di Ida Regalia, docente di Relazioni industriali comparate all’Università di Milano
1. Il dibattito sulla legge 30, aperto dal denso contributo di Tiziano Treu e che Il diario del lavoro sta ospitando da oltre un mese, è importante perché va oltre le contrapposizioni di schieramento, o le disquisizioni degli specialisti sui problemi di interpretazione e attuazione che la legge ha sollevato, per fornire invece spunti meditati per l’esercizio di quell’arte tanto cruciale in democrazia che è l’immaginazione volta alla progettualità.
In questa prospettiva di ampio respiro, il punto non è di discutere se la legge vada o no abolita, com’è stato detto dalla gran parte degli intervenuti. Il punto è di provare a ragionare su ciò che occorre per favorire allo stesso tempo lo sviluppo delle flessibilità di cui ha bisogno il sistema delle imprese e la ridefinizione del sistema di sicurezze, o di welfare, di cui hanno bisogno i lavoratori. Le implicazioni in termini di politica del diritto e di modifiche della normativa dovrebbero venire poi.
In questo spazio può agevolmente inserirsi anche chi ha un’ottica diversa da quella del giurista, come chi scrive. Le brevi notazioni che vorrei aggiungere a ciò che è stato già detto derivano largamente per l’appunto da osservazioni e dati di studi e ricerche empiriche sui mutamenti del mercato del lavoro e dei rapporti d’impiego in una prospettiva europea.
Proverò a svolgere qualche considerazione in tema di flessibilità, di rapporti non standard d’impiego, di politiche del lavoro.
2. Non vi è dubbio che rispetto a un tempo le imprese necessitino oggi di maggior flessibilità nella disponibilità e nell’utilizzo delle risorse. Ma di quali flessibilità si tratti, e di quanta ne occorra, è un dato da verificare empiricamente e niente affatto scontato.
La flessibilità di cui l’impresa ha bisogno può riguardare infatti l’organizzazione del lavoro al suo interno – come quando si fa ricorso a modelli di job enlargement, job rotation, a mobilità tra compiti/ posizioni/ macchine, a forme di teamwork: è la flessibilità di tipo funzionale. Oppure può riguardare orario e tempi di lavoro (flessibilità temporale). O ancora il sistema delle retribuzioni (flessibilità salariale). E può riguardare infine la possibilità di variare all’occorrenza la quantità di lavoro internalizzato o comunque utilizzato (flessibilità quantitativa) ricorrendo a forme non standard – o flessibili – d’impiego.
Tutto questo è risaputo. Ma è appunto per questo che colpisce il fatto che nel dibattito sulla legge 30 – e più in generale nel dibattito sul mercato del lavoro in Italia – il termine flessibilità, senza specificazioni, venga utilizzato quasi esclusivamente per fare riferimento alla flessibilizzazione dei rapporti d’impiego. Ora, di questo genere di flessibilità le imprese mostrano certo di aver bisogno, ma in modi molto variabili, a seconda delle caratteristiche produttive e di mercato, della fase economica, e simili; e soprattutto in misura relativamente contenuta, in genere inferiore a quanto prefigurato, con ottimismo o con preoccupazione in base al proprio punto di vista, qualche anno fa.
La tendenza a utilizzare in modo complessivamente misurato le forme flessibili d’impiego è un risultato ricorrente delle ricerche empiriche e delle indagini (come una recente svolta da Assolombarda) su comportamenti e dichiarazioni delle imprese. E non è un fenomeno italiano. Se si eccettua il caso della Spagna, in cui il ricorso ai contratti temporanei è tanto aumentato da diventare per gli stessi Governi di centrodestra causa di preoccupazione per le possibili ripercussioni negative sulla qualità dello sviluppo del Paese, anche altrove i dati indicano un ricorso diffuso ma contenuto alle forme d’impiego non standard.
In una ricerca comparativa sul ricorso e la regolazione sociale delle forme flessibili d’impiego in Europa, curata da chi scrive (1), appariva sorprendente il livello moderato del loro utilizzo nel Paese in cui minori sono le restrizioni al loro impiego, vale a dire nel Regno Unito. Così come appariva sorprendente che delle diverse forme di flessibilità utilizzate dalle imprese fossero soprattutto quelle interne e di tipo più qualitativo (flessibilità funzionale e temporale) a essere dichiarate in aumento, rispetto a quelle esterne e di tipo quantitativo, basate sulla flessibilizzazione dei rapporti d’impiego. Del resto, in quella stessa ricerca, i responsabili del personale intervistati, oltre a molti vantaggi, individuavano anche un aumento dei problemi organizzativi e in generale dei costi di transazione connessi al ricorso alle forme non standard d’impiego; e concludevano chiedendo sul piano normativo non tanto un più deciso lasciar fare al mercato (come ci si attendeva), ma una migliore regolazione della materia per non pregiudicare dedizione e coinvolgimento dei lavoratori.
Le implicazioni di queste osservazioni mi sembra vadano nella direzione di chi suggerisce che, per quanto riguarda questo versante del problema della flessibilità che occorre alle imprese, sia opportuno semplificare il ventaglio delle forme contrattuali previste dalla legge, rendendone allo stesso tempo più chiare e certe le regole di utilizzo, e in un quadro che favorisca la buona disposizione e la cooperazione del lavoro.
3. In effetti, le tendenze della contrattazione collettiva recente in materia di mercato del lavoro, e le stesse dichiarazioni dei rappresentanti delle aziende che le hanno accompagnate, mi pare confermino queste esigenze di semplificazione, certezza, ricerca del consenso. Ma occorre ora aggiungere qualche altra considerazione, ponendoci questa volta dal lato del lavoro.
È indubbio, da questo punto di vista, che il lavoratore ricerchi nel lavoro – anche – sicurezza. Ma, analogamente a quanto si è detto a proposito della flessibilità per l’impresa, che cosa significhi poi di volta in volta sicurezza per il lavoratore e quali siano quindi le caratteristiche attese dei rapporti d’impiego non può essere del tutto definito astrattamente e a priori, ma va verificato e ricalibrato a seconda delle circostanze.
Dati di ricerca mostrano che le forme non standard d’impiego possono rappresentare per i lavoratori opportunità non indifferenti per entrare o rientrare – e in modo soft – nel mercato del lavoro, o per adeguare l’impegno lavorativo alle variazioni delle preferenze e delle responsabilità lungo il ciclo di vita. Non necessariamente tali forme d’impiego sono da intendere come soluzioni precarie non volute, o come trappole da cui si stenta a uscire quando si tenti di farlo, benché certo molto spesso lo siano, o lo possano diventare.
In una ideale prospettiva di buon funzionamento del mercato del lavoro, ciò che più conta dal lato del lavoratore è il sapere di poter disporre di meccanismi adeguati di riferimento e sostegno nelle diverse transizioni che sempre più caratterizzano e diversificano i percorsi lavorativi degli individui: le transizioni dall’inattività o dalla scuola al lavoro, da un lavoro a un altro, dal lavoro sul mercato alle attività di cura e viceversa, dal lavoro subordinato al lavoro autonomo, dall’impegno lavorativo alla pensione.
Non si tratta quindi soltanto di progettare modi di promozione dell’occupazione o di uscita dalla disoccupazione, ma di immaginare un sistema di meccanismi in grado di guidare in modo leggero ma efficace transizioni e movimenti sul, e ingressi e uscite dal, mercato del lavoro. Con l’obiettivo di facilitare l’incontro tra domanda e offerta in modi che allo stesso tempo tengano, per quanto possibile, conto delle specifiche e mutevoli esigenze di conciliazione e realizzazione dal lato del lavoro, e delle specifiche e mutevoli esigenze di flessibilità e affidabilità dal lato dell’impresa.
4. È inutile dire che questa è una parte largamente da scrivere, anzi da ideare. Chiama in causa la tematica che viene in genere definita – con termine brutto e riduttivo – degli ammortizzatori sociali. Più in generale, riguarda caratteri e funzioni da attribuire alle politiche del lavoro.
Mi sembra, da questo punto di vista, che la distinzione analitica consueta tra politiche passive e attive ne possa uscire un po’ attenuata. O, meglio, che in questa prospettiva politiche attive e passive vadano pensate assieme, strettamente connesse, come due lati di una stessa medaglia. E mi sembra, inoltre, che il mutamento normativo che occorre debba continuare lungo la strada di svincolare il godimento di diritti e tutele indispensabili di base per i lavoratori dall’appartenenza a un perimetro aziendale dato.
Solo in questo modo si può cercare di evitare che la mobilità del lavoro sul mercato possa costituire un’opportunità vantaggiosa per i lavoratori maggiormente dotati di risorse immediatamente spendibili, ma una specie di rischioso salto nel buio per tutti gli altri.
Tutto questo, infine, apre straordinarie prospettive nuove per l’azione sindacale. Ci si augura che possano venire colte dalle organizzazioni e valorizzate dalle istituzioni.
(1) – Regalia, I., Regulating New Forms of Employment. Local experiments and social innoivation in Europe, London, Routledge, 2005.
























