I politici di razza si distinguono dai politici normali perché sanno cogliere le opportunità. E Giorgia Meloni ha di fronte a sé, in queste ore, una gigantesca opportunità. Se vuole diventare leader della destra italiana, sorpassando Salvini nella corsa ad una futura poltrona nell’ufficio principale di Palazzo Chigi, non le basterà scavalcare il disastro elettorale di domenica scorsa e continuare a veleggiare su fluttuanti sondaggi nazionali . Ha bisogno di uno strappo, che la tiri fuori dall’angolo in cui continua a lasciare che la storia d’Italia la confini. Ora è il momento: più passa il tempo e più difficile ancora diventerà. Deve dare adesso un taglio netto, definitivo, irreversibile a qualsiasi nostalgia fascista percorra gli umori del suo partito: la logora scenografia di labari, gagliardetti e saluti romani, ma anche il riemergere carsico di revisionismi storici. L’assalto provocatorio di Forza Nuova alla Cgil, in cui dice di non riconoscersi, le fornisce il pretesto adatto. Il palcoscenico è pronto ed è il più solenne: l’aula del Parlamento in cui si discute la mozione per sciogliere Forza Nuova per apologia di fascismo. Votare Sì è la mossa del cavallo che spiazzerebbe tutti e le consentirebbe di dire al suo partito e al mondo della politica in generale: “Noi ripartiamo da zero”.
Sotto traccia, Giorgia Meloni – che, dicono i biografi, arriva alla destra radicale più da un percorso culturale che revanscista – cerca di muoversi in questa direzione. Ma l’idea – abortita – di presentarsi al ghetto di Roma nell’anniversario del rastrellamento tedesco per denunciare “la furia nazifascista” a due giorni dalle elezioni comunali puzzava di propaganda ed è comunque troppo poco e troppo sotto voce. C’è bisogno di una mossa pubblica, clamorosa, da grande teatro drammatico, che ricordi , fatte le dovute proporzioni, il taglio con cui il Pci recise il cordone ombelicale con il comunismo sovietico, ovvero quello che è, tuttora, lo “strappo” per antonomasia.
Lo fece, giusto 14 anni fa, Gianfranco Fini, scegliendo, infatti, una scenografia d’eccezione: una visita in Israele, con la kippah in testa, per dire che il fascismo era “il male assoluto” e che “non c’è nessuna giustificazione per i carnefici di ieri”. Quel coraggio non gli bastò per lastricargli la carriera. Ma, al di là dei problemi personali, Fini si confrontava con un Berlusconi, nel 2003, ancora in ascesa, padrone assoluto del centrodestra e di una buona fetta dell’immaginario del paese. Oggi la Meloni deve fare i conti con un Berlusconi in attesa di imbalsamazione, i berlusconiani incerti e sperduti e un Salvini dilaniato dai contrasti fra le anime della Lega. Per conquistare la leadership della destra deve anzitutto liberarsi delle camicie nere. Quanto le può costare elettoralmente lasciare l’esclusiva delle nostalgie fasciste ai manipoli di Forza Nuova e Casapound? I “duri e puri” della destra italiana non valgono, probabilmente, più dell’1 per cento dell’elettorato. Al contrario, guardando di lato e al centro, la Meloni può puntare sul 10-15 per cento di elettori No Vax o No Pass o ex grillini (o tutt’e tre) oggi tentati dall’astensione e che può sottrarre ad un Salvini, prigioniero di una Lega, quasi certamente assai sensibile ai richiami di Giorgetti alla ragionevolezza. Il prezzo da pagare è alzarsi in Parlamento, dove sono appena approdate le mozioni contro Forza Nuova, per dire che il fascismo è roba per gli storici, che i superstiti di quell’epoca vanno ormai per i 90 anni, che di Forza Nuova e Casapound non si sente il bisogno e Fratelli d’Italia guarda solo avanti: pollice verso.
A prima vista, guardando da sinistra, una destra agile e liberata da zavorre nostalgiche e ipoteche ducesche può apparire più insidiosa e pericolosa di quella attuale, impastoiata dall’ingestibile proliferare di profeti del passato, fin troppo smaniosi di mettersi in luce e conquistare notorietà. Ed è, probabilmente, così. Contemporaneamente, una destra depurata da scorie fasciste non sarà per questo meno innervata di populismo demagogico e autoritario, di una irrefrenabile tendenza alla dittatura delle maggioranze. Resterà una destra avara nei diritti e lassista nei doveri (fiscali o vaccinali). Perché la destra è destra. Almeno, però, ci liberi di settant’anni di tormentoni e si riconosca finalmente nella Costituzione.
Maurizio Ricci