di Bruno Busacca, responsabile area legislazione di Legacoop nazionale)
Il Libro Bianco
Per valutare appieno le motivazioni, le ambizioni e i risultati delle riforme del mercato del lavoro varate in questa legislatura, occorre risalire al Libro bianco pubblicato nel settembre 2001, e redatto, com’è noto, sotto la regia di Marco Biagi. Il Libro bianco prendeva le mosse dall’analisi delle debolezze, dei ritardi e delle storture della situazione dell’occupazione nel nostro Paese. Debolezze e ritardi che, nonostante i miglioramenti realizzati a partire dalla metà degli anni ’90 (una crescita di oltre tre punti percentuali a seguito degli interventi realizzati per impulso dell’allora ministro del Lavoro, Tiziano Treu), rendevano praticamente impossibile per l’Italia il conseguimento degli obiettivi occupazionali concordati l’anno prima nel vertice comunitario di Lisbona.
Il tasso di occupazione italiano si situava infatti nel 2001 al 53,5%, a fronte del 70% previsto per il 2010 per tutti i Paesi dell’Unione europea. Ma il dato complessivo – comunque di quasi dieci punti inferiore alla media europea – non era sufficiente a comprendere fino in fondo la gravità del caso italiano, evidenziata dalla particolare concentrazione della disoccupazione per territorio (il Mezzogiorno), per genere (le donne), per fasce di età (i giovani fino ai 29 anni, e gli over 55nni). Per questi segmenti dell’occupazione le distanze rispetto alle medie europee raggiungevano e, cumulandosi, in certi casi superavano i venti punti percentuali. A tutto ciò si aggiungeva, e si intrecciava, il non invidiabile primato dell’occupazione irregolare, stimata intorno al 20% dell’occupazione complessiva.
Gli interventi sul mercato del lavoro, per essere efficaci – questa la filosofia di fondo del Libro bianco – devono dunque essere particolarmente focalizzati verso le fasce più deboli nel mercato del lavoro, e indirizzati all’emersione del lavoro sommerso e alla regolarizzazione dei rapporti di lavoro irregolari.
A questo scopo, venivano individuati quali assi portanti della riforma:
una maggiore efficienza degli strumenti di incrocio tra domanda e offerta di lavoro;
una maggiore flessibilità dei contratti di lavoro, con la sperimentazione di nuovi istituti particolarmente mirati all’emersione e alla regolarizzazione del lavoro irregolare;
una maggiore e più estesa tutela per i periodi di disoccupazione;
una maggiore efficacia del sistema di vigilanza.
Inoltre – in linea anche con gli orientamenti in materia di relazioni sociali sostenuti dalla nuova maggioranza di centro-destra – il Libro bianco proponeva di sostituire alla concertazione, affermatasi a partire dalla crisi politico-finanziaria del ’92, un nuovo modello di relazioni: il “dialogo sociale”.
Quest’ultima – come da più parti, compresa la nostra, fu subito denunciato – era la proposta più debole e potenzialmente controproducente tra quelle contenute nel Libro bianco. Nonostante i problemi e gli incagli affiorati nel biennio ’98-2000, era infatti facilmente immaginabile che il superamento del metodo della concertazione avrebbe innescato conflittualità e resistenze, rendendo più difficile il consolidamento del clima di fiducia sociale necessario per l’effettiva realizzazione di un programma di riforme ambizioso e complesso come quello descritto nel Libro bianco.
La legge 30/03 e i decreti di attuazione
Ma la legge 30/03, con i decreti di attuazione, corrisponde veramente al progetto del Libro bianco?
La risposta non può che essere negativa, o perlomeno parzialmente negativa.
I tre decreti legislativi – il 276/03 e il 251/04 in materia di mercato e di rapporti di lavoro, e il 124/04 in materia di vigilanza – intervengono sugli obiettivi di potenziamento degli strumenti operanti nel mercato del lavoro, superando opportunamente il vincolo dell’attività esclusiva che era stato imposto alle agenzie di lavoro interinale con la normativa del 1997; intervengono sui rapporti di lavoro, migliorando la disciplina sul part-time, istituendo un ventaglio di nuove figure contrattuali, ridefinendo in modo più rigoroso le norme sulle collaborazioni e in modo più moderno quelle sugli appalti di servizi; disegnano un modello di vigilanza basato sul coordinamento dei diversi corpi ispettivi e sullo sviluppo di relazioni collaborative tra organi di vigilanza e datori di lavoro e loro organizzazioni.
Ma è rimasto inattuato – certo per ragioni finanziarie, ma soprattutto per il progressivo venir meno dell’originaria spinta riformatrice – l’obiettivo del potenziamento e dell’estensione delle tutele per i periodi di disoccupazione. La disciplina relativa fu stralciata nel corso dell’iter parlamentare della legge 30/03, e inserita in un autonomo disegno di legge contenente anche la contestatissima e fondamentalmente inutile riforma dell’art. 18 della legge 300/70: com’è noto, il disegno di legge è finito su un binario morto dal quale non si è mai disincagliato.
E invece il potenziamento delle tutele nel mercato era elemento fondamentale ai fini della completezza e dell’equilibrio del disegno riformatore: non a caso il Libro bianco sosteneva la necessità di “adeguate forme di tutela [che] devono agire innanzitutto nel mercato”, e proponeva dunque di spostare le tutele “dalla garanzia del posto di lavoro all’assicurazione di una piena occupabilità durante tutta la vota lavorativa”.
La riforma realizzata con la legge 30/03 è dunque rimasta monca e squilibrata, e questo squilibrio ha determinato il progressivo affievolimento del consenso iniziale, che era stato ampio, e il tirarsi indietro di molte delle parti sociali che pure si erano dimostrate disponibili a sperimentare le novità.
Per una riforma che prevede la sperimentalità dei nuovi istituti e lascia ampi spazi di attuazione e di completamento alle intese tra le parti sociali, la perdita della fiducia è stato un colpo micidiale. E tuttavia suonano eccessive, e fondamentalmente sbagliate, le tante voci che invocano oggi la cancellazione pura e semplice della legge 30/03 come una sorta di palingenesi della corretta tradizione in materia di regole del lavoro.
Il tema della regolamentazione del lavoro non può essere oggi disgiunto dalla più generale questione della competitività del sistema produttivo e distributivo nazionale nell’ambito della nuova dimensione comunitaria e globale dei mercati. E se i parametri di riferimento non possono essere certamente le regole e i costi del lavoro dei Paesi di nuova industrializzazione, sarebbe suicida non confrontarsi con le riforme che hanno messo o stanno mettendo in atto gli altri grandi Paesi europei, nostri partner ma anche diretti competitori.
In ogni caso, va notato che anche in anni difficili per l’economia italiana il tasso di occupazione ha continuato a crescere anche dopo il 2001. L’apporto principale è certamente venuto dalle sanatorie degli immigrati, ma sarebbe miope non vedere i risultati positivi di un processo di flessibilizzazione dei rapporti di lavoro che va avanti dal “pacchetto Treu” in poi.
La riforma va dunque innanzitutto completata con la definizione di un sistema di ammortizzatori sociali rafforzato e generalizzato. Va corretta nelle parti in cui si è rivelata inutile o fragile: il ventaglio delle nuove tipologie di rapporti di lavoro è francamente troppo ampio, alcune di esse come il lavoro occasionale, e l’intermittente, e la somministrazione a tempo indeterminato si prestano assai facilmente ad abusi. Ma le parti buone (il ruolo delle agenzie del lavoro, il part-time, una più seria disciplina delle collaborazioni, l’appalto di servizi, il tentativo di dare unitarietà ed efficacia al sistema di vigilanza) vanno conservate.
Ma l’obiettivo fondamentale per la prossima legislatura e per il prossimo Governo è quello di ricostruire un clima di fiducia e di collaborazione tra e con le parti sociali. Il vero insegnamento di questa legislatura è che senza questo clima – che si fonda innanzitutto sull’affidabilità e sull’equilibrio dei comportamenti e dei messaggi del potere politico – le riforme in materia di lavoro, delle quali il Paese ha comunque bisogno, sono destinate ad incagliarsi.
























