In un paesino delle Marche dove vado spesso, il barbiere si lamenta: “Potrei fare molto di più, ma non riesco a trovare un aiuto. Nessuno vuol fare il barbiere”. Al bar del paese non va meglio: per tutto l’inverno hanno tenuto chiuso il lunedì e il martedì sera, per mancanza non di clienti, ma di personale. Anche l’idraulico brontola: ha la coda di richieste, è riuscito a trovare un aiutante, ma ne vorrebbe un altro. “Nessuno vuol fare l’idraulico”, conclude.
Non siamo nelle aree svuotate dell’Appennino, ma a ridosso della costa, nelle aree densamente popolate che, una volta, erano il distretto della calzatura e che tuttora registrano un’attività economica vibrante. E i lavori offerti non sono precari o in nero: fissi, a contratto.
E allora? Forse i giovani preferiscono restarsene a casa, a carico di papà, mamma e la pensione del nonno, in attesa di lavori più gratificanti. Ma i conti non tornano. La grande sfida del Pnrr, quasi 200 miliardi di euro della Ue per rifare l’Italia, rischia di cadere nella stessa trappola del barbiere marchigiano. La Banca d’Italia aveva calcolato che il Pnrr avrebbe creato 375 mila nuovi posti di lavoro entro il 2026, ma il governo sta già dicendo che non si riescono a reclutare i lavoratori necessari. Gli imprenditori lo sanno da tempo: il 40 per cento dei posti liberi rimane scoperto per mancanza di candidati.
C’è, con ogni probabilità, un divario fra competenze richieste e offerte. Ma i numeri sono troppo alti per ridursi ad un mismatch, come lo definiscono gli esperti, di competenze. E il buco c’è anche dove, come con l’idraulico, la competenza arriva lavorando.
Forse, la spiegazione è la più drastica e definitiva: manca la gente. Fa effetto dirlo: l’Italia si spopola. L’immagine che cattura il paese in declino è di grande efficacia: “l’inverno demografico” lo hanno battezzato gli addetti ai lavori. I dati sono brutali. Il “miracolo economico” degli anni ‘60 si è celebrato al ritmo di un milione di nascite l’anno. Da tempo, anche mezzo milione sono diventati un miraggio. Il risultato è che la popolazione in età di lavoro sta diminuendo ad un ritmo mozzafiato. Fra il 2019 e il 2022, gli italiani fra i 15 e i 64 anni di età si sono ridotti al ritmo rapidissimo di 800 mila l’anno. Nei prossimi tre anni, calcola Eurostat, diminuiranno ulteriormente di 630 mila l’anno. Il calo numerico nel ritmo non inganni: è solo che si sta restringendo il bacino dei candidati. Proiettato ad un domani assai vicino, il 2040, è quasi una desertificazione: fra meno di vent’anni, gli italiani in grado di lavorare (ovvero nella fascia di età 15-64 anni) saranno 6 milioni in meno di oggi. Vuol dire che staremo più larghi, ma saremo più poveri: nei manuali di economia, il primo fattore citato per l’aumento del Pil è l’aumento della forza lavoro.
E, dunque, spingere le famiglie italiane a moltiplicare le nascite, per cui abbiamo il record negativo in Europa? Spingere le donne a trovarsi un lavoro (altro ultimo posto nella classifica europea)? Sradicare i giovani dal divano di casa, riducendo il numero di inattivi, che non lavorano e non studiano, altro record che abbiamo in Europa, questa volta, purtroppo, negativo? Di fronte all’emergenza demografica, il governo Meloni si è cacciato in un ginepraio di contraddizioni e di blocchi mentali, in cui l’istinto ideologico di considerare naturale che le donne stiano a casa si scontra con la logica di rimpolpare il mercato del lavoro, facilitando l’occupazione femminile. Per ora, vince l’istinto: di politiche sociali che favoriscano le carriere lavorative delle donne (a cominciare dagli asili nido) se ne vedono poche.
Del resto, è solo una illusione. Per quanto sia giusto e desiderabile rilanciare la natalità, stimolare i giovani, buttare nella mischia le donne, non basta a scongelare l’inverno demografico. Numeri e tempi non sono aggirabili. Lo ha detto nel modo più netto il governatore della Banca d’Italia, Vincenzo Visco, nelle sue ultime Considerazioni finali. Se anche, d’incanto, la fertilità delle donne italiane s’impennasse, prima di vedere sul mercato del lavoro i nuovi nati dovremmo aspettare il 2050. Giovani e donne possono essere mobilitati più rapidamente: ma se anche l’occupazione giovanile e femminile risalisse ai valori medi europei, non basterebbe a invertire la tendenza demografica.
I ritardi, qui, si cominciano a pagare fin d’ora. Le agenzie di rating – da Standard&Poor’s a Moody’s a Fitch – i conti li stanno già facendo: un’economia in una spirale di declino significa che il peso del debito si fa sempre più insopportabile. Il crac non è domani, è dopodomani, ma il downgrading e il conseguente aumento dei tassi di interesse arriva subito. E l’unica risposta possibile è la più difficile da digerire per l’attuale governo: gli immigrati. Altra strada non c’è.
Il problema è l’opposto della propaganda governativa. Attualmente ne arrivano troppo pochi: lo stesso Istat, per disegnare uno scenario non catastrofico deve presupporre che ne entrino nel paese 135 mila l’anno, ovvero il doppio di quanti effettivamente ne arrivino. Ecco il deficit che non ci possiamo permettere e, anzi, l’Istat è troppo cauto. Per far marciare l’economia e far calare il peso del debito pubblico sul Pil ne servono – calcolano gli stessi esperti governativi – il doppio dello scenario base Istat: 280 mila l’anno e non 135 mila.
Con 280 mila ingressi (più o meno quanti se ne registravano fra il 2000 e il 2010) il rapporto debito/Pil, nei prossimi decenni, scenderebbe dal 144 attuale al 130 per cento del Pil. Con la metà (140 mila ingressi l’anno) il debito pubblico sfonderebbe quota 200 per cento del Pil. Non c’è da scegliere.
Maurizio Ricci