeriggio, sempre di oggi.

Bisogna dunque prendere atto della realtà: l’anno si chiude con la vicenda Ex Ilva totalmente aperta. E sì che, come sanno anche i sassi a Taranto, Genova e Novi Ligure, ovvero nelle sedi dei principali stabilimenti della Ex Ilva, attualmente gestiti da Acciaierie d’Italia, ormai non c’è (quasi) più tempo. Qualcuno dovrà pur decidere qualcosa.

Non c’è più tempo perché, a quel che pare, le casse di Acciaierie d’Italia sono bisognose di risorse finanziarie fresche e a breve, mentre, con l’anno nuovo, arriveranno bollette energetiche ineludibili. Non c’è più tempo perché anche altri fornitori di beni e servizi fanno sentire la loro voce, reclamando le spettanze loro dovute. Non c’è (quasi) più tempo perché non si può attendere l’anno del mai per, almeno, cominciare a impostare i programmi di una decarbonizzazione del processo produttivo possibile oltre che, ormai, necessaria. Non c’è (quasi) più tempo perché è ritornato in primo piano il fatto che il 31 maggio 2024 scadrà il contratto di affitto degli impianti ex Ilva che lega Acciaierie d’Italia ai Commissari dell’Amministrazione straordinaria. Commissari nella cui disponibilità tali impianti rientrerebbero in caso di mancato acquisto da parte della stessa AdI.

Ed ecco che ci vediamo costretti a tornare a una data. La data di un prossimo incontro che, peraltro, ancora non c’è, ma dovrebbe essere quella di un giorno collocato nella prima settimana del 2024: diciamo fra Capodanno e la Befana, ovvero fra il 2 e il 5 gennaio.

Infatti, nel corso della giornata di ieri, fin dai giornali del mattino, e in particolare fin dall’uscita di un nuovo articolo di Paolo Bricco sul Sole 24 Ore, una notizia, che potrà anche rivelarsi importante, ha cominciato a prendere forma. E la notizia è questa: tale prossimo incontro potrebbe essere, allo stesso tempo, più informale e più sostanziale di quelli fin qui avvenuti. E ciò perché all’incontro dovrebbero partecipare i vertici delle due parti che si sono sin qui confrontate dentro Acciaierie d’Italia. E quindi, se ben comprendiamo, da un lato non solo i vertici di Invitalia, il socio pubblico di AdI (38%), ma anche alcuni Ministri del Governo italiano. E, dall’altra parte, non solo i rappresentanti di ArcelorMittal Italia nel Consiglio di Amministrazione e nell’Assemblea dei Soci della stessa AdI, ma anche, come scrive Bricco, i “vertici internazionali” del colosso siderurgico indiano-lussemburghese (ancorché basato a Londra).

Possiamo allora chiederci: perché questa salita nel grado dei partecipanti al prossimo vertice? Risposta ipotetica: perché lo scopo di tale incontro non sarà forse solo quello di proseguire nel braccio di ferro che è andato in scena nelle puntate precedenti, ma quello di avviare la ricerca di una soluzione possibile.

A questo punto della vicenda della ex Ilva, ci pare di poter dire che un fattore che l’ha complicata, fino a renderla quasi incomprensibile, consiste nel fatto che ciò cui abbiamo sin qui assistito non è stato un normale braccio di ferro fra due controparti che avevano, almeno in parte, interessi diversi nella stessa impresa, ma, per così dire, un braccio di ferro asimmetrico.

Da una parte, infatti, c’era ArcelorMittal che, lungo i 12 mesi del 2023, ha mostrato, con i suoi concreti comportamenti, un crescente disinteresse per le sorti della ex Ilva: produzione ridotta al minimo, ampio ricorso alla Cassa integrazione, manutenzioni trascurate, ritardi nei pagamenti dei fornitori. Un crescente disinteresse che, come adombrato da Giovanni Pons su Affari e Finanza (il supplemento economico settimanale di Repubblica) del 27 dicembre, può forse essere motivato non da problematiche relative all’azienda in sé, né da problematiche relative alla sua collocazione in Italia, ma dalla sua collocazione in un Paese UE, ovvero in un’area resa meno appetibile per la produzione di acciaio dai vincoli posti dal Green New Deal. Oppure, secondo un’ipotesi meno raffinata, quello di ArcelorMittal potrebbe essere un disinteresse esibito in base a una rinnovata versione del famoso detto secondo cui “chi disprezza compra”. In altre parole, potrebbe essere un disinteresse esibito proprio allo scopo di abbassare le attese del proprio socio/competitore e, quindi, di rafforzare la propria posizione negoziale nei confronti del Governo italiano.

Dall’altra parte, invece, dietro a Invitalia, l’Agenzia nazionale “per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa”, di proprietà del Ministero dell’Economia, nonché socio di minoranza di Acciaierie d’Italia, c’era un Governo che, secondo numerosi osservatori, è stato sostanzialmente diviso tra la posizione di Urso, favorevole a una salita in maggioranza del socio pubblico, cioè della stessa Invitalia, e quella di Fitto, favorevole a un permanere in maggioranza del socio privato. Secondo questa ipotesi interpretativa, la divisione interna al Governo avrebbe oggettivamente indebolito la pressione esercitata allo scopo di spingere ArcelorMittal a impegnarsi nuovamente con maggiore energia nella conduzione di Acciaierie d’Italia.

In altri termini, da una parte ci sarebbe stato, con ArcelorMittal, un interlocutore molto abbottonato, poco propenso a chiarire i suoi veri intendimenti, e peraltro scarsamente intenzionato ad assumere non solo impegni strategici, ma neanche impegni finanziari a breve. Mentre dall’altra parte ci sarebbe stato, non tanto con Invitalia, quanto col Governo, un interlocutore dotato di scarse capacità comunicative esterne oltre che, forse, di una insufficiente capacità di esercitare pressioni all’interno del negoziato. Di qui, ciò che ci siamo permessi di definire come un braccio di ferro asimmetrico.

E adesso? Adesso, secondo una prima voce, il Governo italiano avrebbe superato la propria divisione interna, e ciò spiegherebbe perché avrebbe premuto per un incontro al vertice con la controparte indo-lussemburghese. Anche se, va detto, non è ancora chiaro quale linea sia adesso prevalente all’interno dell’Esecutivo.

Secondo altre voci, ArcelorMittal avrebbe deciso di accettare l’idea che entrambi i soci debbano compiere, a breve, lo sforzo di fornire ad Acciaierie d’Italia nuove risorse finanziarie, pari a circa 320 milioni di euro. E questo sarebbe già qualcosa. Tuttavia, stando alle stesse voci, tra Invitalia e ArcelorMittal vi sarebbero ancora notevoli distanze rispetto al punto successivo, ovvero rispetto al quesito relativo a come impostare la trattativa con i Commissari dell’Amministrazione straordinaria per acquisire gli impianti produttivi della ex Ilva.

Una cosa, però, è chiara. Una scelta strategica può essere anche sbagliata o, comunque, può non essere coronata dal successo. Ma senza effettuare una scelta, nessuna impresa, grande o piccola che sia, può andare avanti a lungo. E se questo è vero in generale, è sicuramente più vero per un grande gruppo attivo in un settore competitivo su scala globale come è, da tempo, quello dell’acciaio.

E come è stato ricordato più volte, nella vicenda della Ex Ilva ci sono in gioco non solo 20 mila posti di lavoro (tra diretti e indiretti), ma un pezzo importante del futuro della nostra industria manifatturiera. Non resta che sperare che il prossimo Capodanno porti consiglio a chi può ancora scrivere il copione delle prossime puntate di questa incredibile vicenda.

@Fernando_Liuzzi

]]> Ex Ilva, verso due (drammatici) ulteriori appuntamenti entro la fine dell’anno https://www.ildiariodellavoro.it/ex-ilva-verso-due-drammatici-ulteriori-appuntamenti-entro-la-fine-dellanno/ Thu, 21 Dec 2023 09:17:28 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=174657 Nella storia infinita dell’Ilva, o – come si dice ormai da qualche anno – dell’ex Ilva, questa nuova puntata potrebbe essere titolata così: 20 dicembre, ovvero la giornata degli scenari ipotetici.

Il perché di questa titolazione, lo vedremo. Ma cominciamo, come sempre, dall’inizio, ovvero dalla cronaca. Cronaca che, peraltro, è stata seguita puntualmente dal Diario del lavoro che ha informato i suoi lettori via, via che gli eventi della giornata si susseguivano.

Per le 11:00 di ieri mattina, era stato convocato a Palazzo Chigi l’incontro fra i Segretari generali dei sindacati dei metalmeccanici – Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil – e i responsabili dei dicasteri interessati alle vicende del principale gruppo siderurgico esistente nel nostro Paese. Nella sede della Presidenza del Consiglio si sono dunque incontrati, da un lato, Roberto Benaglia (Fim), Michele De Palma (Fiom) e Rocco Palombella (Uilm), e, dall’altro, i ministri Marina Calderone (Lavoro e Politiche sociali), Raffaele Fitto (Affari europei, Sud, Politiche di coesione e Pnrr) e Adolfo Urso (Imprese e Made in Italy). Collegato da remoto, Giancarlo Giorgetti (Economia e Finanze). Presente a Palazzo Chigi anche il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano.

A fine incontro, si sono registrati dei momenti di tensione. Infatti, in un primo momento, i massimi dirigenti sindacali della maggiore categoria dell’industria, in assenza di indicazioni precise sul futuro del gruppo, si sono rifiutati di abbandonare i locali di Palazzo Chigi. Successivamente, il Governo ha convocato un nuovo incontro per la mattinata di venerdì 29 dicembre (nel pomeriggio di giovedì 28 si terrà una riunione del Consiglio dei Ministri). Inoltre, con un suo comunicato, il Governo ha affermato che, nel corso dell’incontro con i sindacati, ha “assicurato” che “sarà garantita la continuità aziendale”.

Già, ma come? E qui si arriva al discorso degli scenari ipotetici. Con una premessa. Che se soggetti anche diversi fra loro parlano apertamente di diversi scenari relativi al futuro della ex Ilva, immaginando però che tale futuro debba cominciare a breve, ciò vuol dire che lo scenario presente, quello in cui gli stabilimenti della stessa ex Ilva sono gestiti da Acciaierie d’Italia – la società formata dal socio privato ArcelorMittal (62%) e dal socio pubblico Invitalia (38%) – non viene più considerato credibile.

Vediamo, dunque. Uscendo da Palazzo Chigi, De Palma, affiancato da Benaglia e da Palombella, ha detto ai cronisti presenti che, nel corso dell’incontro, i sindacati avevano prospettato al Governo tre scenari fra loro alternativi: quello della cosiddetta “salita pubblica”, ovvero, a quel che si comprende, della crescita oltre la soglia del 50% della quota oggi detenuta da Invitalia; quello della messa della società in amministrazione straordinaria; quello del permanere della situazione attuale con la presenza del cosiddetto “soggetto privato”, cioè di ArcelorMittal, in una posizione preminente. Ciò allo scopo di chiedere, subito dopo, al Governo stesso, quale di questi scenari potesse essere considerato come escluso.

Tuttavia, ha specificato De Palma, nel corso dell’incontro “nessuno di questi tre scenari è stato escluso” dai rappresentanti dell’Esecutivo. E ciò nonostante che, sempre secondo De Palma, i tre sindacati avessero detto “unitariamente” al Governo che per loro c’è “una sola soluzione”: la “capitalizzazione”, ovvero la trasformazione degli oltre 600 milioni di euro, versati a inizio anno da Invitalia nelle casse di AdI, da risorse finanziarie in capitale sociale; quindi la “salita pubblica” e, infine, la gestione dell’Azienda, nell’immediato, a partire da questo nuovo assetto. In attesa che si prospettino ulteriori scenari.

Sempre ieri, ma ovviamente prima dell’incontro tra Governo e sindacati, era giunto nelle edicole un numero del Sole 24 Ore, il maggior quotidiano economico italiano, contenente un’intera pagina dedicata alle questioni dell’ex Ilva. Pagina in cui spiccava un articolo in cui Paolo Bricco e Carmine Fotina partivano dall’idea secondo cui, ormai, “sembra sfumata” l’ipotesi di un “pieno accordo” del Governo “con il socio privato ArcelorMittal” per garantire il salvataggio di Acciaierie d’Italia.

Sempre secondo Bricco e Fotina, il Governo avrebbe quindi studiato “tre opzioni” alternative all’accordo di cui sopra. Tutte e tre, peraltro, volte a evitare la chiusura dell’ex Ilva. Opzioni in parte simili e in parte diverse dai tre scenari su cui i sindacati dei metalmeccanici hanno poi posto i loro interrogativi al Governo.

Ecco dunque queste tre “opzioni”. La prima, molto simile, per non dire identica, a quella preferita dai sindacati, è quella che Bricco e Fotina chiamano “nazionalizzazione”. Un’ipotesi basata, appunto, sulla “conversione unilaterale” del pregresso finanziamento di Invitalia in “quote di capitale” e, quindi, sulla “salita, anche solo temporanea” della stessa Invitalia “nella maggioranza di Acciaierie d’Italia”.

La seconda opzione – non contemplata, a quanto si comprende, dai sindacati – è quella basata sulla ricerca di “un nuovo partner straniero con cui sostituire ArcelorMittal”. Un partner che, peraltro, dovrebbe essere abbastanza robusto, da un lato, da poter “garantire la difficile scommessa della conservazione del ciclo integrale e della decarbonizzazione”, e, dall’altro, da essere capace di “mettersi contro il secondo gruppo siderurgico al mondo”.

Infine, c’è una terza opzione, quella sicuramente più sgradita ai sindacati. Si tratterebbe, scrivono ancora Bricco e Fotina, della possibilità “che venga constatato che non esistono più i presupposti per la continuità aziendale”. Da ciò potrebbero derivare “la messa in liquidazione della società e il suo commissariamento, con un taglio netto e doloroso del passato preliminare a ogni (…) ricostruzione dell’impresa con nuovi azionisti italiani, su un modello di dimensione inferiore”.

Concludendo. La situazione dell’ex Ilva, annessi e connessi, appare sempre più incerta e ingarbugliata. Per adesso, abbiamo due sole certezze, entrambe relative, come è già accaduto più volte nelle scorse settimane, alle date delle due prossime puntate. Venerdì 22 dicembre, si riunirà a Milano l’Assemblea dei soci di Acciaierie d’Italia. Dopo una settimana, e cioè venerdì 29 dicembre, sarà invece la giornata della nuova convocazione dei sindacati dei metalmeccanici da parte dell’Esecutivo.

A prima vista, l’estrema vicinanza di questi due appuntamenti con le festività di Natale e Capodanno stride con la pesantezza e la drammaticità degli argomenti che dovranno essere affrontati in tali occasioni. Ma la drammaticità sociale, industriale ed economica della vicenda ex Ilva è ormai giunta a un livello tale da sconsigliare qualsiasi battuta. Nessuno crede, infatti, che i protagonisti della vicenda – da una parte il Governo italiano, dall’altra il colosso siderurgico ArcelorMittal – possano ancora continuare a nascondere le proprie intenzioni in un continuo gioco al rinvio.

@Fernando_Liuzzi

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Centro studi Confindustria: nel 4° trimestre, Pil quasi fermo https://www.ildiariodellavoro.it/centro-studi-confindustria-nel-4-trimestre-pil-quasi-fermo/ Mon, 18 Dec 2023 18:33:11 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=174536 Ferma, fermo. Non è un’invocazione, ma una descrizione. Anzi, due descrizioni. Nel primo caso, si tratta di Federmeccanica che parla della produzione metalmeccanica italiana nel terzo trimestre 2023. Nel secondo caso, del Centro studi della Confindustria che parla del Prodotto interno lordo italiano nel quarto trimestre di questo stesso 2023. E il fatto che per connotare l’andamento di queste due dinamiche economiche, certo contigue, sia stato scelto il medesimo aggettivo, ci lascia pensare, non solo, che ci troviamo di fronte a due analisi convergenti, ma anche che questa convergenza sia motivata da una realtà economica che si trova, effettivamente, in una fase segnata da una qualche difficoltà.

Cominciamo, dunque, dal primo caso, quello della nostra industria metalmeccanica. Ce ne siamo occupati, qui sul Diario del lavoro, la settimana scorsa, a partire dalla presentazione, effettuata a Roma il 14 dicembre, dell’edizione n. 168 dell’Indagine congiunturale effettuata da Federmeccanica con cadenza trimestrale.

Ebbene, nel primo paragrafo della sintesi di questa ricerca, sintesi elaborata per gli organi di informazione, si dice che “nel terzo trimestre del 2023, l’attività produttiva metalmeccanica nel nostro Paese” è “sostanzialmente ferma” in termini congiunturali, ma risulta “in sofferenza” in termini tendenziali. Infatti, “nel periodo luglio-settembre del 2023, nel settore metalmeccanico i livelli di produzione sono rimasti sostanzialmente invariati rispetto ai tre mesi precedenti (+0,1% dopo le flessioni registrate nel primo e secondo trimestre)”, ma risultano “inferiori del 2% nel confronto con lo stesso trimestre del 2022”.

E veniamo, adesso al secondo caso, quello della cosiddetta Congiuntura Flash diffusa dal Centro studi della Confindustria due giorni dopo, ovvero sabato 16 dicembre. Qui va detto, innanzitutto, che si tratta di un’indagine che non è relativa al solo settore metalmeccanico – che è comunque il settore principale della nostra industria manifatturiera -, ma punta a offrire un rapido quadro dell’intera economia italiana e del quadro internazionale in cui essa è inserita. Inoltre, va osservato che stiamo parlando di un’indagine che, con qualche audacia, va oltre i dati statistici, ormai consolidati, relativi al terzo trimestre 2023, e avanza delle stime relative all’intero quarto trimestre, a partire da ciò che si sa già dei due primi mesi (ottobre e novembre) del trimestre stesso.

Ebbene, la ricerca del Centro studi di Confindustria si apre con un succinto paragrafo significativamente intitolato “Fase di stagnazione”. Paragrafo in cui si può leggere che “nel 4° trimestre il PIL italiano è stimato quasi fermo, dopo il +0,1 nel 3°: sia i servizi che l’industria restano deboli”.

Più in dettaglio, un grafico intitolato “Produzione industriale in stallo” mostra che, a partire da ottobre, la curva della produzione è quasi piatta, con un leggero calo a novembre, mentre per ciò che riguarda i giudizi delle imprese sugli ordini provenienti sia dall’interno che dall’estero si vede una tendenza al ribasso.

Allargando il quadro analitico, il Centro studi Confindustria scrive poi che “il rientro dell’inflazione aiuta, ma i tassi di interesse resteranno ai massimi ancora per alcuni mesi e il credito è troppo caro”. Inoltre, “gli scambi mondiali e l’export italiano mancano di vero slancio, a causa di guerre e incertezza”, mentre “il costo di gas e petrolio non si è impennato, ma resta storicamente elevato”.

Nel paragrafo intitolato “Il credito caro frena gli investimenti”, si può leggere che “a ottobre il costo del credito per le imprese italiane è salito ancora (5,46% in media, 5,95% per le piccole)” e che “le condizioni difficili del credito ne riducono l’uso per finanziare investimenti”. In particolare, “quelli in impianti e macchinari registrano il secondo calo consecutivo (-0,9% nel 3° trimestre, -0,4 nel 2°)”, mentre “gli investimenti totali risultano in lieve calo nel 3° (-0,1%), dopo il crollo” verificatosi “nel 2° (-2,0%)”.

Infine, dal paragrafo intitolato “Faticosa ripresa dell’export”, si ricava che “dopo un 3° trimestre in recupero, a ottobre le vendite di beni italiani all’estero sono cresciute grazie soprattutto ai flussi extra-UE (OPEC e USA)”, ma anche che “le prospettive per gli ultimi mesi del 2023 (…) restano deboli”. Infatti, la domanda dall’estero di beni manifatturieri italiani diminuisce, “sebbene a ritmo minore”, mentre “a novembre”, sono ancora negative le attese sul commercio mondiale”.

@Fernando_Liuzzi

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