Questo fine settimana l’Italia tornerà in un (almeno parziale) lockdown. È questo, infatti, ciò che comporta la nuova ripartizione in aree geografiche. Esse saranno articolate non già, solo, secondo colori (per colpire magari la fantasia anche dei più distratti), bensì secondo misure di progressiva chiusura e di crescente limitazione dei movimenti. Non voglio soffermarmi sul meccanismo utilizzato per compiere questa ripartizione e per inserire una regione in una zona piuttosto che in un’altra. Esso è tutt’altro che chiaro, perché non è affatto chiaro in base a quali criteri sono raccolti i dati, come sono aggregati, come sono interpretati e come sono applicati alle varie zone geografiche. Voglio sottolineare invece un altro aspetto particolarmente evidente in questo periodo, in Italia e – specialmente – in questi giorni. Parlo della tendenza, davvero condivisa, a esercitare un sistematico scarico di responsabilità.
Proprio nel momento in cui un secondo lockdown rischia di bloccare di nuovo molte attività produttive del nostro paese, proprio quando la ripresa che avevamo insperatamente conosciuto negli ultimi mesi sta andando incontro a un nuovo stop, proprio nell’approssimarsi di una situazione di cui sappiamo già bene le pesanti conseguenze, assistiamo a uno spettacolo nel quale quasi nessuno – e quel qualcuno lo fa solo se costretto – vuole metterci la faccia. La necessaria collaborazione fra istituzioni, e fra istituzioni ed esperti, e fra istituzioni e cittadini, si trasforma nel tentativo d’imputare ad altri le conseguenze di certe decisioni. Ancora una volta sembra che il gioco del cerino sia lo sport nazionale, più che il gioco del calcio: resta scottato l’ultimo che tiene in mano il fiammifero acceso.
Non credo che sia difficile verificare ciò che sto dicendo guardando alla situazione di questi giorni. Assistiamo a un rimpallo di responsabilità tra governo e regioni. Vediamo il trincerarsi del governo dietro le competenze degli esperti. Ci accorgiamo che le parti sociali, spesso, continuano a far prevalere le accuse reciproche piuttosto che quello spirito di collaborazione che è indispensabile nelle emergenze. D’altronde il Covid offre un buon alibi anche per le vertenze che non si è stati capaci di risolvere prima: come per esempio quella della Whirlpool.
Tutto ciò nasce non solo da un malinteso senso dell’autonomia – quello che giustamente dovrebbe regolare il rapporto fra le componenti di uno Stato –, ma da un voluto fraintendimento di essa. L’autonomia viene concepita non già come la possibilità di realizzare i propri obbiettivi, svincolandosi da procedure burocratiche sempre più rigide ma restando comunque all’interno di regole condivise, bensì come una certificazione dell’arte di arrangiarsi. Ciò peraltro è giustificato dal fatto che molti soggetti si sentono, e spesso sono, abbandonati a se stessi, senza che a tale situazione qualche occasionale elemosina sia in grado di porre effettivo rimedio.
In questo gioco di scaricabarile, comunque, alla fine ci perdiamo tutti. Ci perde chi, per dovere di rappresentanza, deve andare alla tv per spiegare i provvedimenti presi, attirandosi il risentimento dei cittadini danneggiati. Ci perdono gli esperti, perché la loro competenza è strumentalizzata e le loro conoscenze sono piegate a interessi di parte. Ci perdono gli enti locali, perché sono lasciati soli. Ci perdiamo tutti noi, perché finiamo per subire sulla nostra pelle le conseguenze delle scelte prese, o non prese, ad altri livelli.
Credo che tutto ciò sia ormai chiaro. Così com’è chiaro l’antidoto: l’assunzione di quella responsabilità che compete a ciascuno e che oggi – tanto più oggi – a ciascuno è richiesta per salvaguardare la salute propria e altrui. Ma è altrettanto chiaro perché è difficile chiederla e ottenerla: gli esempi che abbiamo di fronte non vanno, il più delle volte, in questa direzione.
Adriano Fabris