Marco Cianca – Il Diario del Lavoro https://www.ildiariodellavoro.it Quotidiano online del lavoro e delle relazioni industriali Wed, 27 Mar 2024 11:40:46 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.3 https://www.ildiariodellavoro.it/wp-content/uploads/2024/02/fonditore.svg Marco Cianca – Il Diario del Lavoro https://www.ildiariodellavoro.it 32 32 Trent’anni dopo https://www.ildiariodellavoro.it/trentanni-dopo/ Wed, 27 Mar 2024 11:40:46 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=184765 Elezioni del 27 e 28 marzo 1994. Otto milioni di votanti puntano le loro fiches sulla ruota della neonata Forza Italia. Nella scheda elettorale non ci sono le vecchie etichette politiche. Il Pci è diventato Pds, la Dc ha ripreso il vecchio nome sturziano di Partito Popolare, il Msi corre con il nome di Allenza Nazionale, la Lega Nord si sta consolidando. Il sistema in vigore, il Mattarellum, altra sostanziosa novità, è di tipo maggioritario e Silvio Berlusconi, grazie alle alleanze con Gianfranco Fini e Umberto Bossi, schianta la gioiosa macchina da guerra guidata da Achille Occhetto. E così il Cavaliere, entrato nell’agone solo pochi mesi prima, giura il 10 maggio davanti al Capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro. Otto giorni dopo, il suo Milan sbaraglia il Barcellona e conquista la coppa dei campioni. L’uomo di Arcore si avvia a diventare Re Papi.

Quel primo governo durerà solo fino a dicembre ma la seconda repubblica aveva ormai preso il largo. Massimo D’Alema, a metà dell’anno seguente, mentre a Palazzo Chigi siede Lamberto Dini, dà alle stampe un libro, “Un paese normale”, nel quale tira un sospiro di sollievo, cita Franco Modigliani che aveva definito i sette mesi dell’esecutivo Berlusconi una “dolorosa parentesi”, e si dice fiducioso per le sorti della sinistra, anzi del centrosinistra. E auspica la definizione di regole comuni, in una sana alternativa bipolare.

Quante illusioni! Il Caimano, così lo descrisse Nanni Moretti, cade e risorge in continuazione, come il personaggio di un video gioco che più lo colpisci, più prende forza. Un Anteo con i piedi piantati nell’infantile immaginario collettivo di un Paese forgiato, per dirla con l’azionista Umberto Calosso, sotto l’egida della Controriforma, dei Savoia e del Fascismo. Dopo la Liberazione gli italiani in larga misura furono ancora tentati dalla Monarchia e al referendum la scelta repubblicana vinse per un soffio. E poi fu il trionfo della Democrazia Cristiana, in barba ad ogni prospettiva di cambiamento epocale. Coloro che non avevano capito quel che era avvenuto allora, non potevano certo comprendere i successi del Cavaliere.

Amo l’Italia, aveva proclamato il 29 gennaio 1994 nel video messaggio alla Nazione con il quale annunciava la discesa in campo “perché non voglio vivere in un paese illiberale”. Commenta oggi Rosy Bindi: “Con quel discorso, Berlusconi negava i principi fondamentali della nostra costituzione, l’equità e la solidarietà, la responsabilità sociale dell’impresa, mentre promuoveva un individualismo senza regole e l’egoismo liberista. Prometteva un nuovo miracolo italiano fondato sul mito della società civile migliore della politica, del privato più efficiente del pubblico. Iniziava così la delegittimazione della politica”.

Lo storico inglese John Foot rimarca che il 1994 segnò la fine dei partiti di massa: “Il 90% degli eletti con Forza Italia non aveva mai messo piedi in Parlamento. Berlusconi era un populista, il primo ad arrivare al potere in Europa dopo il 1945, che prometteva il taglio delle tasse e un milione di nuovi posti di lavoro. Ma usava anche le armi della storia, in particolare l’anticomunismo”.

È proprio con lui che l’anticomunismo, termine generico per indicare tutto l’arco progressista, diventa predominante rispetto all’antifascismo. L’attuale ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, ripete come un mantra questo concetto che rovescia e mistifica la scala valoriale emersa dalla Resistenza.

L’edizione italiana della rivista “Jacobin” ha messo bene in fila tutti i guasti prodotti dal voto del 27 e 28 marzo 1994. La volontà di stravolgere la Costituzione, gli attacchi alla magistratura, la democrazia plebiscitaria, il discredito del Parlamento, il rifiuto delle tasse, il capitalismo senza freni. I cervelli messi in lavatrice con le televisioni e la pubblicità, l’abbandono di un’etica pubblica e privata, le donne meri oggetti di desiderio, il bunga bunga. Ogni settore è stato stravolto, dallo spettacolo al calcio passando per la musica. In nome di un alienante intrattenimento fine a se stesso, del denaro, del potere. Nella radicata convinzione che tutto sia possibile.

Trent’anni dopo, la Destra coltiva, innaffia e raccoglie queste malepiante. Con una volontà prevaricatrice e rabbiosa che fa persino rimpiangere il volto gaudente di Berlusconi. Annota, su Jacobin, Ida Dominijanni: “Veronica Lario, quando di fronte al sexgate piantò in asso suo marito, si lasciò scappare in un’intervista che il peggio non era stato lui ma sarebbe venuto con quelli che avrebbero preso il suo posto. E aveva visto giusto”.

Marco Cianca

 

 

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In memoria di Condorcet https://www.ildiariodellavoro.it/in-memoria-di-condorcet/ Tue, 19 Mar 2024 10:32:35 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=184493 Sabato 29 marzo 1794, ore 16. In una cella del carcere di Bourg-La-Reine viene trovato il corpo senza vita di un detenuto, sdraiato in terra, le braccia lungo il corpo, la testa piegata da una parte con un sottile rivolo di sangue che usciva dalla bocca. Nei registri, era stato indicato con il nome di Pierre Simon, sedicente cameriere. Lo avevano arrestato due giorni prima, all’interno di un’osteria dove si era rifugiato, stanco e ferito ad una gamba.

Non possedeva documenti, appariva un tipo sospetto e quindi lo avevano condotto in prigione. Il referto attribuì la morte ad un infarto. Fu sepolto in una fossa comune. Solo dopo alcuni mesi si seppe che quello sconosciuto era Marie Jean Antoine Nicolas Caritat, marchese di Condorcet. Filosofo, matematico, economista, enciclopedista, libertario. Una delle più grandi menti dell’illuminismo. Sodale di Voltaire, Diderot, D’Alembert. Aderente alla “Società degli amici dei neri” si batté per l’abolizione della schiavitù ed entrò in contatto con Benjamin Franklin. Aveva 51 anni. Il suo corpo non fu mai ritrovato.

Partecipò attivamente alla Rivoluzione francese. Proprio a lui è attribuita la stesura dei cahiers de doléances. Membro dell’assemblea nazionale, era vicino ai Girondini e questo presunto moderatismo gli attirò i fulmini dei Montagnardi e di Maximilien Robespierre. All’avvento del Terrore fu accusato di tradimento in base alla pazzesca legge dei sospetti e nei suoi confronti fu spiccato un mandato d’arresto.

Certo di dover finire sotto la ghigliottina, riuscì a nascondersi per cinque mesi in casa di un’amica, a Parigi, e qui scrisse l’opera più nota, “Quadro storico dei progressi dello spirito umano”. Poi, sentendosi braccato, fuggì dalla capitale ma due giorni dopo fu catturato e messo dietro le sbarre. La tragica fine, a parte il verdetto ufficiale sull’arresto cardiaco, ha alimentato altre due ipotesi: il suicidio con una dose di veleno che aveva con sé o un omicidio ordinato dal Comitato di salute pubblica per far scomparire un personaggio scomodo senza doverlo portare sul patibolo.

Da quei drammatici giorni, sono passati esattamente duecento anni. Ma dubitiamo che la ricorrenza venga celebrata come meriterebbe. In un mondo che sta facendo vacillare la democrazia, con Donald Trump evocante un bagno di sangue qualora non venisse rieletto presidente degli Stati Uniti, ricordare Condorcet appare quanto meno controcorrente.

Lui teorizzava “la fratellanza universale” e “la totale distruzione dei pregiudizi”, a partire, femminista anzi tempo, da quelli “che hanno stabilito fra i due sessi una inuguaglianza di diritti funesta persino a colui che ne viene favorito”. “Invano – rimarcava – si cercheranno ragioni per giustificarla, differenze fisiologiche, intellettive e di sensibilità morale. Questa ineguaglianza non ha altra origine che l’abuso della forza e, invano, si è poi tentato di giustificarla con sofismi”.

Prima di Kant, il cui trattato è del 1795, riprese il concetto di “pace perpetua” elaborato dall’abate di Saint-Pierre: “Le guerre fra i popoli, quanto gli assassinii, entreranno nel novero di quelle atrocità eccezionali che umiliano e offendono la natura e che imprimono un marchio indelebile di obbrobrio al paese e al secolo la cui storia è stata infangata”.

A suo parere, la ragione e la scienza marciavano di pari passo in direzione di un futuro migliore. È questo il filo conduttore del “Quadro storico” vergato durante la latitanza. Le prime tribù, i popoli pastori, l’invenzione della scrittura, la Grecia, Alessandro Magno, Roma, la decadenza e la rinascita dei lumi, il progresso che scuote il giogo dell’autorità, Cartesio, la rivoluzione. Dieci epoche di un cammino che ha le sue cadute ma non si arresta mai, in costante direzione del progresso. L’allungamento della vita media quale metro per misurare una crescita dai confini indefinibili.

“Questo quadro della specie umana, liberata da tutte le catene, sottratta al dominio del caso ed a quello dei nemici del progresso, e camminando con passo fermo e sicuro sulla strada della verità, della virtù e della felicità, offre al filosofo uno spettacolo che lo ripaga degli errori, dei crimini e delle ingiustizie di cui la terra è ancora macchiata e di cui egli stesso è sovente la vittima”. Così concludeva la sua opera principale, poco prima di essere arrestato e di morire nelle vesti del cameriere Pierre Simon.

Duecento anni dopo, siamo sempre lì.

Marco Cianca

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Il prima e il dopo https://www.ildiariodellavoro.it/il-prima-e-il-dopo/ Wed, 13 Mar 2024 12:49:06 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=184356 Sabato scorso, 9 marzo. Sera. La via centrale di Frosinone. Sparatoria all’interno di un bar. Un morto e tre feriti. L’assassino si costituisce nella notte. Ha 23 anni, è un albanese, come la vittima. Una storia di gelosia, cerca di spiegare il reo confesso. Gli investigatori sono più propensi a seguire la pista di uno scontro tra clan rivali. Droga, prostituzione, armi. Il Messaggero definisce il capoluogo ciociaro “una città ostaggio delle bande nel crocevia delle mafie”. Ma ci è voluta una sfida tipo OK Corral per scoprire una cosa del genere?

Ora i mezzi di informazione stanno seguendo il corso delle indagini, ma con sempre minore interesse. Forse i riflettori verranno riaccesi quando si svolgerà il processo. Ma per il resto riscenderà l’oblio. E questo vale per tanti altri avvenimenti. Come l’uccisone di un ragazzo rumeno di 14 anni, a metà gennaio, in quel di Montecompatri. Anche allora si parlò di una resa dei conti. Ma poi che è successo? Luoghi e personaggi balzano all’improvviso sul palcoscenico della cronaca e altrettanto velocemente scompaiono.

Non ci sono mai un prima e un dopo. Solo l’istantanea di un fatto, un’immagine fissa data in pasto all’opinione pubblica. Responsabilità dei media, tutti concentrati sull’immediato con la rinuncia a inchieste e monitoraggi di lungo termine, ma anche delle forze dell’ordine, più impegnate, anche per scarsità di personale e di mezzi, a fronteggiare le emergenze piuttosto che a svolgere una diuturna opera di prevenzione e denuncia.

Una logica dell’eterno presente che non si applica solo ai fatti di cronaca. Vale per la politica, per l’economia, per la società. E per le guerre. Dell’Ucraina e della Striscia di Gaza continuiamo a vedere bombardamenti e macerie, con un crescente oblio delle cause profonde e delle conseguenze possibili.

Giovanni De Mauro, direttore di Internazionale, ha affrontato la questione in un editoriale. Citando, in modo efficace, il giornalista e studioso Giovanni Cesareo: “Un evento è frutto di un processo e origine di un nuovo processo, cioè, fa parte di una catena di eventi. Quando si sceglie ciò che farà notizia, si taglia questa catena a un certo stadio, a un certo livello. Il punto nel quale viene operato questo taglio non dipende soltanto-e talvolta non dipende in alcun modo-da una presunta naturale evidenza dell’evento selezionato. Dipende piuttosto sia dai riferimenti culturali e sociali che si adottano per stabilire ciò che conta, sia delle possibilità che si hanno di seguire e osservare l’intera catena degli eventi”.

Sulla stessa rivista, Zerocalcare, uno degli intellettuali (speriamo che non si adonti per questa definizione) più impegnati nella difesa di Ilaria Salis, detenuta in condizioni disumane nelle carceri ungheresi, si prende la briga di seguire senza soluzione di continuità le disavventure della nostra connazionale. Impegnandosi a ricostruire il prima e a non trascurare il dopo.

Nel prima, ci sono i neonazisti, i quali ogni anno, sfilano a Budapest celebrando l’onore di chi combatté per Hitler. Tra di loro, un certo L.D, il cui volto tumefatto è apparso sui giornali di destra, ferito non si bene in quale occasione, e indicato come una delle vittime dell’insegnante italiana. Falso, perché il suo nome non appare tra quelli messi in conto, nelle carte del processo, alla vendicatrice rossa. Non solo. Questo personaggio suona in un gruppo skin-head e Zero Calcare riporta il testo di una delle loro canzoni: “Bambini carbonizzati e puttane ebree torturate /La vista è bella il mio cuore è pieno di calore/ Non importa quanto piangi, bastardo ebreo, morirai comunque /Il crematorio consumerà il tuo corpo immondo/ Le caldaie bruciano, i camini fumano, cadono ebrei, donne e bambini/Filo spinato e campo minato, da qui non puoi scappare/l’unica via per la libertà è attraverso il camino/ Il mucchio dei cadaveri arriva fino al cielo, non si vede più un ebreo”.

Le mani prudono. Prima e dopo.

Marco Cianca

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Il capitano Margherito https://www.ildiariodellavoro.it/il-capitano-margherito/ Wed, 06 Mar 2024 11:39:31 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=184184 Il giovane capitano Salvatore Margherito venne arrestato il 24 agosto 1976 e rinchiuso nella caserma di Peschiera del Garda. Faceva parte del secondo reparto celere di stanza a Padova. Le accuse: attività sediziosa, violata consegna e diffamazione aggravata nei confronti delle istituzioni militari. Aveva denunciato abusi, soprusi, violenze.

Davanti al tribunale militare, fu difeso da Mauro Mellini e da Alberto Malagugini. Il processo ebbe ampio risalto, soprattutto per l’impegno dei radicali. “Questa è un’esecuzione pubblica”, gridò Marco Pannella facendo irruzione in aula il 29 settembre. A sera, la sentenza.: un anno, due mesi e venti giorni di reclusione. In aggiunta la sospensione dal servizio e dal grado. Margherito rientrerà nei ranghi grazie all’amnistia del 1979, fino a diventare questore di Modena nel 2008.

Lo stesso anno rilascia un’intervista al Corriere della Sera: “I mass media, la televisione, i giornali…chi mi presentava come eroe, chi un pazzo. Io non ero un eroe, né un esaltato. Ero stordito, avevo 25 anni…Fui un po’ uno strumento, divenni protagonista di eventi che all’inizio non volevo”. Gli eventi furono quelli che portarono alla riforma del 1° aprile 1981, che smilitarizzò la Polizia scelbiana trasformandola in “un’amministrazione civile a ordinamento speciale”. Niente più gerarchie oppressive, basta con la cieca obbedienza e le vessazioni, via i regolamenti medievali. E ingresso delle donne nei ruoli operativi.

Margherito, in realtà, aveva rappresentato solo una tappa di un lungo processo, segnato da proteste, ammutinamenti, contestazioni, verso la democratizzazione del corpo. E la nascita del primo sindacato, il Siulp, al quale aderì anche il capitano, diede una spinta decisiva a questa piccola rivoluzione.

Tutto bene? No, perché qualcosa continua a non andare. I manganelli usati a Firenze contro gli studenti riportano alla mente proprio le testimonianze rese durante il processo del 1976. Raccontò l’imputato: “Mi ricordo che stavamo al palazzo dello sport, all’Eur, per il congresso della Dc. Tutto il palazzo era circondato da ingenti forze di polizia con elicotteri che sorvolavano la zona; squadra politica; staffette della polizia stradale; c’era addirittura la Guardia di finanza e nonostante tutto un gruppo di extraparlamentari, così definiti, si incanala e si avvicina verso l’ingresso principale. Venne il funzionario e mi ricordo che disse: “per favore, tenente, appronti gli uomini che forse ci sarà un intervento”. Io appronto gli uomini come prescritto da consegna, lasciando un’aliquota per difendere i mezzi. Appena questi manifestanti hanno accennato a uno slogan si avvicina un signore in borghese e grida: “caricate, caricate, stronzi!”. “Ma lei chi è?”. “Non si preoccupi. Carichi, carichi! Li ammazzi di botte!”. Sono rimasto esterrefatto. Si qualifichi. Chi è?”. Ah, io sono il vicequestore tal dei tali…”. E carica fu: “Li massacrarono”.

Ancora. Rapporti “amichevoli con ambienti dell’estrema destra”, tondini o sbarre di ferro inserite negli sfollagente, calotte di plastica tolte ai lacrimogeni per dargli maggiore efficacia penetrante. Margherito smaschera uno dei testimoni usati contro di lui (dicevano tutti le stesse cose, come le avessero mandate a memoria): “C’ero io. Spaccò la testa ad un fotografo con una legnata. E quello: “Un giornalista può essere un estremista!”.

Al dibattimento, si parlò anche di un’enciclopedia della polizia, usata come testo di cultura generale. Tra l’altro, vi era scritto: “Vi sono casi di delinquenza che suscitano un turbamento assai profondo nello spirito dei cittadini o, anche quando trattasi di delitti comuni, a cagione della loro atrocità, rivelano un’indole così profondamente malvagia nei delinquenti da togliere alla società qualsiasi speranza che si possa con la pena restrittiva porre un freno ai loro istinti perversi. In questi casi è necessaria la più grave pena intimidatrice, la pena di morte”. Alla voce comunismo: “Il carattere sostanziale costitutivo di esso è distruggere l’umana personalità”. La masturbazione: “Vizio funesto che ha tanta nefasta influenza nel fisico e nel morale e che talvolta conduce precocemente alla morte”.

Oggi, nei corsi di formazione delle forze dell’ordine, quali sono gli insegnamenti? Quali i codici deontologici? Tra i docenti ci sono ammiratori di Vannacci? Perché un carabiniere dice ad un’anziana dimostrante che Mattarella non è il suo presidente?

Forse c’è bisogno di un nuovo bagno democratico.

Marco Cianca

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Gli obroni wawu https://www.ildiariodellavoro.it/gli-obroni-wawu/ Wed, 28 Feb 2024 10:16:57 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=183963 Li chiamano “obroni wawu”, che nel gergo locale significa “abiti degli uomini bianchi morti”. Sono i capi d’abbigliamento usati che il Ghana importa soprattutto da Regno Unito, Canada e Cina. I vestiti di seconda mano vengono offerti a prezzi modesti nel mercato di Kantamanto che si estende su un’area di 20 ettari. Il grande bazar è diventato un’attrattiva per i turisti stranieri tanto che i tour operator l’hanno inserito nelle visite guidate.

Ogni settimana arrivano balle di indumenti, vendute tra i 25 e i 500 dollari l’una. Fin qui non ci sarebbe niente di male, anche se appare subito evidente che l’unico guadagno certo finisce nelle tasche dei commercianti internazionali che inondano di articoli dismessi il Paese africano. Ma il profitto non conosce limiti e così invece di capi che consentano un corretto riciclo, cotone, lino, lana, arrivano gli scarti del “fast fashion”, che per sua stessa definizione sforna prodotti destinati ad un brevissimo ciclo di vita.

Morale della storia: buona parte di questa robaccia finisce al macero. Ma non avendo il Ghana un sistema di smaltimento (qui a Roma non possiamo certo fare prediche…) i rifiuti tessili vengono bruciati in colossali roghi o gettati qua e là. L’inquinamento atmosferico e ambientale fa paura. In molte aree delle spiagge di Accra la sabbia non è visibile, sommersa dagli scampoli “usa e getta”. E il mare è una discarica sempre a disposizione. Le reti dei pescatori raccolgono più magliette e jeans che pesci.

Eppure, il traffico di “obroni wawu” continua, rendendo circa 214 milioni di dollari al mese. Con costi irrisori: i lavoratori ghanesi, moderni schiavi, vengono costretti a lavare, tingere, rammendare e stirare gli abiti usati. E al facchinaggio sono addetti donne e bambini: trasportano montagne di imballaggi che pesano tra i 50 e i 100 chili, ricevendo una paga giornaliera che non basta a comprare un litro di latte.

“L’altra faccia della moda”, ha titolato l’Osservatore Romano pubblicando la minuziosa e sdegnata cronaca di Isabella Piro. Uno dei numerosi articoli che il quotidiano della Santa Sede dedica, solitario ma indomito, all’Africa negletta. C’è il Ghana sommerso dagli scarti dei nostri armadi e ci sono le tante nazioni sconvolte dalle guerre civili, innescate e alimentate dagli interessi delle multinazionali e delle potenze straniere. All’inizio fanno un po’ di notizia, ma poi ci si dimentica di esse, l’Ucraina e Gaza bastano e avanzano per tenere desta la tiepida coscienza dell’Occidente.

Nel Sudan, dopo quasi dieci mesi dei sanguinosi scontri provocati dalla rivalità tra i generali Abdel Fattah al-Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo, si contano dodicimila morti e oltre dieci milioni di profughi. Diciotto milioni le persone che soffrono di fame acuta. Mancano acqua ed elettricità. Il colera imperversa, l’assistenza sanitaria è quasi impossibile.

Le testimonianze parlano di atrocità, violenze su base tribale e religiosa, stupri, violazioni dei più elementari diritti. Un tragico caos, al momento senza una via d’uscita. Nei primi anni duemila, un analogo conflitto interno portò a trecentomila uccisioni e ad una catastrofe generazionale, con il più grande esodo di bambini al mondo. E ora ci si sta avviando a raggiungere questo terribile record.

Solo a El Genina, la “pulizia etnica” ha mietuto più vittime di quelle provocate dal massacro di Srebrenica del 1995, da noi ricordato, rimarca Giulio Albanese, “come il peggiore omicidio di massa avvenuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale”.

In Kenya, il popolo Ogiek viene spinto con la forza a fuggire dalla foresta Mau, la più grande entità fluviale montana dell’Africa Orientale. Il legname e il carbonio fanno gola a investitori senza scrupoli, i quali, con l’interessata complicità dello stesso governo di Nairobi, ricorrono ad ogni mezzo per avere mano libera. Interi villaggi vengono bruciati per seminare il terrore tra gli indigeni, che rappresentano l’unico ostacolo all’avidità.

Che altro? Mercanti di abiti usati, venditori di armi, trafficanti di esseri umani, sfruttatori di ricchezze naturali e minerarie, mercenari, consiglieri occulti. È vero, gli africani li stiamo aiutando a casa loro.

Marco Cianca

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Senza cuore https://www.ildiariodellavoro.it/senza-cuore/ Tue, 20 Feb 2024 12:00:09 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=176578 Edmondo De Amicis, nato a Oneglia nel 1846, è morto in quel di Bordighera l’11 marzo 1908. Ma anche questo 116° anniversario della sua scomparsa, come tanti che l’hanno preceduto passerà sotto silenzio. Chi ricorda più l’autore di Cuore? Forse, qualche indomito insegnante legge ancora quelle commoventi pagine ai propri alunni delle elementari o delle medie. Per il resto, almeno in questo triste periodo, oblio assoluto. L’ultimo residuo interesse nei suoi confronti, risale al 1984, quando Luigi Comencini diresse una serie tv in sei puntate con Johnny Dorelli nei panni del maestro Perboni.

Troppo dalla parte dei deboli, per la destra cattivista. Troppo mieloso, a dire della sinistra conflittuale: Umberto Eco, polemizzando con “l’ambiguo socialismo umanitario” dello scrittore, imbastì un elogio del perfido Franti. Troppo laico, secondo il giudizio della Chiesa che lamenta l’assenza di qualsiasi riferimento alle ricorrenze religiose, Natale compreso. E così il buonismo ottocentesco, intriso di retorica risorgimentale, non intenerisce più nessuno.

La piccola vedetta lombarda, il tamburino sardo, il piccolo scrivano fiorentino, sangue romagnolo, i bambini rachitici, dagli Appennini alle Ande, la sordomuta, gli amici operai, i ragazzi ciechi, lo spazzacamino. Racconti e personaggi che languono nella soffitta degli antichi e dimenticati sentimenti. A chi può interessare, oggi, la nobiltà d’animo di Garrone o la contagiosa allegria della maestrina, “quella giovane col viso color di rosa, che ha due belle pozzette nelle guance, e porta una gran penna rossa sul cappellino”?

Eppure, il diario di Enrico Bottini, dal 17 ottobre 1881 al 10 luglio dell’anno successivo, non muove solo la leva emotiva ma ha molti tratti di denuncia sociale. I poveri, i malcapitati, gli sfruttati. In questi giorni ci indigniamo per le vittime di Firenze, uccise da una scellerata catena di subappalti. Guarda caso, proprio a metà febbraio, sorprendente coincidenza, lo scolaro vede passare una barella “sulla quale era disteso un uomo, bianco come un cadavere, che perdeva sangue dalla bocca e dalle orecchie; e accanto camminava una donna con un bimbo in braccio, che pareva pazza, e gridava di tratto in tratto: È morto! È morto! È morto”. Era un muratore, “caduto dal quarto piano mentre lavorava”. Un secolo e mezzo dopo, nulla sembra cambiato.

De Amicis vergò anche versi. Una poesia, “Gli emigranti”, andrebbe letta tutti i giorni ai fratelli e alle sorelle d’Italia e ai tanti Salvini affetti da xenofobia per ricordare loro che un tempo eravamo noi a solcare il mare. “Con gli occhi spenti, con le guance cave/pallidi, in atto addolorato e grave/sorreggendo le donne affrante e smorte /ascendono la nave/ come s’ascende il palco della morte. / E ognun sul petto trepido si serra/ tutto quello che possiede sulla terra /altri un misero involto/ altri un patito bimbo, che gli si afferra al collo /dalle immense acque atterrito. /Salgono in lunga fila, umili e muti/e sopra i volti bruni e sparuti appar /umido ancora il desolato affanno /degli estremi saluti/ dati ai monti che più non rivedranno. / Salgono, e ognuno la pupilla mesta/ sulla ricca e gentil Genova arresta, /intento in atto di stupor profondo/ come sopra una festa / fisserebbe lo sguardo un moribondo. / Ammonticchiati là come giumenti/ sulla gelida prua morsa dai venti/ migrano a terre inospiti e lontane. /Laceri e macilenti, /varcano i mari per cercar del pane. / Traditi da un mercante menzognero/ vanno, oggetto di scherno, allo straniero. /Bestie da soma, dispregiati iloti/carne da cimitero /vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti. /Vanno, ignari di tutto, ove li porta/ la fame, in terre ove altra gente è morta/come il pezzente cieco o vagabondo/ erra di porta in porta /essi così vanno di mondo in mondo..”.

Perché gli italiani non hanno più Cuore?

In ogni caso, chiedendo scusa alla sua anima, ci permettiamo di dissentire dalle conclusioni di Umberto Eco: Franti non era destinato a diventare un anarchico, un Gaetano Bresci, bensì uno squadrista. Aveva tutte le caratteristiche di un futuro manganellatore in camicia nera.

Marco Cianca

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La pace impossibile https://www.ildiariodellavoro.it/la-pace-impossibile/ Wed, 14 Feb 2024 12:42:24 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=176358 Nel 1988 Benny Morris, storico, giornalista, allora corrispondente del Guardian e riservista dell’esercito israeliano, rifiutò di prestare servizio nei territori occupati del West Bank, dove era scoppiata l’ennesima rivolta. “No, mi spiace. Quello che stiamo facendo è criminale. Mi rifiuto di esserne complice. Dobbiamo andarcene da lì”, affermò durante il processo militare. Fu condannato a tre settimane di reclusione. In carcere, scrisse un breve diario per raccontare le umiliazioni della detenzione e i rapporti con le guardie, con gli altri obiettori di coscienza e, soprattutto, con gli ostinati bellicisti.

Annota il 23 settembre: “Più tardi ho il mio primo scontro politico serio. È con Darwish, un ebreo curdo che dice rabbiosamente: avrebbero dovuto darti un anno, non tre settimane. Dovremmo ucciderli tutti, gli arabi. Metterli al muro e farli fuori. Mimando un mitra con le mani, inizia a sparare raffiche tutto intorno. Dovremmo fargli quello che Hitler ha fatto a noi, perché è quello che loro vorrebbero fare a noi. E voi di <Pace ora>, voi sinistroidi, fate tutti il loro gioco, il gioco dell’Olp. Come dovremmo trattare della gente che fracassa la testa di un bambino ebreo di cinque mesi a sassate? Se loro ci tirano pietre, noi dovremmo sparargli”.

Commenta Morris: “E’ pazzesco che un ebreo, pure se è infervorato in una discussione, pure se sefardita e forse toccato solo alla lontana dall’Olocausto, possa parlare allegramente di sterminio e augurarsi che Israele si comporti come Hitler. Israele è un Paese che ha smarrito la propria coscienza”.

Il breve testo è contenuto nell’ampio volume “1948” che l’obiettore scrisse qualche anno dopo la detenzione e nel quale racconta la guerra con gli arabi che accompagnò la nascita della nuova Nazione, sorta sotto la spinta ineludibile del sionismo. Furono settecentomila i profughi palestinesi scappati o cacciati con la forza. Oggi i “rifugiati” sono oltre quattro milioni.

Morris è capofila di quella nuova corrente storiografica israeliana che rifiuta ogni enfasi propagandista e patriottica, basandosi solo su fonti e documenti. Quando stava lavorando alla sua opera, esprimeva un certo ottimismo, specie dopo gli accordi di Oslo del 1993 che apparivano un primo passo verso la pace: “I palestinesi sembravano aver abbandonato quell’obiettivo che sognavano da decenni – distruggere e soppiantare lo Stato ebraico – e gli israeliani avevano abbandonato il loro sogno di un “Grande Israele” esteso dal Mediterraneo al Giordano”. Ma ben presto la fiducia in un futuro senza armi svanì come neve al sole e così le successive edizioni del libro sono state contrassegnate da un “pessimismo assoluto”. I fatti di questi giorni gli stanno dando, purtroppo, piena ragione.

Il punto di svolta, da un percorso virtuoso alla strada dell’inferno, lo fa risalire al fallimento degli accordi di Camp David, nel 2000, quando Bill Clinton, Ehud Barak (appena succeduto al primo governo Netanyahu) e Yasser Arafat non riuscirono a raggiungere l’intesa caldeggiata dal presidente statunitense. Morris attribuisce la maggior colpa di quell’insuccesso, le cui conseguenze le abbiamo oggi sotto gli occhi, al leader dell’Olp, alfiere del “diritto al ritorno”, giudicato bugiardo, inattendibile, doppiogiochista. Disse no alle offerte, che il nostro storico ritiene più che adeguate, e fu subito Intifada.

Dall’altra parte, questo rinvigorì la destra israeliana e gli oltranzisti ultraortodossi. Ai lanci di pietre e di razzi, agli attentati kamikaze, agli atti di terrorismo, hanno fatto seguito reazioni sempre più brutali. Ecco la tragica presa d’atto dell’atavica ostilità tra “due gruppi etnici, o popoli ostili, con una memoria storica reciprocamente incompatibile”. La diatriba tra chi c’era prima risale all’alba della civiltà, senza alcun costrutto. E le ambizioni territoriali si dispiegano in un’area geografica molto ridotta. Da qui la conclusione che “solo la separazione in due entità etnico-politiche può condurre alla pace. Senza, ci sarà una guerra perpetua finché uno dei due popoli rivali verrà gettato in mare o nel deserto”.

Poi è arrivato il 7 ottobre, l’assalto inusitato di Hamas, i morti, le violenze, gli stupri, gli ostaggi. E nella striscia di Gaza ha preso il via il biblico massacro che abbiamo ancora sotto gli occhi.

Il conto delle vittime aumenta, aumenta, aumenta. I racconti dell’orrore, dal malato di dialisi che muore mentre cerca un ospedale alla bambina salvata da sotto le macerie e poi saltata in aria con tutta l’ambulanza, aggiungono lo sgomento all’indignazione. Ma non si vedono vie d’uscita, mentre cresce nel mondo l’antisemitismo. La soluzione dei due Stati sembra ormai impraticabile, anche perché in Cisgiordania ci sono 750 mila coloni israeliani che non ci pensano proprio a tornare indietro e la Striscia sta diventando un cimitero all’aperto, le rovine come lapidi.

Nessuno può dire come andrà a finire. Israele sente sempre più minacciata la propria esistenza e vorrebbe cancellare, letteralmente, ogni potenziale nemico mentre gli arabi, più o meno esplicitamente, e non solo l’Iran, vorrebbero riscattare le tante sconfitte subite e annientare gli invasori, come avvenne con i crociati.

Morris ha da tempo una visione apocalittica: “La Palestina diventerà un deserto nucleare, che non potrà più fungere da patria per nessuno dei due popoli che se la contendono”.

Speriamo che Jahvè e Allah si fermino un attimo prima dello scontro finale.

Marco Cianca

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Il vannaccismo strisciante https://www.ildiariodellavoro.it/il-vannaccismo-strisciante/ Tue, 06 Feb 2024 10:45:47 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=175928 Vannaccismo strisciante. L’espressione è stata coniata da Giuliano Ferrara. Lui la usa nel senso di provincialismo e piccineria populista contrapponendola alla “gay culture”, che “esprime nuovi criteri di tolleranza e comprensione e accettazione”, incarnata da Gabriel Attali, il nuovo primo ministro francese. Facciamo nostra la geniale definizione ma la ampliamo, per lanciare l’allarme. Perché il becero ciarpame ideologico ostentato dall’ineffabile generale si diffonde come un morbo. Una locusta che mangia la memoria e rende la ragione un campo desolato. Il “mondo al contrario”, dal titolo del libro più venduto nel 2023, sta subendo una tale spinta di rotazione che potrebbe renderlo l’universo dominante.

A preoccupare non sono tanto i saluti romani in via Acca Larentia, anche se una tale esibizione squadrista incute timore, ma il diffondersi di ottusità e luoghi comuni che vengono ormai espressi a ruota libera, senza vergogna. Il linguaggio e i comportamenti di ministri, sottosegretari ed esponenti vari dell’attuale maggioranza, in una torbida rincorsa elettorale tra Lega e Fratelli d’Italia, fanno emergere, moltiplicano e rendono lecite affermazioni che prima venivano pronunciate sottovoce per timore di una riprovazione morale. Ora troppe bocche sguaiate veicolano concetti aberranti in troppe orecchie compiacenti.

Ai soliti cavalli di battaglia, Mussolini era un grande, gli eroi sono i repubblichini e i combattenti di El Alamein e non i partigiani foraggiati da inglesi e americani, Stalin ha ammazzato più gente di Hitler, la tragedia delle foibe è stata tenuta nascosta e se ne parla solo ora con la destra finalmente al governo, in Italia ha sempre comandato la sinistra, gli immigrati vogliono invaderci, gli ebrei e le banche la fanno da padroni, si affiancano sconcertanti giudizi su fatti più recenti.

Qualche esempio? Stefano Cucchi se l’è cercata e la sorella ha fatto carriera speculando su quella morte; troppo clamore per Giulia Cecchettin e la sua famiglia di spostati, ridicola l’enfasi per la cerimonia della laurea postuma; allo stadio non c’è razzismo ma solo sano tifo; il quattordicenne ucciso a Velletri era un rom, meno male che si eliminano tra di loro; Ilaria Salis è una picchiatrice rossa, giusto che la tengano in catene, i neonazisti che, a metà febbraio di ogni anno, sfilano per le vie di Budapest celebrando la giornata dell’onore sono da ammirare; qui a Roma hanno fatto bene ad assaltare il centro gay di Testaccio perché non ne possiamo più di froci, lesbiche e travestiti, una lobby che vuole imporci perversi stili di vita.

Un emozionante documentario, reperibile su Netflix, è dedicato a “Eldorado”, il ritrovo berlinese della comunità Lgbtq ai tempi della tollerante repubblica di Weimar. Le SS lo chiusero, arrestarono o uccisero i frequentatori, cominciò la caccia agli omosessuali. A migliaia morirono nei campi di concentramento. Ammonisce una giovane studiosa: “Anche oggi, nonostante i progressi che ci sono stati per i diritti delle persone queer e trans, quelle libertà restano fragili e possono esserci tolte in qualsiasi momento”.

Poi ci sono le invettive contro gli ambientalisti, la riconversione “green”, l’inganno della crisi climatica. I vaccini ci hanno modificati geneticamente. L’Oms persegue la dittatura sanitaria al soldo delle case farmaceutiche. Non si muove foglia senza che lo vogliano i poteri occulti. Accattoni, ladruncoli e giovani scapestrati devono marcire dietro le sbarre mentre gli evasori fiscali vanno capiti perché, lo dice Giorgia Meloni, le tasse sono un pizzo di stato.

Stupidità, grettezza, ignoranza, malafede, boria. Il negazionismo e il complottismo fanno da cemento di tutto questo ciarpame ideologico, ergendo Trump ad eroe, in messianica attesa di quella che Michele Ainis chiama “capocrazia”. Chi si oppone è comunista.

Vannaccismo strisciante. Il linguista Massimo Arcangeli ha scritto un piccolo saggio per confutare una per una “le finte verità del senso comune”. Il titolo, a presa in giro, è “Il generale ha scritto anche cose giuste”. La cassiera della libreria non coglie l’ironia, pensa che si tratti di un elogio e sorride, compiaciuta e complice, all’attonito acquirente. Su uno scaffale, in bella mostra, il volume “Sticazzi”, l’ultimo manifesto del menefreghismo e del credere solo in se stessi.

Sembra di essere circondati da quei personaggi con i tratti suini che animano i disegni di Altan. In una recente vignetta, due di loro emergono con la sola testa da una nauseabonda fanghiglia. “Siamo nella merda”, dice uno all’altro. Il quale risponde: “E si prevede una escalation”.

Marco Cianca

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Benvenuto e i 40 anni di San Valentino https://www.ildiariodellavoro.it/benvenuto-e-i-40-anni-di-san-valentino/ Wed, 31 Jan 2024 12:39:03 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=175715 Il decreto di San Valentino compie quarant’anni. Era il 14 febbraio del 1984 quando il governo Craxi decise il taglio di quattro punti della scala mobile. L’Italia si divise in due, da una parte il Pci e la maggioranza della Cgil (si dissociò l’ala socialista guidata da Ottaviano Del Turco), dall’altra Cisl, Uil, il Psi, il Pri, il Pli, il Psdi e la Dc (più tiepida). Fu battaglia vera, in un clima di scontro, che si concluse l’anno successivo con il referendum vinto dai favorevoli al provvedimento. Una ferita profonda nel corpo del sindacato, che sancì la dissoluzione della federazione unitaria e che non si è ancora sanata del tutto.

Giorgio Benvenuto è uno dei principali protagonisti di quelle tormentate vicende. E torna a parlarne in un libro-intervista, “Il sindacalista e la storia”, realizzato da Bruno Chiavazzo, con un’inaspettata prefazione di Pierluigi Castagnetti. I capitoli dell’agile volume, pubblicato da Edup, segnano le tappe, una sorta di breviario, del nostro recente passato: il giovane Benvenuto; la scoperta del sindacato; i socialisti nel sindacato; i comizi fuori dalle fabbriche; l’autunno caldo; Brodolini e lo Statuto dei lavoratori; l’unità sindacale; gli anni di piombo; Moro e le Brigate rosse; la fuga di Luciano Lama dalla Sapienza; Guido Rossa e la paura degli attentati; l’ossessione americana; San Patrignano; Costanzo, Pannella e Craxi; Papa Woytjla; Ustica, Irpinia, attentati ai treni; la Fiat; Craxi e Berlinguer; Craxi e Lama; muore la prima Repubblica; successore di Craxi; Hammamet; Luciano Lama: un gigante del sindacato; Pierre Carniti: un amico vero.

Proprio ai due compagni di avventura, Benvenuto tributa una messe di elogi. Del leader Cisl evidenzia l’autonomia, la tenacia, il coraggio, la determinazione, la forza, l’orgoglio, la sincerità, la concretezza, la coerenza. “Mi dispiace- lamenta – che nessuno abbia pensato a costituire una Fondazione a lui dedicata”. E a proposito della battaglia sulla scala mobile ricorda come, pur essendo il principale fautore della lotta all’inflazione, respinse le pressioni degli “ultras” tipo Claudio Martelli che volevano approfittare dell’occasione per spaccare tutto definitivamente dando vita al “sindacato democratico” contrapposto a quello di presunta matrice comunista (anche Del Turco si sottrasse a quelle pressioni).

E già, perché un filo unitario legava i combattenti schierati sulle contrapposte barricate. Questo vale soprattutto per Luciano Lama, il quale non avrebbe voluto lo strappo e che firmò la richiesta di referendum solo in ossequio alla fedeltà di partito, quasi umiliato, nel corso di una festa dell’Unità. Fu lui a parlare durante la manifestazione del 24 marzo 1984, un milione di persone in piazza San Giovanni. E gettò acqua sul fuoco, esprimendosi contro lo sciopero generale invocato dal Pci e dicendo no alle vertenze aziendali: “E’ un momento drammatico, lo dobbiamo superare, è necessario ritrovare l’unità del sindacato”.

“Un uomo eccezionale”, lo definisce il libro. “Un atto di coraggio incredibile! Se lui in quella piazza avesse detto “Craxi boia”, sarebbero impazziti tutti e le conseguenze sarebbero stati inimmaginabili, invece riuscì a farli ragionare”. Pochi sanno che il testo di quel discorso lo aveva mandato in anticipo agli amici Pierre e Giorgio proprio per rassicurarli.

Benvenuto ricorda che Craxi fece un ultimo tentativo di conciliazione, modificando il decreto e riducendo la durata al solo 1984: “Un cambio sostanziale, concordato con me, con Ottaviano Del Turco e anche con Lama”. E ripete una sua spiazzante considerazione: “Io sono convinto che se Enrico Berlinguer non fosse morto l’11 giugno, schiantato da un ictus mentre teneva un comizio a Padova, l’accordo l’avrebbe fatto”.

Ma i suoi successori non avevano il carisma per cambiare linea. “Gerardo Chiaromonte – rivela – ci disse preoccupatissimo: Come facciamo? Berlinguer è morto e ci ha lasciato in eredità il referendum. Non c’è nessuno in possesso di un’autorità tale da imporne il ritiro”. I sondaggi, poi, prevedevano un’ampia vittoria dei “Sì” all’abrogazione del decreto e questo turbava molto Bettino Craxi che si dava da fare per cercare di arrivare ad un’intesa. Pierre Carniti aveva avuto un infarto ma dal suo letto d’ospedale avvertì il titubante segretario del Psi che lui sarebbe andato avanti anche da solo. Così si arrivò al voto e vinsero i “No”. Anche gli operai approvarono in maggioranza il taglio che invece, al contrario, fu respinto in città come Napoli. “Paese singolare l’Italia – commentò lo stesso Benvenuto- Hanno votato per mantenere la scala mobile quelli che non ce l’hanno e per modificarla quelli che ce l’hanno!”.

Luciano Lama, possiamo dirlo per certo, sapeva che la Confindustria avrebbe dato comunque la disdetta del meccanismo di contingenza un minuto dopo la chiusura delle urne ma decise di non rendere pubblica tale informazione per timore di inasprire ancora di più il clima. Aveva sempre lavorato per ricucire e, quando i cronisti invasero il suo ufficio in Corso d’Italia per chiedergli un commento sull’esito della consultazione, disse con tono accorato: “Aiutateci a ritessere la tela, non a strapparla ancora di più”. “Questo atteggiamento “poco guerresco” -rimarca il signor Uil- gli costò la successione ad Alessandro Natta. Un vero peccato perché, a mio giudizio, avrebbe cambiato le sorti della sinistra nel nostro Paese”.

Alti tempi, altri personaggi. Nostalgia canaglia.

Marco Cianca

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Il ghigno di Contagina https://www.ildiariodellavoro.it/il-ghigno-di-contagina/ Wed, 24 Jan 2024 08:35:40 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=175468 Prima arrivò la pioggia, quel 13 giugno, alle otto in punto della mattina. Una burrasca che allagò la piccola cittadina. Una tempesta d’acqua degna del Diluvio Universale. Durò tutto il giorno. Il mattino successivo una fanghiglia giallastra ricopriva strade e marciapiedi. E da sotto la strana melma cominciarono a sciamare limacce color viola, un verminaio fosforescente. Scope, palette, mani nude riuscirono, vincendo fatica e disgusto, ad avere la meglio sulle corpulente e viscide creature. Bisognava sbrigarsi sia per evitare che entrassero nelle case sia perché da lì a poco si sarebbe inaugurata la grande fiera annuale di piante e uccelli. Si fece in tempo e l’evento, che richiamava gente da ogni dove, ebbe inizio.

 Tutto sembrava tornato alla normalità ma poi cominciò a spirare un vento violento che fece volare mercanzie, bancherelle, tabelloni pubblicitari, tetti, baracche. La bufera d’aria sollevò in roteanti mulinelli il sedimento giallastro che era rimasto appiccicato all’asfalto, soprattutto in periferia. A sera, l’uragano di polvere cessò di botto. Poi cominciarono le morti, improvvise ed inspiegabili. Il farmacista Aldo Torrenova, il commerciante di stoffe Carlino l’Avaro, don Ciccio il tabaccaio, Enzo il sarto, Marta la gelataia. Decessi fulminanti. Le vittime cadevano a terra all’improvviso, ovunque si trovassero. Tutti con il volto stravolto da una smorfia d’orrore.

Comincia così il romanzo di Piero Bevilacqua ambientato a “Contagina” (omen nomen), un’amena località del Nord Italia che diventa all’improvviso l’ombelico dell’Italia come fu per Codogno e Alzano, esattamente tre anni fa. Già, perché l’inizio della pandemia viene ufficialmente datato al 30 gennaio del 2020. Ma il libro di cui stiamo parlando, e che esce proprio in queste settimane (mentre imperversa un’insolita e tenace influenza) a rimarcare una ricorrenza che sembriamo aver dimenticato, offuscati dal drammatico presente, colloca la vicenda nei Tempi Nuovi, un’era futura scaturita dal susseguirsi di allarmi virali.

Una società nella quale non esistono più destra e sinistra ma va in scena una commedia delle parti. Di volta in volta, maggioranza e opposizione si scambiano i ruoli, un assetto della vita politica definito “discordia simulata”. Identici, con poche sfumature, i valori sociali di riferimento, il Pil, la crescita economica, la produzione e il consumo di beni superflui, il denaro. La nuova divisione, semmai, separa contagisti e sanisti.

Il misterioso morbo, la cui unica evidenza è il ghigno di disgusto che accumuna le vittime, da Contagina si propaga in tutti i continenti. Si va avanti così, tra morti istantanee, teorie strampalate, personaggi singolari, idiozie a profusione, reazioni scomposte. Bevilacqua, professore universitario, studioso (a lui si deve una preziosa “Breve storia dell’Italia meridionale”), appassionato e instancabile animatore culturale e politico, ha una scrittura prensile, duttile, minuziosa. Da segnalare le pagine, pregne di sapienza botanica, sul grande incendio che dalla Sicilia risale la penisola fino alle alpi, evitando gli abitati ma distruggendo foreste e campagne.

Chiari i riferimenti alla Peste di Camus e a Cecità di Saramago ma la tragedia è intessuta con una stoffa di arguta e divertente ironia che fa pensare ad Aldo Palazzeschi e ad Achille Campanile, passando per Borges e Buzzati. Si legge tutto di un fiato, come un giallo o un racconto di fantascienza.

Amara la conclusione, quando la nuova emergenza finisce. “Da decenni e decenni i governanti di tutti i Paesi promettevano ai loro governati rinascite e nuovi corsi storici, rinnovamenti radicali ed epifanie, che non si avveravano mai”. Durante le pandemie “si scorgeva, squarciato il velo delle antiche favole, l’intima ossatura della vita organizzata, la fasullagine delle gerarchie, l’arbitrio violento del dominio, l’universale pochezza di tutti, ma anche lo spiraglio aperto verso un altro possibile corso”. Tanto che “quando, tra lo stupore generale la morte di massa abbandonava la scena del mondo tutti credevano di trovarsi all’inizio di un nuovo sentiero dell’umana vicenda”.

“In realtà, come sapevano pochi, appartati e solitari vecchi – Bevilacqua sembra annoverarsi tra costoro – i quali conoscevano il sempiterno, selvaggio, primordiale potere del Potere, tutti, uomini e donne, ricchi e diseredati, con il bastone in mano o in ginocchio, si apprestavano a ripetere la sciocca e crudele commedia di sempre, con gli stessi schiamazzi, risa e pianti, l’immutabile ridda di vincenti e sconfitti dei secoli e dei millenni precedenti. Per costoro, consumati dagli anni e dalle delusioni, dai pensieri ruminati in profonda solitudine, essendo scomparso tra gli uomini l’istinto di salvezza, vale a dire l’antica attitudine alla rivolta, l’indomabile spirito di insurrezione che li aveva per lungo tempo accompagnati, la storia dei figli di Adamo era avviata a un circolo senza fine di disastri e di illusorie rinascite”.

Parole di profondo pessimismo ma anche un monito a non arrendersi mai. La rottura del plumbeo schema non è un’utopia. A meno che si voglia attendere, inani e passivi, il Big One.

Marco Cianca

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L’addio di Albertini e il saluto romano https://www.ildiariodellavoro.it/laddio-di-albertini-e-il-saluto-romano/ Tue, 16 Jan 2024 10:57:12 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=175254 Corriere della Sera, sabato 28 novembre 1925, prima pagina. Una riga di titolo, “Commiato”, sovrasta, in bella evidenza, un lungo editoriale di Luigi Albertini. La notizia è già nell’inizio, senza giri di parole, come si addice ad un grande professionista.  “La domanda di scioglimento della società proprietaria del Corriere della Sera intimata dai fratelli Crespi porta il mio distacco da questo giornale. Avrei avuto il diritto in sede di liquidazione di entrare in gara con essi per l’acquisto dell’azienda, ma era il mio un diritto teorico che in pratica non potevo esercitare. Non potevo esercitarlo, sia perché mi mancavano i mezzi necessari per vincere nella gara i fratelli Crespi, possessori della maggioranza delle quote sociali, sia perché, quand’anche fossi riuscito a vincerli, la mia vittoria sarebbe stata frustrata dalla minacciata sospensione del Corriere. Abbiamo dovuto dunque, mio fratello ed io, rassegnarci alle conseguenze dell’intimazione dei signori Crespi, cedere loro le nostre quote e rinunciare alla gerenza e alla direzione di questo giornale”.

Albertini ripercorre poi le varie tappe della sua avventura e descrive la bussola morale e politica che l’aveva guidato nel quarto di secolo trascorso sulla tolda di via Solferino. Entrato quale segretario di redazione accanto ad Eugenio Torelli- Viollier, alla morte del fondatore, avvenuta nel 1900, toccò a lui prendere il timone del quotidiano, espressione di un’imprenditoria illuminata che voleva coniugare moderazione e mediazione. Appena insediato, non aveva ancora 29 anni, dovette affrontare la ventata repressiva seguita alla morte di Umberto I per mano dell’anarchico Bresci. Gli mancavano, come lui stesso ammette, “ogni autorità ed ogni credito”, eppure “con grave scandalo dei benpensanti e di qualcuno dei miei soci di allora e con grave pericolo per la mia posizione”, scrisse che bisognava troncare “il linguaggio d’odio” ed opporsi a “provvedimenti di reazione tumultuaria”, esortando alla tutela della libertà e alla fiducia nelle istituzioni.

Ecco “la fede nell’idea liberale” che, assicura, non ha mai abbandonato, e che lo spinse a combattere “costantemente e tenacemente la politica dell’on. Giolitti, dell’on. Orlando e dell’on. Nitti in nome proprio di quell’idea liberale che essi credevano interpretare e che a me invece sembrava violata e compromessa”. Un rifiuto di ogni faziosità e “oltracotanza sovversiva” che lo indusse, di fronte all’occupazione delle fabbriche, a credere nell’iniziale virtù salvifica del fascismo.

Un abbaglio esiziale. Dopo il delitto Matteotti, l’inanità della questione morale, il fallimento dell’Aventino, i liberali si resero conto di quanto avessero errato. Ma era ormai troppo tardi. E ne pagarono le conseguenze. Giovanni Amendola, che nel 1916 era stato capo della redazione romana, con le mortali bastonate, Luigi Albertini con la cacciata dal Corriere. Era il 1925, l’anno in cui il Regime mostrò il suo vero volto, l’anno dell’inutile manifesto antifascista, che Albertini firmò assieme a Benedetto Croce, anch’egli in un primo momento affascinato dal futuro Duce.

Triste e orgoglioso il finale del “Commiato”: “A tale immenso sacrificio vado incontro col cuore gonfio di amarezza, ma a testa alta. Perdo un bene che mi era supremamente caro, ma serbo intatto un patrimonio spirituale che mi è ancora più caro, e salvo la mia dignità e la mia coscienza”.

In quella stessa prima pagina del Corriere, in una emblematica coincidenza, quasi uno sberleffo, viene riportata la notizia che “l’on. Mussolini ha impartito ordini perché dal 1° dicembre in tutte le amministrazioni civili centrali e periferiche e nelle amministrazioni degli Enti dipendenti e parastatali, sia obbligatorio, nei rapporti tra inferiori e superiori, il saluto romano”. Povero Albertini, messo alla porta da cotanta protervia.

Cominciava il Ventennio. Tragico ma con parecchie punte ridicole. Achille Starace, in una disposizione del 28 agosto 1932, ammoniva con involontaria ironia: “Salutare romanamente, rimanendo seduti è…poco romano!”. Ci sono state anche discussioni, vive ancora tra gli squadristi radunatisi in via Acca Larentia, su quanto dovesse essere inclinato il braccio destro rivolto verso l’alto e su quali fossero le distinzioni con l’analogo gesto nazista.

Marco Cianca

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La forza dell’unità https://www.ildiariodellavoro.it/la-forza-dellunita-2/ Wed, 10 Jan 2024 10:51:06 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=175093 Il 16 giugno del 1944 il “Risorgimento”, unico quotidiano di Napoli in quel periodo, intervistò Giuseppe Di Vittorio. Da qualche giorno era stato ufficializzata la “Dichiarazione sulla realizzazione dell’unità sindacale”. Le due cartelle dattiloscritte portavano le firme dello stesso Di Vittorio per i comunisti, Achille Grandi per i democristiani ed Emilio Canevari per i socialisti. Sotto il testo, passato alla storia come Patto di Roma, mancava il nome del suo principale artefice, Bruno Buozzi, trucidato in località La Storta, sulla Cassia, dai nazisti in fuga dopo averlo prelevato dalla prigione di via Tasso dove era rinchiuso.

Commemorandolo un anno dopo, il 3 giugno 1945, al Verano, assieme a Giovanni Gronchi e a Giuseppe Emanuele Modigliani, il segretario della Cgil, avrebbe ricordato come tutti loro consigliassero a “questo sacerdote della libertà”, durante le riunioni clandestine nella capitale occupata, di essere prudente, di stare a casa, di uscire il meno possibile. “Ma lui continuava a lavorare e a sfidare impavido il pericolo. Ci rispondeva: non vi preoccupate. In questo momento, mentre si avvicina la Liberazione, noi dobbiamo stringere per concludere il patto dell’unità sindacale, l’unità sindacale è necessaria come l’aria ai lavoratori italiani, è indispensabile per la resurrezione del movimento operaio italiano, è indispensabile per la rinascita dell’Italia. Allora qualsiasi sacrificio si deve affrontare per realizzare questo ideale, questa grande conquista”.

Quell’orazione funebre, pronunciata con appassionata commozione per ricordare “il primo assertore, il primo artefice, il martire dell’unione sindacale, di questo bene supremo che è anche onore e vanto dei lavoratori italiani”, finora inedita, meriterebbe di essere pubblicata per intero. Ma anche l’intervista al Risorgimento di Napoli, ben poco conosciuta, serve a capire la tensione unitaria che animava i protagonisti di allora.

“Il movente dell’accordo – spiegava Di Vittorio- consiste nella preoccupazione comune dei militanti sindacali delle tre correnti di unificare le forze del lavoro, per potenziarle al massimo grado, allo scopo precipuo di difendere più efficacemente gli interessi economici e morali dei lavoratori, che si identificano con gli interessi generali del Paese. E ciò, sia nella fase attuale- in cui il compito principale è quello di aumentare il contributo italiano alla guerra di liberazione nazionale contro i tedeschi e i loro servi fascisti-sia nella fase successiva della ricostruzione economica, politica e morale dell’Italia”.

“Del resto- continuava rispondendo alle domande di un anonimo giornalista -la sanguinosa dittatura fascista e la guerra antinazionale e catastrofica in cui essa aveva gettato il Paese hanno accomunato nello stesso dolore, nella stessa oppressione schiavistica e nella stessa miseria i lavoratori e gli italiani liberi senza distinzione di opinione politica e di fede religiosa. È naturale quindi che le sofferenze comuni inducano i lavoratori di ogni corrente a unirsi per lottare più efficacemente contro la causa di esse e per preservare il nostro popolo da ogni possibilità di ritorno di un tale regime sotto qualsiasi forma”.

Adamantina la conclusione: “I lavoratori di ogni corrente non detestano nulla di più delle loro divisioni. Tutti sono entusiasti della loro unità sindacale, la quale aggiunge, al vantaggio del maggior potenziamento delle forze del lavoro, il diritto incontestabile per ognuno di professare nella causa comune del lavoro qualsiasi fede politica e religiosa. L’unità, naturalmente, presuppone la rinuncia a tutti i settarismi, l’abitudine alla tolleranza e al rispetto reciproco di tutte le opinioni. Il che farà sorgere nuovi rapporti di fraternità fra i lavoratori manuali e intellettuali delle varie correnti e avrà un’influenza salutare sulla stabilità politica della democrazia italiana e anche sui rapporti tra i vari partiti democratici e progressivi del paese”.

Quell’intervista venne riprodotta, con una bella introduzione di Alessandro Piccioni, dai Quaderni di Rassegna sindacale, settimanale della Cgil, nel numero di marzo-aprile del 1984. Erano i giorni tempestosi del decreto sulla scala mobile con una divisione tra le confederazioni che ricordava il trauma scissionistico del 1948. A riprova che la tela tessuta da Buozzi e Di Vittorio non si è mai del tutto lacerata.

In questa Italia confusa, cinica, immemore, incanaglita, nella quale metà della ricchezza è in mano al cinque per cento delle famiglie, l’industria va a ramengo e la seconda carica dello Stato reputa legittimi i saluti romani, una nuova unità sindacale potrebbe scatenare la stessa forza propulsiva che ebbe nel 1944.

Non ci si arriverà, ma è bello pensarlo.

Marco Cianca

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