Immaginiamo un’istituzione pubblica senza internet, una casa senza connessione, una persona senza rete. Al netto di un fugace sapore di libertà, resta la visione di una calamità che si abbatte su un servizio considerato ormai essenziale per il funzionamento del Paese, delle famiglie e delle relazioni. Il presente e il futuro di questa infrastruttura, non diversa per importanza da quelle dell’acqua e del gas, è fatto di fibra ottica. La Fos Prysmian di Battipaglia ne produce di alta qualità (A2). Ma per quale mercato? Non quello italiano. L’intervento del Ministero delle Imprese e del Made in Italy non è bastato infatti a salvare l’azienda campana: l’indicazione alle stazioni appaltanti sui criteri per la scelta dei cavi da posare per costruire l’infrastruttura digitale, è giunta quando la gara e i termini di assegnazione erano già chiusi e il provvedimento, come ha segnalato anche l’Autorità garante delle comunicazioni (Agcom), non può avere valore retroattivo. I provider legittimamente hanno così potuto scegliere di abbassare la qualità del prodotto installato, ampliando di un terzo i margini di guadagno. Questa disastrosa indecisione sulle regole del gioco è stata la fatidica goccia, dopo anni di allarmi sullo stabilimento, una concorrenza asiatica molto aggressiva, aumenti del prezzo dell’energia, dell’elio e del componente liquido, crollo della domanda e caduta dei prezzi di mercato, crescita dei costi di produzione variabili e ricapitalizzazioni per 160 milioni di euro a partire dal 2015. Gli effetti dell’inerzia degli ultimi 10 anni sono ora molteplici e drammatici. Se entro il 30 aprile non si troverà un soggetto interessato all’acquisto: 300 lavoratori (ma sono 600, tra interinali e commesse) resteranno senza lavoro; l’Italia sarà cablata con fibra di scarsa qualità (A1), acquistata in Cina, India e Corea con i fondi del PNRR, ben 7,7 miliardi aggiudicati da gara a Tim e Open Fiber; i maggiori costi si sposteranno sulla manutenzione che materiali di bassa qualità e durevolezza generano; il nostro Paese non avrà garanzie sull’affidabilità della rete e rinuncerà a proteggere la più strategica delle risorse di oggi e di domani, ovvero dati sensibili come quelli sanitari e militari. L’americana Corning, con cui sembrava aperta un’interlocuzione, ha fatto un passo indietro e ora si parla dell’interessamento di un non meglio specificato Gruppo italiano e di uno giapponese, per una reindustrializzazione dell’ultimo secondo. Un tentativo di salvataggio in extremis, confermato anche nel corso dell’ultima riunione al Mimit, che ha riconvocato il tavolo di crisi per oggi pomeriggio.
Altro scenario nel Mezzogiorno, altro caso di autolesionismo industriale. Siamo nella zona di Brindisi dove, una dopo l’altra, stanno cadendo le grandi fabbriche che fanno solido il tessuto economico e sociale di una provincia, che evitano la migrazione dei giovani e l’impoverimento generale di un territorio. In un feroce effetto domino, prima si è fermato l’impianto P9T della LyondellBasell che fa chimica di base, poi la Centrale Enel di Cerano, in questi giorni si vive l’incertezza sui rinnovi degli appalti nelle aziende del Petrolchimico, con gare al ribasso che rischiano di incidere sulla sicurezza sul posto di lavoro e che richiamano la necessità di accordi su clausole sociali di salvaguardia. Oggi Euroapi (ex Sanofi) annuncia la vendita del suo stabilimento brindisino, l’unico in Italia. Non si parla ancora di chiusura, ma mancano le scadenze che consentano di accompagnare correttamente la cessione e c’è grande preoccupazione per la decisione di sospendere la produzione a seguito di presunte non conformità della filiera produttiva. Tutto questo in un contesto che ha in essere accordi di programma finanziati dalla Regione Puglia, a sostegno degli ammodernamenti concordati con l’azienda. E se il fantomatico compratore non dovesse confermare quelle attività di investimento? E se la fermata estiva prevista per la manutenzione dello stabilimento – almeno tre mesi – coincidesse invece con lo stop definitivo?
Quelli citati sono solo esempi di aziende solide che hanno scelto di non investire al Sud. Prysmian ha commesse in Europa per 5 miliardi sulla transizione energetica e Lyondell Basell ha appena annunciato il potenziamento del polo di Ferrara. Euroapi ha un paio di siti in Germania e un altro paio in Francia. Francia che protegge le imprese, i lavoratori e le lavoratrici d’oltralpe, introducendo sulla fibra ottica, per esempio, parametri qualitativi e tecnici cogenti per la partecipazione a bandi pubblici, concepiti per valorizzare le aziende nazionali coinvolte nella transizione digitale.
Il nostro Paese, senza un approccio di lungo respiro sulle politiche industriali, sembra avviato da tempo, soprattutto nel Meridione, verso una progressiva desertificazione, con la vulnerabilità occupazionale e sociale che ne deriva. Eppure non si tratta di scelte inesorabili. Al netto delle variabili di mercato, infatti, sugli equilibri delle aziende pesano ricadute prevedibili, come il costo dell’energia e le mosse che la politica fa – o non fa – per sostenere le imprese che vogliono restare o venire a investire nel nostro Paese.
È chiaro che, come sindacato, dobbiamo prima occuparci della salvaguardia dei livelli occupazionali e poi di un piano sociale a tutela del reddito dei lavoratori, con la definizione della tipologia di cassa integrazione e l’individuazione di strumenti come pre-pensionamenti, ricollocazioni lavorative e incentivi in uscita. Resta tuttavia l’amarezza per una visione poco lungimirante delle politiche industriali, della transizione energetica, ecologica e digitale, delle infrastrutture necessarie al Paese, del futuro del Sud. Resta la rabbia per l’assenza di una strategia concreta che vada al di là dei proclami, che faccia grande il Mezzogiorno e l’Italia tutta.
Nora Garofalo, Segretaria Generale Femca Cisl