Paolo Pirani – Il Diario del Lavoro https://www.ildiariodellavoro.it Quotidiano online del lavoro e delle relazioni industriali Mon, 05 Feb 2024 09:49:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.3 https://www.ildiariodellavoro.it/wp-content/uploads/2024/02/fonditore.svg Paolo Pirani – Il Diario del Lavoro https://www.ildiariodellavoro.it 32 32 La forza del sindacato confederale oggi: il nodo della rappresentanza https://www.ildiariodellavoro.it/la-forza-del-sindacato-confederale-oggi-il-nodo-della-rappresentanza/ Mon, 05 Feb 2024 09:49:07 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=175864 Nella storia del riformismo il sindacato “titolare” di un riconoscimento giuridico in grado di dare certezza alla rappresentatività e forza erga omnes ai contratti  è stato presente e sostenuto da grandi esponenti del movimento sindacale come Bruno Buozzi, ma non solo. E non si è trattato di cultura consociativa visto che il tema della partecipazione veniva affrontato secondo la logica di rafforzare il ruolo autonomo e di “contropotere”  dei lavoratori e delle loro rappresentanze nei confronti delle controparti anche quando si trattava di individuare sbocchi di partecipazione.

Le vicende che portarono nel secondo dopoguerra alla formazione della Cgil unitaria prima e degli articoli della Costituzione poi inattuati come l’articolo 39 e gli altri inerenti alle questioni del lavoro hanno visto, da un lato la prevalenza delle scelte politiche e non poteva essere altrimenti, dall’altro l’ingresso in quella che potremmo definire una sorta di costituzione materiale del sociale della accettazione che la rappresentanza del lavoro dipendente fosse svolta da Cgil, Cisl e Uil.

L’autonomia sindacale dei decenni successivi e il rafforzamento del potere confederale e delle categorie ha, per così dire, consolidato questa concezione che, però, ha dovuto fare i conti con cambiamenti di ogni tipo fino ad approdare al terzo millennio con qualche desiderio da parte di settori politici e finanziari di relegare il tutto a memoria storica invece che prolungare l’effetto di una asserzione condivisa anche perché in grado di garantire la coesione sociale.

Del resto anche nei momenti di maggiore divisione, dagli anni ’50 fino a tempi più recenti, pensiamo alla rottura di San Valentino sulla scala mobile,  le Confederazioni non hanno mai abdicato al dovere di rappresentare gli interessi generali dei lavoratori secondo il criterio di una confederalità responsabile.

Potremmo dire che, anche per tale motivo, si è assistito al tramonto di quella Costituzione materiale ma non di certo alla necessità di avvalersi nell’attuale società del lavoro di un ruolo sindacale protagonista.

E’ molto importante allora che si torni a discutere non tanto di singoli momenti nei quali la rappresentatività viene messa alla prova, una volta sul salario, un’altra sulla bilateralità, un’altra ancora sul welfare, quanto invece sulla esigenza di ripartire da un punto fermo: risolvere una volta per tutte il nodo della rappresentanza. E vi è un modo che fa parte anch’esso della tradizione riformista ed è quello di arrivare ad una legislazione di sostegno che al dunque, visto che si è continuamente in tema di riletture costituzionali, risolva anche il dilemma ormai storico della attuazione dell’art. 39 della Costituzione e più in generale restituisca al ruolo contrattuale del sindacato confederale una centralità che non può essere messa in discussione dall’esame della realtà ma che può invece esserlo per obiettivi di piccolo cabotaggio o per ricorrenti tentazioni di delegittimare le organizzazioni sindacali secondo i dettami liberisti.

La strumentazione per dare certezza alla rappresentatività  esiste e la si può trovare negli accordi interconfederali stipulati in questo primo periodo del terzo millennio con il compito di evitare la frantumazione contrattuale fino ad arrivare ai contratti privati, di assicurare alla negoziazione protagonisti in possesso di requisiti certi di rappresentatività, di estendere erga omnes diritti e benefici economici in una situazione nella quale riemergono rischi consistenti di arbitrarietà come pure di nuovo sfruttamento senza regole.

Ma c’è una questione in più che avanza: è urgente intervenire. Lo è a fronte di contratti che non sono rinnovati per più di sei milioni di lavoratori da anni, lo è per i tentativi di indebolire la bilateralità nella quale il valore della confederalità è indiscutibilmente prevalente, lo è perfino per interpretazioni dell’art. 36 della Costituzione che potrebbe offrire a settori della magistratura l’opportunità di decidere sulla materia salariale e quindi di metter fuori gioco il sistema della contrattazione che non si risolve in una sentenza ma invece consiste in un continuo procedere delle relazioni industriali che tengono quindi conto del variare delle situazioni economiche e lavorative.

Vi è, inoltre, una ulteriore osservazione da valutare: finora le incursioni della politica nelle materie del lavoro tendono più ad affermare una logica propagandistica per catturare consenso che favorire una evoluzione delle relazioni fra le parti sociali come i cambiamenti epocali dal punto di visto tecnologico, dei mercati, della concentrazione e dislocazione delle proprietà richiederebbero. Si arriva al paradosso che la gran parte delle forze politiche è digiuna o quasi di strategie di politica industriale, il loro vero compito, mentre “svaria” con disinvoltura su temi del lavoro che sono propri delle forze sociali. Non ci si accorge infatti che in tal modo si favoriscono da un lato la tentazione a risolvere il ruolo sindacale in quello di mera opposizione, dall’altro di incoraggiare scelte isolazioniste per rivendicare una propria identità.

La proposta che viene avanzata, molto positivamente, dalla Uil proprio in questi giorni, di una legge di sostegno sul problema della rappresentanza ha, quindi, anche il merito di riproporre un dialogo fra forze sindacali e politica in grado di valorizzare il ruolo di entrambe. Naturalmente anche le rappresentanze  datoriali devono fare la loro parte. Non vi è dubbio che si è constatato un logoramento della loro rappresentatività sia nel mondo produttivo che in quello del terziario, sempre per le mutazioni cui è inevitabilmente sottoposta  l’imprenditoria. C’è un mondo di piccole e medie imprese che ormai appaiono ben più “potenti” dei grandi gruppi industriali di una volta. La stessa Confindustria dopo l’uscita della Fiat di Marchionne che concludeva una intera storia imprenditoriale, deve fare i conti non solo con le uscite o con il potere esercitato dai grandi gruppi ancora esistenti ma, anche, con tendenze di imprenditori tese a risolvere in casa propria i rapporti con i lavoratori che riducono di non poco il valore della rappresentanza complessiva.

E di certo la fine del tentativo delle Associazioni imprenditoriali delle piccole imprese del terziario di costituire un polo unitario aggiunge a questo scenario altri elementi di inevitabile difficoltà.

Eppure lo sforzo di restituire alla rappresentanza più…verità, dovrebbe assolvere ad un compito di cui si avverte l’esigenza in una stagione economica e sociale per molti versi difficile da decifrare: rivitalizzare il rapporto fra le forze sociali, la politica, la cultura, i movimenti al fine di riportare con i piedi per terra le sfide che debbono preparare il futuro. Bisogna insomma ascoltare di più quello che si muove nella società e può essere rappresentato con autorevolezza per risolvere i problemi, offrendo di conseguenza la possibilità di contare per quello che vale, e non per assecondar assurde mode “dell’uno conta uno” effettivamente e molto di meno le spinte opportunistiche e disgregatrici che non mancano mai.

Paolo Pirani
Consigliere CNEL

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Partecipazione, la strada da seguire c’è ma va aggiornata e rafforzata https://www.ildiariodellavoro.it/partecipazione-la-strada-da-seguire-ce-ma-va-aggiornata-e-rafforzata/ Thu, 30 Nov 2023 12:56:31 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=173892 Il risultato di questo sviluppo è una oligarchia del capitale privato il cui enorme potere non può essere arrestato nemmeno da una società politica democraticamente organizzata”. Albert Einstein, inutile dirlo, negli anni ’50 aveva visto lungo nel proporre tali considerazioni. Perché dobbiamo convincerci che l’evoluzione economica e tecnologica ripropone la questione del potere in tutta la sua evidenza. Per affrontarlo in modo efficace non servono né visioni classiste, né passatismi imbevuti di pauperismo. Occorre invece scegliere la cultura della partecipazione, potenziarla, sperimentarla con coraggio anche a costo di commettere errori.

L’attuazione della partecipazione nella società industriale ha mostrato innumerevoli tentativi, alcuni dei quali sono divenuti cardine dell’ordine economico e produttivo. Hanno avuto al loro interno dei caratteri comuni: democrazia nei luoghi di lavoro, forza sindacale, mondo della politica attento e pronto ad intervenire, l’idea forza che la partecipazione dovesse non solo equilibrare i poteri nel lavoro ma anche impedire che nella società si formassero vaste aree di esclusione.

La partecipazione anche in passato, possiamo sostenerlo, ha ruotato attorno alla questione del potere. I modelli partecipativi sono nati in modo diverso nel mondo occidentale, da quello svedese a quello tedesco (impossibile da mantenere senza la Bad Godesberg socialdemocratica della fine degli anni ’50), ai nostri consigli di gestione del secondo dopoguerra in virtù di “ricette” diverse ma che scommettevano sulla capacità dei lavoratori di saper competere sui temi della organizzazione del lavoro ma, anche, degli obiettivi delle aziende. Questa maturità della classe lavoratrice la abbiamo constatata anche nella pandemia quando lavoratori e sindacati hanno saputo far convivere la sicurezza con il proseguimento delle attività.

Il riformismo, del resto, ha affidato un ruolo importante alla partecipazione fin dai tempi nei quali Bruno Buozzi poneva con forza il problema della conoscenza e della democrazia nelle fabbriche che, altro non era, se non l’anticipazione di forme di partecipazione in grado di tutelare in primo luogo la dignità del lavoro in una crescita civile della società.

Non a caso un giuslavorista come Gino Giugni rammentò in passato il significato del progetto dei consigli di gestione del socialista Morandi: fare dei consigli un organo capillare della programmazione nazionale.

Naturalmente è impossibile tornare al passato, ma il problema culturale, politico e sociale di collegare la partecipazione al nodo del potere nel mondo del lavoro resta tutto intero ed è su di esso che si dovrebbe riflettere, lavorare, proporre.

Oggi viviamo una contraddizione evidente: la finanziarizzazione del capitale nel mondo e l’accentramento dell’evoluzione tecnologica in poche mani contrasta visibilmente con l’accezione sempre più indiscutibile del valore sociale della proprietà (su questo concetto la Chiesa di Papa Francesco ha compiuto passi importanti) ma anche con la necessità di evitare una nuova spaccatura fra una minoranza di persone in possesso degli strumenti culturali e tecnici all’altezza dei tempi e una sempre più vasto territorio sociale di esclusione e di marginalità.

La cultura della partecipazione è, dunque, uno strumento indispensabile, non più per correggere i difetti capitalistici, ma per contribuire a recuperare da parte dei lavoratori un proprio ruolo senza impoverire ulteriormente i fondamenti della vita democratica.

Infatti, a cosa serve, oggi, un antagonismo di maniera, conseguenza ormai asfittica di un passato della lotta di classe oggi improponibile? Ed a cosa serve inoltre la riluttanza politica del riformismo ad affrontare questo tema preferendo invece rifugiarsi nell’assistenzialismo che diventa in tal modo un regalo alla concentrazione del potere economico e finanziario non scalfito, anzi assolto…, da misure che condannano alla precarietà ed alla sudditanza buona parte delle generazioni più giovani?

Partecipazione vuol dire molte scelte da compiere, ma allo stato attuale non può limitarsi ad un diritto alla informazione come negli anni ’70, od anche ad una presenza minoritaria nella struttura degli organi decisionali delle imprese. Ma soprattutto non può essere scissa da quella “strategia della formazione permanente di cui l’impresa deve essere responsabilizzata” come ha sostenuto Bruno Trentin.

Il terreno di ricerca e di impegno culturale è assai vasto e pone problemi di difficile soluzione, ma certamente completa un ruolo sindacale che in molti, al di fuori delle organizzazioni sindacali, vorrebbero sempre più relegare nella insignificanza. Per giunta in Italia il tema partecipativo si scontra con la dimensione della maggior parte delle imprese che sono, anche quando hanno elevata qualità tecnologica, per lo più piccole o medie.

Ma è fin troppo facile argomentare che rincorrere l’illusione antagonista sia la ricetta tuttora migliore, condurrebbe soltanto sindacato e lavoratori ancor più all’esterno dei processi produttivi.

Ma non si parte da zero, è necessario osservarlo. Nel confronto con l’imprenditoria vi sono già acquisizioni importanti che attendono però di essere rivitalizzate da una strategia più generale. Indicano però che la strada da seguire c’è e va aggiornata e rafforzata.

Si dirà che alla partecipazione manca però quella che è stata chiamata… l’artiglieria politica. Osservazione purtroppo giusta ma che, ad esempio, da alcuni accenni recenti sulla partecipazione del Presidente del Consiglio sembra diventare terreno di “investigazione” della destra politica in Italia. Non pare un percorso destinato a grandi risultati. Semmai ci si dovrebbe chiedere come si giustifica l’assenza delle opposizioni su questo terreno. Potrebbe trattarsi di una “diserzione” non tanto nei riguardi del contrasto alla destra politica quanto nella risposta da dare alle aspettative di giovani e lavoratori. Un errore che andrebbe evitato.

Paolo Pirani – Consigliere CNEL

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Salario minimo e questione salariale: la svolta necessaria https://www.ildiariodellavoro.it/salario-minimo-e-questione-salariale-la-svolta-necessaria/ Fri, 13 Oct 2023 11:48:08 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=172197 Si sostiene che spesso uno slogan efficace oscuri l’analisi per un bel po’ di tempo. È il caso della discussione sul salario minimo, soprattutto per la ragione che questo tema viene affrontato in modo avulso da tutto quello che è avvenuto negli ultimi trenta anni sul piano salariale. La memoria del passato, si sa, è fuori moda, ma in tal modo si rischia di precludersi una lettura della attualità che sia in grado di arrivare al cuore dei problemi che si devono fronteggiare.

Quando nel 1993 il governo Ciampi e le Confederazioni stipularono un accordo per salvare l’Italia dalla catastrofe economica (ma anche sociale), si immaginò di aver stipulato un patto che avviava un nuovo sistema di relazioni industriali. All’interno di esso vi era la moderazione salariale, che era controbilanciata, però, sia da un rinnovato tentativo di politica dei redditi, sia dalla attenzione alle questioni dello sviluppo e della produttività dell’apparato produttivo, sia ancora dalla certezza sul sistema della contrattazione su due livelli. Ci si svincolava definitivamente dalla scala mobile, che del resto era stata di fatto cancellata l’anno prima, ma si puntava a superare una fase travagliata dell’economia nazionale oltre la quale ritrovare cadenze e scelte delle politiche rivendicative più “normali”, compreso quindi anche il superamento della moderazione salariale che invece rimase come punto di riferimento per i contratti per gli anni successivi come se l’allarme per l’inflazione si fosse “incantato” senza più cessare. L’avvento dell’euro da questo punto di vista prolungò ancora le sponde ristrette della vicenda salariale, tanto che oggi si cita l’Ocse quando si vuol dimostrare che i salari italiani sono fra i più bassi dell’area maggiormente sviluppata al mondo.

In realtà a congiurare contro il decollo di una nuova stagione sul piano salariale fu per un verso il fallimento della politica dei redditi, e per l’altro i passi indietro compiuti sul terreno della produttività e su quello degli investimenti. Due freni non da poco per realizzare un assetto davvero nuovo della storia economica e sociale.

Alcuni tentativi di correzione di tale situazione ci furono: basti ricordare quello della commissione Giugni del 1997, o l’intesa che stabiliva l’Ipca, ovvero un meccanismo in grado di riacciuffare l’andamento del costo della vita. Un modo per tornare ad una maggiore libertà di intervento sulla materia salariale. Ma è facile notare come tali ricerche non furono in grado di affrontare i mutamenti che la globalizzazione e la rivoluzione tecnologica apportavano alle economie. La delocalizzazione delle attività industriali, la precarizzazione del lavoro e l’aumento di piccole e medie imprese, ad esempio, non potevano non provocare cambiamenti anche sulla politica contrattuale, come pure sulla dinamica dell’ascensore sociale.

Il vero problema allora, nuovo nella sua dimensione, è quello che anche lavorando si resta poveri. Naturalmente la risposta del salario minimo può restringere il campo di azione per impedire che quella considerazione diventi immutabile nel tempo. La sua introduzione ha senso se riferita a quel segmento del mondo del lavoro davvero privo di capacità contrattuale e retribuito ben al di sotto della decenza. Ma il suo valore probabilmente finisce lì, e non giustifica una sorta di guerra di religione che sul piano politico ha preso il posto della riflessione e del confronto.

In realtà proprio la risalita dell’inflazione ha messo in luce il limite maggiore della discussione sui temi salariali: gli interventi governativi figurano nella casella di una improvvisata assistenza ai redditi più poveri, mentre il destino di gran parte delle retribuzioni, cui si lega anche quello della organizzazione sociale, rimane del tutto insoluto. Probabilmente su questo versante si deve anche constatare un ritardo delle organizzazioni sindacali sulle strategie salariali da porre in essere, anche per costringere gli interlocutori politici ed istituzionali a misurarsi su un terreno non solo più ampio ma anche di prospettiva.

Anche perché si sa bene che una legge sul salario in quanto tale non avrebbe la forza di ridurre gli spazi occupati dal lavoro nero, dai contratti pirata, dallo squilibrato rapporto di forza fra imprenditore e lavoratore in tempi difficili come gli attuali. Né, forse, anche l’invocazione della attuazione dell’art. 39 della Costituzione risolverebbe appieno con l’estensione erga omnes dei contratti supportata dalla definizione della rappresentanza, in quanto è la frammentazione del mondo del lavoro e sono le incognite sul futuro in primo luogo manifatturiero del Paese a creare ostacoli difficilmente superabili con qualche norma e con ulteriori proibizioni.

Ci vorrebbe ben altro coraggio: riprendere in mano la questione salariale così come si è via via composta e scomposta, fino a creare almeno in apparenza una giungla inestricabile di trattamenti e di percorsi professionali, e con pazienza e spirito aperto al confronto rimettere in fila i vari problemi: cercando, con il sostegno di politiche di crescita, non illusorie proposte capaci di riformare l’intero sistema salariale nelle forme più adeguate all’economia reale ed alla sua evoluzione.

Una svolta è necessaria, ad essa probabilmente non si arriva con il ping-pong politico sul salario minimo che fa fatica ad uscire dai territori della reciproca propaganda.

Le difficoltà da affrontare non sono del resto poche: la politica ha bisogno di sentirsi protagonista, ben lontana da quella filosofia della legislazione di sostegno che parte da un diverso protagonismo, quello delle forze sociali. Gli stessi attori imprenditoriali mostrano meno propensione ad impegnarsi su un percorso diverso da quella di una amministrazione dell’esistente che non risolve e non copre neppure le esigenze del mondo del lavoro per intero. E non è un mistero che vi è anche l’esigenza di un lavoro comune fra le Confederazioni, per far valere le sacrosante rivendicazioni avanzate in questo periodo e che trovano finora porte chiuse, in particolare dal Governo.

Eppure, occorre trovare strade diverse per non cristallizzare comunque salari e stipendi in un assetto che apparentemente risulterebbe più equo, ma in realtà potrebbe solo anticipare il montare di una percepibile, se pur non esplicita, insoddisfazione della classe lavoratrice per il riconoscimento complessivo del proprio lavoro. Anche ammesso che la vicenda del salario minimo finisse in modo positivo, e si può fare, si aprirebbe inevitabilmente un più grande problema di assetti professionali e salariali che riguarda già oggi, sia pure nella penombra, milioni di lavoratori. A quel punto la protesta non basterebbe più, evitare di trovarsi impreparati sarebbe di conseguenza saggio ed utile.

Paolo Pirani – Consigliere CNEL

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Morti sul lavoro, quel ‘pensiero unico’ che invita a trascurare le tutele https://www.ildiariodellavoro.it/morti-sul-lavoro-quel-pensiero-unico-che-invita-a-trascurare-le-tutele/ Wed, 06 Sep 2023 10:17:22 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=170580 Si stanno ancora accertando le cause della tragedia sul lavoro che ha fatto 5 vittime a Brandizzo e già due altri incidenti mortali a Viterbo ed Ancona legittimano un triste interrogativo: a cosa è servito Brandizzo? O meglio: a cosa servono le condoglianze della classe dirigente se la morte rivendica subito dopo la sua superiorità atroce con altre vittime evidenziando la incapacità di un sistema culturale e politico a reagire sul serio e con convinzione?

I cinque operai morti avrebbero meritato un giorno di lutto nazionale, se non altro per richiamare tutti a valutare responsabilità e a riflettere non solo sui pericoli immediati ma anche su quelle cause remote, ma non meno insidiose, che creano le condizioni per allungare questa lunga scia di morti e feriti sul lavoro. L’impressione è che anche Brandizzo sia indirizzato invece sulla strada che lo considera un tremendo fatto di cronaca destinato a sbiadire rapidamente soprattutto se non si correggono sia una indifferenza di fondo sia una superficialità nell’affrontare il problema della sicurezza presenti nella nostra società…

Ed allora come meravigliarsi se dopo Brandizzo arriva la notizia di altre due vittime sul lavoro come se non si fosse allungata altro che una tragica fatalità? Ci sarà la solita caccia alle colpe che comunque non riusciranno ad inserire il nodo sicurezza come una priorità dell’agenda politica e come un richiamo alle responsabilità istituzionali non eludibile, visto che sul piano sociale denunce, proposte e mobilitazioni ci sono pur state. Del resto, lo stesso Presidente Mattarella ha spostato con parole chiare il riferimento alla tragedia di Brandizzo da tema del lavoro a grave problema della convivenza civile.

Troppe situazioni non tornano. In primo luogo, la frantumazione della catena degli appalti è già di per se stessa una zona ad alto pericolo. E la giustificazione che è necessario avviare le opere non regge: la legalità non è sinonimo di lentezza, semmai lo è una burocrazia ed una complessità legislativa che lascia varchi ad omissioni e furbizie che possono rivelarsi nel tempo letali per i lavoratori. Il rimpallo di affermazioni sulla opportunità o meno dell’inizio dei lavori sui binari risente anche di una mentalità che dovrebbe essere bandita.

I ritardi nella gestione delle innovazioni tecnologiche aggiungono un tasso di insicurezza che ha avuto probabilmente anche un peso nella vicenda di Brandizzo: con i mezzi attuali è inconcepibile che dei lavoratori possano sentirsi dire “quando dico treno…spostatevi”. Un’assurdità che però nasconde altre finalità come quella che il tempo è guadagno, il resto viene dopo. Tanto è vero che fra le vittime del lavoro compaiono anche imprenditori costretti dalle circostanze a tener conto dei tempi e della economicità del lavoro rischiando.

Inoltre, si è detto più volte che l’Inail ha risorse superiori a quelle che spende: soldi utili non solo per la prevenzione ma anche per attrezzare meglio i controlli. È notorio che il numero degli ispettori è tuttora esiguo, è facile constatare che non vi è ancora alcun intreccio efficace fra le varie autorità preposte al sistema dei controlli, mentre è purtroppo sotto gli occhi di tutti che la formazione è presente a parole molto meno nei fatti.

L’Italia dell’economia, del resto, ma anche quella della politica e di parte delle Istituzioni non ha mai avuto molta familiarità con la cultura dei controlli che spesso quando si manifesta mostra un lato esclusivamente punitivo, mentre più raramente appare come l’indice di una condotta che condiziona l’iniziativa economica in modo tale da garantire valori come la vita, la legalità e la dignità del lavoro.

Infine, c’è da chiedersi dopo Brandizzo, ma anche Viterbo e Ancona, se la sostanziale povertà di informazione nell’opinione pubblica di giudizi esemplari motivati dopo le inchieste giudiziarie sui ripetuti fatti.

Drammatici nei luoghi di lavoro (anche solo come deterrente), non finisca per contribuire a considerare la tematica della sicurezza come un argomento di valore ben inferiore a quello che dovrebbe avere. Per non parlare della sua irrilevanza nei confronti degli slogan ricorrenti sui quali si basano le politiche e l’azione dei gruppi dirigenti. Sarebbe infatti assai difficile ricordare fra le priorità dei programmi politici un posto di rilievo per la lotta alle morti sul lavoro negli ultimi anni.

Eppure, anche nel mondo del lavoro non può mancare una riflessione che vada anche oltre le giustissime rivendicazioni che intendono incalzare Governo e Istituzioni. C’è una subcultura dell’economia che ha effetti negativi anche sul tema della sicurezza. È una delle conseguenze, probabilmente, della ventata liberista che in questi trenta anni non ha risparmiato alcuno schieramento politico. Quella idea che l’attività economica si valuta esclusivamente sui parametri del successo e del guadagno, trascurando le conseguenze che ne possono derivare sull’etica e la pratica del lavoro. Naturalmente dopo la grande crisi del 2008 e la pandemia, tale concezione ha ripreso piede velocemente senza che però fosse contrastata da una lettura che mantenesse nel giusto valore quelle garanzie per la vita dei lavoratori e contro il loro sfruttamento che sono essenziali in una società che vuol dirsi civile. E, come avviene di solito, le necessità e la stessa mentalità prevalente – oltre il successo ed il guadagno, niente – hanno fatto breccia anche nei comportamenti dei lavoratori che in alcuni casi si sono sentiti costretti non ad abbassare la guardia, ma certamente a subire l’inosservanza di norme e contratti che regolano loro sacrosanti diritti. Non si tratta ovviamente di accusare i lavoratori, insomma, purtroppo vittime certe di questo stato di cose, ma di porre l’accento sul ruolo che possono esercitare tutte le realtà attive sul piano culturale e sociale che si battono per la centralità del lavoro, nel quale la sicurezza è elemento essenziale. Si tratta di rivendicare un pensiero sociale che dia fondamento ad una nuova capacità di lotta e di proposta in grado di opporre sacrosanti diritti dei lavoratori a logiche che invece ne deprimono l’utilità e talvolta anche la validità.

Intendiamoci: i gravi incidenti sul lavoro sono il frutto di cause ben al di sopra di queste argomentazioni, riguardano pratiche illegali, superficialità colpevoli, omissioni inaccettabili, aggiramento delle norme a partire da quelle contrattuali. Rimane però l’impressione che andando più a fondo emerga anche l’esigenza che specialmente nella cultura riformista si torni a praticare una forte ed incisiva critica dei risvolti più sconsiderati ed illegittimi di una economia improntata senza più ostacoli a richiami di tipo liberista, con la falsa affermazione che l’economia debba andare avanti costi quel che costi, anche perché la tecnologia prima o poi risolverà i problemi. Questa sorta di “pensiero unico” è non solo un passo indietro nella realizzazione di una vera società del lavoro ma anche un pericoloso invito a trascurare le tutele necessarie per evitare drammi per chi subisce incidenti e per le loro famiglie.

Su questo versante c’è dunque un importante lavoro culturale e di iniziativa sociale da fare perché anche in questo modo si può circoscrivere l’indifferenza ed il senso di fatalità che, malgrado tutto, si aggira ancora attorno agli incidenti del lavoro, mentre essi continuano a costituire una minaccia quotidiana che va fermata.

Paolo PIRANI

Consigliere CNEL

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La lezione che dobbiamo trarre dagli eventi francesi https://www.ildiariodellavoro.it/la-lezione-che-dobbiamo-trarre-dagli-eventi-francesi/ Wed, 05 Jul 2023 17:20:49 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=168677 “Lo Stato sono io” è la celebre frase del Re Sole. Oggi, di fronte agli episodi di rivolta in Francia, dovremmo chiederci dove va lo Stato francese, ma soprattutto se l’idea di Stato in tutta Europa (nonché in Occidente) non abbia bisogno di qualcosa di più che una…rimessa a punto.

La rivolta in Francia sta diventando un fenomeno endemico. Un campanello d’allarme per lo stato di salute delle democrazie europee come se fosse una sorta di sciame sismico che ad intervalli segnala problemi d’ogni tipo: funzionamento delle Istituzioni, emarginazione, conflittualità religiosa, spostamento a destra delle opinioni pubbliche nazionali, ma anche la crisi della famiglia, la fragilità delle giovani generazioni, l’assenza di proposte valoriali come un tempo, ad esempio, era in grado di avanzare la sinistra europea.

La rivolta francese si spegnerà, ma con ogni probabilità il fuoco coverà sotto la cenere. È significativo infatti che questa volta la preoccupazione nel mondo per la instabilità transalpina sia apparsa assai più vasta: la Svizzera è stata toccata, la Germania ha espresso il suo disappunto, Israele ha messo in guardia dal risorgente antisemitismo, l’Iran ha ammonito sulle violenze a danni degli islamici.

Riemergono problemi ai quali non si riesce a dare risposta, perché molto difficili da esaurire con una sola ricetta: in primo luogo l’integrazione di migliaia di persone che provengono dall’immigrazione ormai da decenni e non solo di nuova acquisizione; la latente concorrenzialità fra matrici religiose; il declino industriale europeo che fa mancare un modello che aveva dato non solo lavoro e benessere ma anche welfare e diritti. La rivoluzione digitale sta finendo il…lavoro tracciando confini sempre più rigidi nei riguardi della esclusione sociale e culturale.

È un problema solo francese? Francamente sarebbe miope considerarlo tale e tirare un sospiro di sollievo se esso venisse accantonato con la repressione della polizia e risorse per riparare i danni nei comuni colpiti dalla ondata di proteste.

Forse abbiamo dato troppe pseudo-verità per scontate: che la modernità portasse con sé una riduzione dei cittadini alla partecipazione della vita democratica; che la rivoluzione tecnologica al dunque finisse per “meticciare” l’intera popolazione, che gli strumenti dello Stato e della democrazia come i partiti fossero necessariamente destinati ad essere soppiantati da nuove forme di gestione del consenso; che la stessa comunicazione a partire dai social fosse “neutrale” rispetto alla formazione delle opinioni.

E invece dovremmo trarre una lezione ben più profonda dagli eventi francesi: non si tratta di restaurare, si tratta di ricostruire con un lavoro che si preannuncia comunque tutto in salita.

Il fenomeno che balza agli occhi è quello del ruolo da offrire alla immigrazione presente e futura. L’accoglienza non basta, l’integrazione è un percorso denso di incognite, ma non ha alternative.

L’integrazione però non può essere efficace se non si considerano situazioni che comunque presenteranno ostacoli da affrontare: se l’economia di un Paese non è forte, se la convivenza civile di quello stesso Paese non è strutturata in modo da realizzare un’etica condivisa, una sostanziale sicurezza in tutti i campi, dal lavoro alle garanzie per la persona, se sul terreno della rivoluzione digitale e quindi della formazione non si passa dalle parole ai fatti, non si potranno fare passi avanti e si presterà il fianco sempre a un clima di proteste che finiranno probabilmente per spostare a destra lo Stato, le forze di polizia, i poteri forti, buona parte di quella cittadinanza non più giovane.

Chi si occupa di fare un esame serio di tale situazione? La politica è deficitaria, la sinistra italiana appare fuori gioco perché sta investendo su formule vuote e su slogan di comodo. Eppure è proprio dall’umanesismo di sinistra che si può tentare di affrontare in modo realistico, ma anche strutturale, le tensioni che di solito dalla Francia prima o poi si propagano anche in Occidente. Non possiamo certo affidarci alla sola repressione, ma non possiamo nemmeno rifugiarsi in soluzioni di corto respiro. A sinistra in particolare si è persa la cognizione stessa della civiltà del lavoro, ripiegando invece sull’assistenzialismo di stato, oppure su un liberismo camuffato da una presenza dello Stato dai contorni indefinibili, e come tali forieri di ingiustizie e diseguaglianze. Eppure, proprio l‘uguaglianza dovrebbe essere uno dei termini di riferimento obbligati in questa situazione. E ancor più in Europa dove una vera e significativa presenza di una sinistra alla …Bad Godesberg latita da troppo tempo.

È facile, anche se non fuori di luogo, attribuire le maggiori responsabilità al vento di destra in Europa, figlio di un egoismo da benessere che ha contagiato tutte le culture politiche, peraltro come ammonivano i Papi già sulla fine del secolo scorso.  È molto più difficile mettersi in gioco nuovamente. Eppure, non c’è altra scelta se non si vuole essere condannati a convivere con uno stato di incertezze sociali e culturali sempre più pericoloso.

Anche il mondo sindacale europeo può offrire un grande contributo in questa direzione, se non altro perché può battersi affinché la civiltà del lavoro impedisca il formarsi di diseguaglianze troppo marcate. Occorrerebbe tornare a quell’impegno del passato, nel quale l’azione tipicamente sindacale si fondeva con la richiesta forte di riforme. Certo non dobbiamo illuderci: fra le righe spunta l’insidia di un ritorno ad intolleranze religiose mischiate a vocazioni integraliste. Non dimentichiamo mai non solo i richiami di Oriana Fallaci, ma più ancora di discorso di Ratisbona di Papa Ratzinger. Non per accettarli in toto, ci mancherebbe, ma per capire quanto sia delicata e controversa la questione che tiene insieme fedi religiose diverse e che le proietta per giunta nell’agone della vita democratica. La religione, per talune aree emarginate, sta tornando ad essere una speranza ma anche una bandiera da brandire “contro”. Perché ciò avvenga occorre un grande impegno, che elimini le ragioni di abbandono di tante famiglie e al tempo stesso sappia dare allo Stato quella autorevolezza in grado di farsi rispettare senza sparare proiettili mortali di gomma.

Si dice spesso che il torto maggiore è quello di rifiutare la sfida dell’era digitale, ma non si può ignorare che prima di quella sfida c’è sempre il dovere di una risposta positiva alla nostra umanità. Se manca, ecco quello che succede.

Paolo Pirani
Consigliere Cnel

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Quella sanità in declino che vive alla giornata https://www.ildiariodellavoro.it/quella-sanita-in-declino-che-vive-alla-giornata/ Mon, 26 Jun 2023 07:58:17 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=168242 “La vita non è vivere, ma vivere in buona salute” lo sosteneva il poeta Marziale. Niente paura era un antico romano e per giunta un fine umorista. Del resto, i riferimenti all’attuale disastro della Sanità italiana non potrebbero poggiare sull’ironia semmai su humor nero, anzi nerissimo.

Dopo la pandemia ci si sarebbe aspettati un profondo ripensamento sull’intero sistema sanitario. Invece si procede senza tener conto dei nodi sensibili da affrontare come priorità ed anzi si punta verso una sciagurata autonomia differenziata.

Agli albori dello Stato Unitario, nel 1865, la sanità fu affidata al Ministero dell’Interno, polizia sanitaria insomma. C’è il rischio che una tale mentalità si riaffacci anche nel terzo millennio mentre la sanità privata occupa spazi sempre più consistenti. E con il sostegno della autonomia differenziata disegna una nuova, ingiusta, demarcazione fra un sistema che offre garanzie ed uno che invece rappresenta un nuovo esempio di marginalità e di diseguaglianza. Come se ne avessimo bisogno.

Vale la pena di ricordare inoltre che la solidarietà proposta dalla sinistra e dal movimento operaio ha preceduto sempre progetti di riorganizzazione sanitaria degne di un Paese civile. Basta pensare alle società di mutuo soccorso per arrivare allo Statuto dei diritti dei lavoratori ed alla riforma della sanità negli anni ’70, resa possibile da un forte ed ampio movimento riformatore nel quale sindacati e forze sociali ebbero un ruolo essenziale.

Oggi, non a caso, è il mercato che detta legge e il riformismo di sinistra non appare in grado come su altri problemi, la sicurezza sul lavoro, ad esempio, di esprimere una sua cultura, una proposta condivisa, la capacità di contrastare almeno con decisione la deriva del nostro sistema Sanitario. Forse anche perché il neoliberismo ha intaccato i suoi riferimenti culturali e politici.

Ma è un mercato scriteriato, ed è un sistema sanitario pubblico che non ha nel frattempo risposte convincenti alle sue situazioni di crisi. Lo scenario peggiore. Non fa sorridere infatti il richiamo di un leader della opposizione che sottolinea come la gente voglia una sanità territoriale di migliore qualità, quando invece i comportamenti delle élite di sinistra finora non hanno lasciato traccia su questo terreno. Eppure, le urgenze da affrontare sono tali da creare forte disagio nella nostra società: pochi medici e numero chiuso nelle Università, non pochi “pronto soccorso” ormai sono diventati persino un rischio di contrarre nuovi mali per le persone malate che si rivolgono necessariamente a loro, le liste di attesa sono fonte di disperazione per chi si rivolge ad esse. E gli investimenti, al di sotto dei parametri dei Paesi europei più attrezzati, continuano a diminuire. La triste vicenda del Mes stessa con i rinvii ripetuti per non turbare la attuale maggioranza, ma che ha registrato indecisioni di ogni tipo completa un quadro nel quale emerge una sola verità: la sanità continua a vivere alla giornata. Con il Mes poi si sfiora il grottesco: si sostiene che è debito da ripagare, ma si dimentica che la grande parte dei contributi europei iscritti alla voce Pnrr sono anch’essi prestiti da restituire, visto che quelli a fondo perduto sono solo un’ottantina, sempre che si riescano a spendere. E la…fetta delle risorse per la sanità anche nel Pnrr è al di sotto della decenza.

Lo Stato italiano, a quanto pare, spende pro-capite poco meno di duemila euro per la salute dei suoi cittadini, ma un cittadino italiano spende più di duemila euro per trovare rifugio nella sanità privata. L’Ocse ha tirato le orecchie all’Italia sostenendo che dovrebbe spendere almeno 25 miliardi in più all’anno per la tenuta del suo sistema. La risposta sta nel rapporto con il Pil: si scende al 6,5% nell’anno in corso per poi planare al 6,1% nel 2025. Parlare di prospettive a questo punto sarebbe una solenne presa in giro. Ma anche i numeri del personale della sanità sono la spia di un sistema in sofferenza: le assunzioni durante il periodo più critico del Covid sono state in gran parte a termine, molti giovani prendono la via dell’estero alla ricerca di gratificazioni maggiori, la questione salariale non trova soluzioni. Proporre una svolta equivale a questi punto a chiedere che almeno si inizi a fare qualcosa. Il realismo impone una tale considerazione. Eppure, c’è da temere che i 20 mila medici che mancano di cui poco meno di 5.000 nei reparti ospedalieri continueranno a latitare. Stessa storia per gli infermieri. Ed è inutile illudersi: anche se si varasse una norma ancora più restrittiva sui tempi di attesa, cadrebbe nel vuoto. Il sistema attuale non lo reggerebbe.

Ma non è finita: la prevenzione in questo scenario resta per lo più una parola, la assistenza domiciliare o in strutture attrezzate bussa spesso inutilmente a cassa; al massimo arrivano briciole.

Le distorsioni della sanità stanno insomma creando un vero e proprio percorso parallelo di offerta sanitaria privata che comporta a sua volta dei problemi: non è alla portata delle famiglie meno abbienti, di vasti territori, specie al sud, non offre le stesse garanzie della sanità pubblica. Inoltre, non è un sistema, è mercato. Non solo ma se ricordiamo la fine delle Casse mutue del passato, non possiamo dimenticare che comunque la sanità privata offre il fianco a fallimenti prevedibili sempre che non alzi il costo delle sue prestazioni ancora di più, restringendo nuovamente il bacino di utenza.

Come risponde la politica? Finora non c’è alcun segnale effettivo di ripensamento. Ci si trincera dietro il fatto che una parte consistente della Sanità pubblica, malgrado tutto, offre il massimo impegno possibile. Ma non è una scelta virtuosa dello Stato…La destra italiana pare orientata, sempre che tenga a lungo, a conciliare liberismo e conservatorismo. Ricetta antica che poteva essere spesa in società chiuse e provinciali, ma che fa acqua da tutte le parti in un mondo come il nostro. La reazione delle opposizioni la si potrebbe, ad essere malevoli, condensare nella osservazione che i leader di sinistra si sono recati alla manifestazione della Cgil più per trovare un riconoscimento che per dimostrare di essere in grado di esercitare un ruolo. Si chiede “protezione” quando invece è tempo di organizzare un…pensiero politico in grado di incidere.

In ordine sparso comunque si offrirà solo tempo alla sanità privata di rendere irreversibile una situazione che già nel presente si mostra evoluta a favore del business e molto meno a confermare il dettato costituzionale. Ed invece pretendere che alcuni nodi della attuale emergenza siano sciolti sarebbe fondamentale: sospensione del numero chiuso, commutare le assunzioni a termine, riconoscere meglio la professionalità, imboccare una…terapia d’urto su liste di attesa e situazione dei pronto soccorso. Ma soprattutto non far passare nel Paese la logica della autonomia differenziata che diventerà presumibilmente il cavallo di Troia della crescente affermazione della sanità privata.

Occorrerebbe insomma aprire un grande confronto di merito nel Paese con il coinvolgimento di tutte le forze sociali più rappresentative. Muoversi con coraggio, con una forza propositiva nuova, con la convinzione che l’opinione pubblica su questo terreno potrebbe davvero essere favorevole ad un profondo cambiamento di registro nella sanità italiana.

Anche perché, questo stato di cose rende davvero impossibile tornare a…Marziale.

Paolo Pirani – Consigliere Cnel

 

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Il ruolo della sinistra e il monito di Michelangelo https://www.ildiariodellavoro.it/il-futuro-e-draghi/ Mon, 12 Jun 2023 08:04:07 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=167671 “L’attesa è il futuro che si presenta a mani vuote” secondo Michelangelo. Mario Draghi, di recente, negli Stati Uniti pare abbia messo in pratica con le sue considerazioni questo monito esemplare. Gli scenari proposti disegnano lucidamente un periodo complesso che non sarà breve e che non può essere affrontato né con slogan, né con liti da comari, né con un consociativismo che per sua natura resta cieco sulla prospettiva.

Lo scenario immaginato non ammette distrazioni: l’economia soffrirà di un percorso in salita per non breve tempo. L’inflazione non sarà debellata facilmente, i deficit statali non potranno essere dilatati oltre misura, i tassi di interesse bassi non si riproporranno, la necessità di garantire inclusione e non espandere le diseguaglianze richiederà politiche economiche e sociali non certo populiste ma neppure liberiste, la politica fiscale dovrà essere rivista profondamente, i Governi e le Banche centrali saranno chiamati ad interventi che non deprimano troppo la crescita ma al tempo stesso sorveglino i dati fondamentali degli andamenti produttivi e salariali.

Come si è giunti a questo snodo non facile lo si deduce facilmente da quanto è accaduto nel primo scorcio degli anni duemila: la grande crisi, la pandemia, la geopolitica rivoluzionata anche a causa della guerra in Ucraina. Paradigmi storici consolidati sono saltati, l’Europa in particolare affronta la competizione per l’egemonia mondiale senza una bussola condivisa.

Non a caso sempre Draghi si sofferma molto sulla unità dell’Unione europea. Ma attenzione: inevitabilmente lo spirito pratico dell’ex Presidente della Bce e del governo italiano porta a privilegiare una unità…difensiva, di nome e di fatto. Del resto, i populismi, anche se non hanno prevalso, hanno frantumato l’opzione della maggiore coesione politica; lo strapotere della finanza come pure la pandemia hanno ridotto il primato della politica, vista pure la mediocrità e le incertezze delle classi dirigenti.

Oggi in Europa si cerca affannosamente di raggiungere accordi bilaterali, come nel caso dell’avvicinamento Germania-Italia, a scopo “protettivo” e si provvede a puntellare alleanze del passato che la geopolitica attuale ha rimesso in discussione. Giustamente si è affermato che il percorso della globalizzazione, inteso come una marcia inarrestabile verso prospettive sempre migliori per l’umanità, oggi si disperso come un fiume che invece di approdare in mare, finisce in zone paludose.

L’economia reale, in questo contesto, torna però ad avere un valore nuovamente rilevante. Il ritorno di produzioni in Paesi come gli Stati Uniti ne sono un segno anche se quell’occupazione “forte” non sembra scongiurare fasi recessive; il calo evidente di diversi punti nell’export della Cina segnala in realtà un cambio di rotta verso i consumi interni; Il cambiamento sempre più radicale del mondo arabo suggerisce la constatazione evidente che non ci sono più le sudditanze di una volta; energia, ambiente, alimentare sono terreni di confronto e di innovazione che risentono comunque ancora molto delle tensioni internazionali. Non ci sono più punti fermi. Semmai dovrebbe essere avviata una nuova ricerca.

Il nostro Paese malgrado i dati positivi dell’ultimo periodo, non può illudersi: rischia marginalità pesanti se non ritrova una strategia economica e sociale incompatibile con la politica degli slogan e delle demagogie.

Non ci sono molte alternative: non abbiamo una politica fiscale equa, ad esempio, ma neppure adeguata alle impegnative sfide da affrontare. C’è un welfare da ricostruire con pazienza ma anche con determinazione, dato che il Paese è comunque destinato ad allargare la sua componente anziana. Abbiamo un grosso problema di qualità e formazione nel lavoro e di tenuta nella politica salariale specie dopo che il risparmio delle famiglie ha provveduto a sostenere i redditi nelle fasi più difficili di questo periodo. Restano assenti politiche industriali antideclino manifatturiero, quando le altre grandi economie cercano di provvedere per garantirsi sviluppo ed autonomia nei mercati. La stessa condizione sociale e dei diritti richiederebbe una elaborazione culturale ed un confronto politico e sociale di portata ben diversa da quella che esaurisce nel talk-show.

È paradossale il confronto politico: si litiga sulla autonomia differenziata, sui controlli, sulla situazione sanitaria, mentre nel mondo è tornato centrale il ruolo dello Stato. Si dovrebbe partire da questo assunto invece che disperdersi in polemiche ed interventi che non possono essere in grado di rilanciare il Paese.

Ma anche il ruolo europeo dell’Italia avrebbe bisogno di una visione rinnovata ma propositiva. L’Europa di oggi vale sempre meno nel panorama mondiale e le sue debolezze possono trascinare verso il declino anche l’euro e gli assetti attuali. Non era immaginabile decenni fa che l’Unione Europea non fosse in grado di esercitare una comune ed autonoma iniziativa politica e diplomatica per disattivare i rischi di una guerra ai propri confini. L’Italia non può consolarsi all’infinito con il fatto che resta uno dei Paesi fondatori dell’Unione, deve poter svolgere un ruolo “nazionale” che incalzi le Istituzioni europee a ritrovare quella Europa sociale e politica smarrita.

In parole povere occorre ripartire con una ricerca culturale che è stata nelle corde dell’umanesimo riformista del passato, ancorato cioè a valori di riferimento precisi. La sinistra italiana attualmente pare sorda a queste sollecitazioni, si scompone e ricompone, si divide e si combatte senza uscire dalla riserva indiana in cui si è cacciata, accumulando indifferenza e sconfitte. Questa condizione dovrebbe essere già di per se stessa una priorità da affrontare con coraggio. Del resto, il tempo macina inesorabilmente opportunità e condanna i ritardi. Per di più è già di attualità una nuova sfida: l’intelligenza artificiale, uno strumento che potrebbe divenire ben presto un ulteriore simbolo di diseguaglianze profonde e forse di braccio armato di autoritarismi. La sinistra può svolgere ancora un ruolo importante: in Italia ed in Europa, ma deve ritrovarsi e lo può fare innanzitutto ripartendo da una lettura reale e coraggiosa della realtà economica e sociale. In questo senso non è all’anno zero. Ma come diceva Michelangelo restare prigionieri dell’attesa vuol dire solo perdere il futuro. E non è accettabile questa sorte che affida inevitabilmente alla destra, ai potentati, agli opportunismi le prospettive di un intero Paese.

Paolo Pirani – Consigliere Cnel

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Ma davvero non c’è bisogno del Cnel? https://www.ildiariodellavoro.it/ma-davvero-non-ce-bisogno-del-cnel/ Tue, 09 May 2023 07:55:50 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=166275 Si riparla di riforme in Italia e la prima sortita dall’opposizione di Matteo Renzi è la raccolta di firme lanciata dalle pagine del Riformista per l’abolizione del Cnel. Una Istituzione, si dice, di cui non c’è bisogno. Se è questo il primo … attacco al potere di Italia viva, viene spontaneo commentare che sia il caso di raddrizzare la mira. Del resto “il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza” ricordava Oriana Fallaci, niente a che fare con ruoli istituzionali.

Vero è che l’abolizione del Cnel era presente nel pacchetto dei famosi Referendum su cui inciampò lo stesso Renzi e che aveva l’obiettivo di rimettere in sesto un assetto delle Istituzioni italiane avvertito come lontano dai cittadini ed avviato verso un declino per nulla rassicurante.

Quel declino, fra alti e bassi, non pare si sia arrestato e, di certo, non per responsabilità del ruolo del Cnel. Ben altre sono le priorità che andrebbero soddisfatte per restituire alla nostra democrazia una vitalità offuscata e che, in buona parte, è sorretta dall’impegno del Capo dello Stato. Le decisioni che contano sfiorano soltanto le aule del Parlamento, i decreti legge sono ormai da tempo una normalità che ogni coalizione al Governo eredita disinvoltamente, la partecipazione è sempre più una parola vuota, questioni fondamentali, come ad esempio la rigenerazione della sanità italiana, si perdono nella confusione sempre più evidente degli intrecci fra Stato centrale e autonomie locali a danno dei cittadini.

E fra le righe si nota una nuova avanzata di un tardo liberismo dietro il quale agiscono i veri poteri, le lobby senza volto, che sono svincolati dai confini nazionali come pure da obblighi di trasparenza. E, nella involuzione di questa situazione, si affacciano pericoli di corporativismo, contro il quale nell’architettura della costituzione democratica e repubblicana nasceva il Cnel.

Anche un grande esperto di Istituzioni come il professore Cassese accantona il Cnel con un sentenza liquidatoria, tacciandolo di irrilevanza, mentre esulta per il ritorno di fiamma della cultura francese nei riguardi del tema dell’importanza dei gruppi di interesse che “non decidono ma influenzano e negoziano” le decisioni da prendere. Rimane un mistero però, sul perché la Francia dai gilet gialli, alle proteste violente sulla riforma delle pensioni, sia attraversata da un malessere sociale di grandi proporzioni che vede una frattura netta fra vertici e base sociale del Paese che, certamente, non si ricompone con l’azione di quella che Cassese denomina la fabbrica segreta della politica.

In realtà il Cnel è un falso bersaglio. Semmai il vero problema sarebbe quello della lunga sudditanza della politica dai potentati economici e finanziari che hanno inquinato, non va dimenticato, anche le Istituzioni europee. Ed ha generato di conseguenza scelte sul piano economico e sociale che hanno, semmai, aumentato le diseguaglianze, ritardando veri processi riformatori e politiche economiche che, evidentemente, le lobby considerano un intralcio inaccettabile ai loro disegni.

Ma cosa vorrebbe significare l’abolizione del Cnel allora? Intanto si perderebbe il migliore e più autorevole osservatorio della contrattazione nazionale. Non è un mistero che è l’unica Istituzione che conserva tutti i contratti di lavoro, e che, proprio per tale motivo, può utilmente offrire considerazioni fondate su cosa effettivamente avviene in Italia, al di là delle polemiche di basso profilo ideologico che si sono prese la scena come nel caso della precarietà o del salario minimo.

Ma, soprattutto, verrebbe a mancare il più credibile assertore di quella strategia di partecipazione nella vita economica e sociale che oggi appare insostituibile se si vogliono davvero superare le difficoltà derivanti dalle crisi e dai mutamenti profondi nel mondo del lavoro, prodotti dalla società digitale. La presenza delle parti sociali ed il dialogo fra di esse dovrebbero essere considerati più che mai un contributo importante per evitare il caos sociale e per fornire indicazioni utili per una nuova democrazia industriale, rispettosa dei valori del lavoro. Senza il Cnel sarebbe molto più agevole fare spazio a pratiche liberiste che, a loro volta, sarebbero in grado di esautorare i poteri delle Istituzioni, generando al tempo stesso un’area grigia nei rapporti fra soggetti finanziari e politici di cui la nostra democrazia ne farebbe le spese.

Eliminare il Cnel però vorrebbe dire anche tornare a quella delegittimazione del ruolo dei sindacati che, specialmente agli inizi del terzo millennio, è stata tentata di volta in volta dalle più diverse forze politiche, quasi che fosse quella la scorciatoia per ridurre la crescente ostilità della opinione pubblica verso una vita politica arroccata sui suoi interessi di potere. Del resto il Cnel ricorda visibilmente l’esigenza di concertazione nel nostro Paese che non ha perso ragioni, semmai con la stessa insorgenza della inflazione ne ha acquisita di più urgenti. Occorrerebbe infatti riflettere sulla opportunità di attuare schemi aggiornati di politiche dei redditi, di collegare le risorse del Pnrr ad un confronto reale e concreto fra Governo, forze politiche e forze sociali, cosa che è clamorosamente mancata finora. Insomma si dovrebbe ricollocare anche il Cnel in una posizione tale da favorire il lavoro di Governo e Parlamento, nel necessario impegno di ricognizione, istruttoria e valutazione delle proposte delle rappresentanze sociali che oggi è sostituito o dalla assenza di rapporti, oppure, come si è visto di recente, da una illustrazione a cose fatte di ciò che il governo ha già deciso di fare.

Il Paese ha bisogno di cambiare in questa direzione. Non servono gli esempi francesi contradetti dalla realtà dei fatti o le sortite come la raccolta di firme per una proposta di legge di revisione costituzionale che alla fine appare un modo per dimostrare di essere…vivi.

Se c’è una esigenza da sostenere in questo momento e della quale le opposizioni per prime dovrebbero farsi carico è quella di attuare la Costituzione, non mutilarla ancora. Ma proprio questa appare la soglia più difficile da oltrepassare: quella di restituire qualità vera alla politica.

Paolo Pirani – Consigliere Cnel

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Se l’Italia rischia il “dimenticatoio” internazionale https://www.ildiariodellavoro.it/se-litalia-rischia-il-dimenticatoio-internazionale/ Fri, 14 Apr 2023 11:31:36 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=165275 “Chi non ha pretese, non ha neanche dispiaceri”, una frase di Pier Paolo Pasolini che può rendere bene la filosofia del Def enunciata dal governo Meloni ma che alla prova della realtà potrebbe anche non reggere. Ad una prima lettura del Def, infatti, non colpisce tanto la “prudenza” dello stesso, quanto la mancanza di obiettivi strategici, quelli in grado di mantenere in vita le necessarie opportunità di crescita. In uno scenario economico e finanziario internazionale nel quale la stagflazione è il nuovo rompicapo da risolvere, posizioni attendiste finiscono per assomigliare in modo allarmante ad occasioni perdute.
Anche le cifre indicate nel Def appaiono più un esercizio contabile che la conseguenza di scelte economiche che diano risposte alle necessità che oggi inchiodano l’economia italiana, la produzione, la tenuta sociale ha molte, forse troppe, incertezze.
Certo il Fmi scommette su una crescita dello 0,7% non lontano dall’1% del Pil. Anche se, nei tre anni considerati, la modestia degli incrementi del Pil rivelano più una inquietudine senza soluzioni di fronte alle ben note difficoltà in cui versano l’Europa e la competizione mondiale, che speranze fondate di tenere davvero dritta la barra della nave Italia.
Ma sono più i “vuoti” presenti nel Def che le affermazioni tutte da verificare che dovrebbero preoccupare. Così come non è rassicurante la frase del Ministro dell’Economia seconda la quale non si può puntare solo sulle risorse del PNRR ma servono investimenti e riforme. D’accordo, ma dove sono le leve pubbliche che favoriscono una ripresa di fiducia, una continuità nella erogazione del credito in una fase di tassi di interessi crescenti, senza linee di politica industriale ben definite?
Il Def sembra più una sorta di stop and go in attesa di futuri sviluppi. Ma in tal modo quella stagione di riforme sempre più necessarie segna il passo e fa indietreggiare l’Italia anche nel contesto europeo. Basta enumerare i punti interrogativi rimasti tali per suffragare questa considerazione: non c’è alcuna attenzione alla riorganizzazione della sanità pubblica, come i precedenti del tremendo periodo Covid richiederebbero. La sensazione corrente, invece, è di un settore alle prese con ritardi e problemi accresciuti che fanno presagire situazioni di collasso possibile in futuro. Anche la questione fiscale è avvolta nelle nebbie delle intenzioni mentre va osservato che a livello locale l’imposizione fiscale non potrà sicuramente regredire ma in alcuni casi aumentare. Del resto, ogni traccia di interventi sul terreno della lotta alla evasione fiscale è sparita con il dubbio che si proceda se le ristrettezze di bilancio proseguiranno sulla strada facile ed ingannevole, ma soprattutto inaccettabile, dei condoni senza riforme. La previsione di una leggera riduzione del carico fiscale complessivo da questo punto di vista non può assolutamente tranquillizzare, anzi mostra il sentiero stretto nel quale pare muoversi il Governo. Ed è un sentiero nel quale le iniquità fiscali possono solo crescere.
Anche lo scaricare le colpe sul superbonus del 110% appare francamente giustificazione assai fragile in assenza di scelte chiare sulle politiche del lavoro, della sicurezza del lavoro, della transizione ecologica, della scuola con annessa l’esigenza di garantire le professionalità adeguate in un periodo di continua evoluzione tecnologica.

Nessuno si aspetta proclami roboanti, ma passi in direzioni concrete e capaci di aprire nuovi orizzonti sì, vista la conclamata vocazione di questo Governo ad attuare con notevole ambizione un programma di cambiamenti profondi. Almeno arrivassero buone nuove sul fronte del lavoro. L’unico segnale positivo, ma del tutto insufficiente, riguarda il taglio del cuneo fiscale per tre miliardi ai redditi medio-bassi. La sottesa speranza di evitare in tempi di forte inflazione una impennata dei salari fornisce la misura della mancanza visione politica su quella che dovrebbe essere da parte dello Stato di una promozione di lavoro stabile, qualificato, retribuito in modo tale da evitare fughe all’estero, collegato ad input in grado di rilanciare la produttività. Un disegno di tale tipo appare infatti del tutto sconosciuto nelle misure previste dal Def.

In realtà l’attenzione rimane quella iniziale: accontentare le spinte contraddittorie della maggioranza, non inimicarsi alcuni settori sociali ritenuti fondamentali come il lavoro autonomo, relegare le istanze sindacali al campo delle promesse del tutto generiche (ed in gran parte disattese), proseguire in percorso a vista che tradisce nei fatti le velleitarie enunciazioni di un governo riformatore di legislatura.

La dimostrazione di questa riflessione si può trarre anche da alcune omissioni gravi presenti nel Def: il rinvio ad affrontare il tema previdenza che per ora ha aggravato la condizione di milioni di pensionati senza mutare in meglio l’assetto pensionistico che richiederebbe invece un confronto con le parti sociali di ben altra “intensità”. Ma si può anche sottolineare il paradosso relativo al pubblico impiego: si è tentato di ottenere consenso “elettorale” con il rinnovo del contratto della scuola in tempi non biblici, ma poi si è ripiegato sulla constatazione che per i rinnovi del settore pubblico le risorse non ci sono.

Salvo smentite il 2023 sarà dunque un anno nel quale la politica economica si trascinerà cercando di evitare tracolli sociali, sempre possibili purtroppo, scongiurando il pugno di ferro dell’Europa, ma di fatto rinviando ancora una volta tutti i nodi dello sviluppo. Resta da vedere l’atteggiamento delle opposizioni che sono di fronte ad un bivio: o criticare l’azione del governo ma senza rinunciare ad un “consociativismo” negato a parole ma di fatto esistente; oppure fornire al Paese una diversa lettura, realistica ma coraggiosa, delle priorità e dei progetti sui quali fondare una nuova credibilità politica ed una altrettanto nuova speranza che si possa cambiare.

Le avvisaglie non sono delle migliori. Ma ad esempio la vicenda delle nomine dovrebbe far riflettere: gli ultimi grandi colossi economici del Paese indicano un trasferimento di potere sempre più evidente dal passato equilibrio ad una “occupazione” della destra politica. I nomi possono anche non essere molto diversi dal passato, ma …le consegne sì. Era prevedibile e sta accadendo. Come può una opposizione di sinistra riformista rispondere a questo inarrestabile cambio di casacca. Non sarebbe utile un atteggiamento di…vedovanza. La perdita di consenso del riformismo nel Paese non è forse collegabile anche alla lontananza dai problemi reali per preferire la vicinanza agli schemi di potere ed a sudditanze alla finanza che non hanno favorito la ripartenza economica?

Sarebbe forse più saggio ritrovare alcuni valori originari del riformismo, con un più autentico legame con la centralità del valore lavoro e con una maggiore apertura al confronto ed alla collaborazione con le forze sociali. E va recuperato quello spirito riformatore che alla lunga risulta più convincente degli slogan o delle invettive.

La congiuntura, anche dalla osservazione del Def, conserva comunque insidie di ogni genere e non induce all’ottimismo. Il dovere di saper risolvere i nostri problemi non cancella la constatazione che non tutto dipende da noi. Ma, a questo proposito, al di là delle differenze marcate sul piano politico, l’Italia avrebbe tutto l’interesse a muoversi in Europa con una determinazione più risoluta da sistema Paese. Oggi non è fra i protagonisti, domani potrebbe essere addirittura un Paese che si può…dimenticare nello scacchiere internazionale. Ed è una prospettiva che va evitata ad ogni costo.

 

Paolo Pirani
Consigliere Cnel

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I molti ruoli che Cnel potrebbe svolgere nella nuova consiliatura https://www.ildiariodellavoro.it/i-molti-ruoli-che-cnel-potrebbe-svolgere-nella-nuova-consiliatura/ Wed, 05 Apr 2023 09:12:10 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=164897 “Ogni giorno, quello che scegli, quello che pensi e quello che fai è ciò che diventi” sosteneva Eraclito. Anche per le Istituzioni è la stessa sorte: si deve guardare avanti sapendo scegliere, ragionare sul da farsi, agire. Una prospettiva nella quale si può collocare anche il Cnel che ancora una volta sarà chiamato a ridisegnare il suo percorso, dopo che la consiliatura attuale ha saputo collocarlo con giusto spirito e con un patrimonio culturale di spessore nel procedere di un mondo del lavoro in continua e tumultuosa evoluzione.

Quando il Cnel fu varato, ed è bene ribadirlo anche oggi, si chiarì una volta per tutte che non si trattava di una riedizione mascherata del corporativismo di matrice fascista. Lo sostenne con lucidità uno dei relatori della legge istitutiva: “il corporativismo nessuno può farlo risorgere. Quel corporativismo che pretese di rappresentare degli interessi, ma che inserito in quel regime, fu detto giustamente che più che corporazione fu una incorporazione di tutta l’economia nel totalitarismo dello stato mussoliniano…”.

Oggi, semmai, il Cnel può svolgere un utile ruolo per evitare derive che, non solo subiscano suggestioni nella direzione di nuovi e diversi corporativismi, ma anche verso liberismi funzionali ad acuire diseguaglianze e ridurre gli spazi per una necessaria dialettica sociale e per relazioni industriali necessarie per garantire la crescita nella equità.

A suo tempo si è dibattuto molto sul fatto che un ruolo del Cnel potesse in qualche modo condizionare con pareri “obbligatori” i lavori del Parlamento. Oggi invece appare evidente che non solo tale pericolo è inesistente ma che semmai Governo e Parlamento potranno trarre beneficio dal lavoro compiuto nel Cnel verso obiettivi che non dovrebbero essere mancati.

Si discute molto a esempio della sorte incerta del Pnrr e di ingenti risorse europee che rischierebbero di rimanere nei cassetti di Bruxelles. La congiuntura economica europea indubbiamente non induce a ottimismi. Basti pensare all’azione della Bce sui tassi, alle incertezze presenti su scelte fondamentali sul piano industriale come su quello energetico. Eppure, c’è la fondata speranza che buona parte dei fondi europei possano produrre effetti positivi nel nostro Paese a patto che non solo si formuli un’adeguata programmazione ma al tempo stesso si riesca a far convergere le volontà essenziali versi gli esiti voluti. E non si tratta solo di creare una cabina di regia, oppure di semplificare, ma anche di riconoscere alle parti sociali un protagonismo che da troppi anni viene negato nei fatti. Ed il Cnel potrebbe essere una sede ideale per la sua composizione per favorire tale protagonismo, sempre che governo e Parlamento siano aperti a un impegno verso una concreta programmazione dei progetti che a un dialogo reale con le realtà più rappresentative del mondo del lavoro.

Ma la realtà di questi tempi ripropone problemi e temi sui quali il Cnel ancora una volta potrebbe offrire un contributo di merito assai prezioso: sull’inflazione in primo luogo con una strategia che un tempo avremmo definito di politica dei redditi in grado di avanzare proposte sia sulla tenuta delle retribuzioni e degli andamenti di tutte quelle voci che gravano sulle condizioni delle famiglie, che su questioni come il salario minimo e la contrattazione. Ma più ancora sarebbe proficuo il riconoscimento del valore del confronto fra le parti sociali per realizzare quella legislazione di sostegno che non mortifichi la contrattazione.

E di questo passo si potrebbe riconoscere al Cnel un ruolo attivo e propositivo nella ricerca del modo migliore per definire una volta per tutte i criteri della rappresentanza nella negoziazione che potrebbero a loro volta eliminare le zone grigie presenti nella contrattazione.

Sono solo suggestioni che però segnalano le potenzialità di una rinnovata esperienza del Cnel che naturalmente non può che restare aperta anche ai grandi temi della dignità del lavoro e delle opportunità di fare impresa nella società digitale.

In questo senso il Cnel è certamente attrezzato per compiere un’azione importante nel delineare quei percorsi della conoscenza che saranno decisivi per garantire in futuro, ma già adesso, lavoro stabile e qualificato, formazione permanente, individuazione delle politiche necessarie per sostenere uno dei profili irrinunciabili per la sviluppo: vale a dire una solida struttura industriale. Inutile girarci attorno: non possiamo permetterci un Paese nel quale il populismo strisciante e mai domato permetta scelte liberiste in cambio di assistenzialismo. Una opzione del genere ci porterebbe ancor più nelle retrovie dei percorsi economici presenti sulla scena mondiale. Anzi continueremo a esportare intelligenze giovani all’estero.

Nei periodi più significativi del nostro sviluppo economico e sociale, nella breve stagione delle riforme, ci si avvalse a pieno titolo del concorso di una produzione culturale di livello. Fu il tempo di un grande giuslavorismo, ma anche di una creatività imprenditoriale assai importante.

Ecco, il Cnel potrebbe avere anche questa funzione: far emergere queste capacità culturali quanto mai funzionali ad un progetto complessivo di nuova società sempre che, ovviamente, esse non rimangano confinate nel perimetro di una Accademia verso la quale la politica e le Istituzioni non nutrano alcun interesse.

C’è molto da fare, soprattutto in questo 2023 nel quale crescono i timori per una pericolosa inconcludenza. Ogni sforzo dovrebbe convergere sul terreno di una progettualità che avrebbe anche il senso di ricreare una atmosfera capace di rilanciare la fiducia. In questo contesto anche il Cnel potrebbe essere uno degli attori più positivi.

Paolo Pirani – Consigliere Cnel

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Un forte spirito riformatore unitario miglior baluardo contro ogni involuzione autoritaria https://www.ildiariodellavoro.it/un-forte-spirito-riformatore-unitario-miglior-baluardo-contro-ogni-involuzione-autoritaria/ Thu, 09 Mar 2023 11:48:08 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=163755 “E’ necessario unirsi, non per stare uniti, ma per fare qualcosa insieme” sosteneva Goethe, e francamente oggi ci sarebbe molto da fare con questa…attitudine in una situazione economica e sociale in bilico come è quella italiana.
Si avvertono soprattutto due assenze che pesano su una congiuntura che rischia di virare al peggio: quella di riconoscere un ruolo reale alla mediazione sociale nelle scelte di fondo; quella di rimettere concretamente al centro della discussione il valore della persona e del lavoro. In entrambi i casi si dovrebbe invece recuperare una premessa ben diversa: riconoscere ad esempio che esiste oggi una grande opportunità per un sindacato unito dalla proposta e da strategie di partecipazione di svolgere un’azione utile ad evitare avvitamenti pericolosi della nostra economia e della tenuta sociale.

La politica non va in questa direzione: il Governo di destra sempre più si affida alla illusione di un ancoraggio a slogan da “maggioranza silenziosa” e di demolizione di tutto quello che è stato fatto in precedenza ma senza tenere conto della complessità del Paese: la confusione pare divenire di conseguenza la direzione di marcia, infarcita di compromessi, passi indietro, promesse di cambiamento che rimangono tali.

Le opposizioni sono alla ricerca di una loro fisionomia alla quale non bastano certo gli inviti a costruire la casa di tutti i riformisti oppure quelli che inneggiano alla opposizione dura.

Su questo versante siamo insomma ancora in tempi di eclisse della politica, intesa come confronto fra progetti di società, partecipazione, legittimazione reciproca, volontà di affrontare le priorità, uscita da troppi sterili opportunismi. Naturalmente occorre dare tempo al tempo e non disperare sul fatto che si possano consolidare schieramenti politici che siano meglio definiti. In questo senso però, se vogliamo azzardare, la manifestazione di Firenze con Landini, Schlein e Conte al di là del significato immediato, non pare proprio essere un segnale nella direzione della ricostruzione di una sinistra che riparta dall’umanesimo riformista, ma piuttosto l’accentuazione di un movimentismo più radicale (ma per fare cosa?) che può indebolire il movimento sindacale ma, di certo, appare per molti versi indecifrabile. E non è detto neppure che resusciti una voglia di partecipazione duratura e ragionata.
Anche l’uso disinvolto dell’antifascismo per unire “pezzi di sinistra” senza altra assonanza che quella della piazza, potrebbe rivelarsi di corto respiro. In realtà buona parte di quelle sensibilità rifugge sia dal considerare la memoria storica come un terreno di riflessione e una lezione, sia dal ritenere la cultura riformista come il migliore baluardo contro ogni involuzione autoritaria. Proprio un tratto che mancò quando il fascismo, quello vero, si impose.
Pensiamo alla opposizione che fece Giacomo Matteotti prima di essere trucidato: certo contestò duramente le violenze fasciste, ma in realtà fu assai più scomodo per il regime quando denunciò con estrema, implacabile lucidità punto per punto la fallimentare politica economica del governo Mussolini. Perché se si vuole fare davvero opposizione non si può evitare con concretezza di dimostrare iniquità e contraddizioni del disegno complessivo di politica economica e sociale.

Sarebbe bene quindi ricostruire un sistema di rapporti …senza scorciatoie, in grado di rafforzare sia l’impegno sindacale, che per fortuna continua ad essere in larga parte assai concreto, sia una dialettica fra la politica ed il sociale, all’interno del quale le convergenze dovrebbero rappresentare non segnali di fumo ma segmenti di una strategia che impedisca al Paese di ripiegare su se stesso.

Lo scenario che abbiamo di fronte è assai insidioso: l’inflazione di fondo, quella che pagano lavoratori e pensionati in primo luogo, è tuttora alta; la Bce svincolata da condizionamenti dei governi troppo deboli in Europa per indicare una comune politica economica,  alza i tassi e aumenta i problemi per i conti pubblici, l’Europa continua ad essere un mercato con una moneta unica ma senza anima politica. I punti forza della nostra economia allora sono sempre più abbandonati a sé stessi o devono affidarsi all’arte antica di arrangiarsi per mantenere quote di mercato internazionale. Ma non sono supportati né da una politica industriale efficace da un sistema Paese che sa quello che si deve fare. Si discute animatamente di salario minimo e di reddito di cittadinanza ma non emergono scelte chiare su come rilanciare la crescita dell’economia meridionale, unica via per evitare alle popolazioni di quelle regioni un interminabile purgatorio assistenziale, oppure per i giovani la fuga all’estero. Gli estremismi ideologici, vedi quelli presenti nell’ambientalismo, bloccano una discussione seria sulla transizione energetica da ripensare dopo quello che sta avvenendo. Dopo le elezioni l’immagine di Paese frenato, al dunque, non è venuto meno, anzi.
Ma quello che più dovrebbe preoccupare è che la politica continua ad essere autoreferenziale in modo smaccato e poco produttivo. Se questo foss il modo per alzare la qualità della politica ci sarebbe davvero da allarmarsi. E non è finita: sotto sotto riemerge una intenzione tardoliberista, favorendo il privato, ma che in realtà ritarda la soluzione di problemi che restano fondamentali, come quelli legati alle politiche del lavoro e alla ricostruzione della sanità.
Come si può riportare la barra della attenzione ai problemi reali del Paese? La via migliore resta quella di spingere le forze politiche ad accettare come terreno prioritario di confronto l’esigenza di misurarsi su una politica economica e sociale che non sia il frutto di interventi contingenti oppure slegati da una visione del futuro del Paese. Impegno molto difficile ma che va tentato perché solo con questo diverso approccio si può tentare di garantire il graduale superamento delle maggiori difficoltà.
Ed è su questo terreno che la proposta del movimento sindacale può giocare un ruolo assai importante senza che possa essere ignorato.

Questo è il tipico momento storico nel quale anche il metodo con il quale si affrontano le questioni diviene sostanza. Ed è un metodo che deve coinvolgere non gli umori, ma la testa ed il cuore delle persone. Non possiamo negare che il tema della rappresentanza nel Paese sia dal punto di vista politico eluso costantemente finora: lo dimostrano le diffidenze dei cittadini nei riguardi della politica, la ricerca disperante di affidarsi a chi possa interpretare un ruolo del tutto opposto alle élite di potere distanti dalla vita reale, la accresciuta scarsa affluenza al voto, la rarefazione di luoghi di discussione. La stessa contrapposizione è vista come un fattore per affermare la propria identità ma nulla di più. Ma questa riflessione porta anche a considerare un fatto non irrilevante: se la rappresentanza politica è ancora oggi “smarrita” ed incerta, sorretta da una opinione pubblica senza riferimenti ideali, quella sindacale invece è assai più stabile e radicata. Ed è questo un punto di partenza da sfruttare perché può garantire al movimento sindacale libertà di movimento, autonomia, possibilità di far valere quelle ragioni del mondo del lavoro che sono anche da sempre ragioni di avanzamento civile e democratico, oltre che improntate a giustizia sociale e contro ogni emarginazione. Del resto, si può sfuggire nell’epoca digitale a rivedere comportamenti, regole, scelte in grado di disegnare un nuovo contesto economico e sociale? Pensiamo solo al tema degli orari che non potranno non comportare profonde mutazioni nel modo di lavorare, nella vita quotidiana, nell’esercizio di diritti e doveri, nel tempo libero.

La prospettiva, comunque, ad oggi non è di quelle che fanno ben sperare, sul piano economico e sociale. Né la speranza di cambiamento può limitarsi a non perdere quel poco di crescita accumulata dopo la pandemia. Occorre recuperare un forte spirito riformatore che può essere inteso in vario modo, ma non certo come pura affermazione di un potere e di un contropotere. Negli anni ’50, gli anni del cosiddetto miracolo economico, lo scontro ideologico e politico fu fortissimo: ma nessuno mise in discussione la direzione di marcia comune che era quella di cancellare le macerie della guerra e del regime fascista. Può sembrare un richiamo nostalgico: invece quella fu la prova politica, ma anche sociale, della possibilità –sia pure fra divergenze evidenti – di garantire al Paese di riprendersi, modernizzarsi, offrire prospettive capaci di mitigare differenze, miseria, sottosviluppo. questo avvenne perché tutti i protagonisti, politici, sociali e sindacali del tempo si dotarono di proposte in quella direzione per migliorare la nostra società in ogni senso. Una lezione che dovremmo non dimenticare mai.

Paolo Pirani

Consigliere Cnel

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Autonomia differenziata non sia… raccolta differenziata https://www.ildiariodellavoro.it/autonomia-differenziata-non-sia-raccolta-differenziata/ Tue, 07 Feb 2023 18:14:25 +0000 https://www.ildiariodellavoro.it/?p=162833 Nessun topo al mondo costruirebbe una trappola…per topi” ebbe a dire Albert Einstein riferendosi al rischio nucleare. Frase che però si adatta anche alla cosiddetta autonomia differenziata varata dalla maggioranza di governo e che rischia di intrappolare il futuro del nostro Paese nelle sue diseguaglianze, molto probabilmente peggiorandole e rendendole ancora più intricate e irrisolvibili.

I maggiori rischi da cui ci si dovrebbe difendere sono, infatti, in Italia come nel resto del mondo, quelli della disgregazione di valori ed equilibri sociali, senza che ad essa si opponga un’idea chiara di Paese, per quanto ci riguarda, di cooperazione, al riparo dalla lotta senza esclusioni per l’egemonia, nel mondo.

Eppure, il disegno di autonomia differenziata che prende le mosse con il governo Meloni mostra proprio un difetto di fondo: non delinea nessuna fisionomia di un Paese che ha invece bisogno di riforme profonde e guidate da una strategia complessiva. I capitoli di questa “rigenerazione” del Paese sono noti e vanno dal sistema sanitario, alla politica industriale, dalla scuola e formazione alla transizione energetica. Così come occorrerebbe una visione d’assieme per fronteggiare le emergenze di un Paese che invecchia, di un Sud che appare sempre più asservito all’assistenzialismo, di una fuga all’estero delle risorse giovanili.

Sembra invece di rivivere un film già visto: quello della aziendalizzazione del Paese che fu uno dei cavalli di battaglia del berlusconismo degli anni ’90, miseramente fallito al pari di altri due fenomeni che hanno peggiorato la nostra società: il liberismo e il nuovismo.

Perché al dunque l’autonomia differenziata potrebbe rivelarsi l’ennesimo cavallo di Troia per favorire potentati finanziari in grado di “privatizzare” senza controllo buona parte della realtà economica e sociale, anche in virtù di una visibile debolezza sia della politica che della struttura istituzionale del Paese.

Di certo sono prevedibili, così come è congegnata, squilibri accentuati dalla perdita di direzione politica centrale, invece presente nella nostra Costituzione come punto di riferimento per garantire alla collettività l’eguaglianza delle opportunità.

L’accelerazione di questa scelta da parte della maggioranza, inoltre, è molto negativa anche da una diversa visuale: ridurre la precarietà a causa competizione interna anteponendola però ad un piano di riforme reali.  Si ripete in questo caso l’errore del titolo quinto compiuto per assecondare le richieste leghiste in funzione anti-Berlusconi e che ha prodotto guasti notevoli come si è verificato nella recente pandemia per quanto riguarda la sanità.

L’Italia ha bisogno di un progetto di società capace di arrestare il declino e di non aumentare le diseguaglianze. Questo deve essere il punto di partenza non una redistribuzione delle risorse che finirebbe per destrutturare ancor di più il nostro impianto istituzionale e la convivenza sociale.

Pensiamo solo al tema della conoscenza e, quindi, della scuola. In una fase di continua evoluzione della società digitale vi è la necessità di elevare tutti gli standard di conoscenza per garantire partecipazione, politiche del lavoro e relazioni industriali che non creino fenomeni nuovi di esclusione e sfruttamento.

E se ci riferiamo alla sanità non possiamo non notare che dopo la pandemia la situazione del nostro sistema sanitario non pare sia di molto mutata, con la evidente assenza di assetti che possano reggere nel tempo a future prove, senza abdicare a favore della presenza privata e senza conservare gli attuali squilibri.

Se si vuole migliorare la qualità della vita del Paese insomma occorre parlare d’altro e non rifarsi a logiche egoistiche, bensì alla riscoperta di quell’umanismo riformista che tende ad accorciare le distanze e non a cristallizzarle come probabilmente avverrebbe con la autonomia differenziata.

Ma c’è un’altra osservazione che si può fare rispetto alla ricerca dei livelli minimi dei servizi da assicurare, superando il criterio della spesa storica: è assurdo andare in cerca di soluzioni senza affrontare prima il tema fondamentale della equità fiscale. Le distorsioni attuali del nostro sistema fiscale rischiano di finire tali e quali anche nella cosiddetta autonomia differenziata, perpetuando uno scenario di ingiustizie fiscali che inevitabilmente finirebbe per divenire ancor più inattaccabile. E la differenza fra i servizi erogati nelle diverse aree del Paese si risolverebbe nel migliore dei casi con aggravi sui redditi delle famiglie ma senza eventuali vantaggi nello stato della scuola, dei trasporti, della sanità. Creando invece una scala di valore nei servizi pubblici che certamente andrebbe a scapito delle popolazioni delle regioni meridionali, allontanandole ancor di più dal resto dell’Italia e dell’Europa.

Colpisce infine che un Governo di destra finisca per adottare politiche che ne limitano ancor di più i poteri di indirizzo e il ruolo di promozione di sviluppo che non potranno non passare da momenti di centralizzazione: ad esempio se si vuole, alla luce di quanto accade, riorganizzare il Pnrr e le tappe della transizione energetica. Una diversa ripartizione dei poteri potrebbe infatti celare altri propositi meno rassicuranti: attribuendo al potere centrale crescenti compiti di controllo della convivenza civile, agevolati dal fatto che la politica è poco credibile agli occhi della gente e che le passate occupazioni del potere con buone dosi di trasformismo la hanno resa sempre più lontana dalle aspettative dei giovani e del mondo del lavoro.

È quindi importante mantenere vivi i valori di un reale umanesimo di stampo riformatore che è al tempo stesso memoria e ricerca di proposte utili per il futuro, ma anche capaci di aprire gli occhi su quali sono le conseguenze effettive di certe decisioni come è quella della autonomia differenziata. In questo senso un ruolo importante rivestono le forze sociali che non a caso oppongono alle opzioni di ingegneria istituzionale la concretezza delle risposte da dare alla situazione economica e sociale. Situazione che impone una riflessione non eludibile: la necessità di coesione sociale e di ritrovare un percorso di riforme condiviso. Una prospettiva che nulla ha a che fare con la scelta di autonomia differenziata che rischia di provocare invece involuzione sociale ed economica, ovvero diventare una ulteriore …raccolta differenziata di errori e problemi insoluti nella nostra società.

Paolo Pirani

Consigliere Cnel

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