Disastro. Catastrofe. Collasso. È un po’ un paradosso, ma, dopo tanti discorsi fumosi e inconcludenti, in materia di ambiente e di lotta al cambiamento climatico, quando si alza il volume delle proteste e delle recriminazioni delle potenziali vittime, si ha almeno l’impressione che si cominci a fare sul serio. Questo non vuol dire che non ci siano problemi veri, seri e scelte difficili da compiere. Lo abbiamo visto con l’energia, con l’esplosione delle bollette, il gas alle stelle, il vento che latita. Ora, lo stiamo vedendo con l’auto. Per l’Europa è materia delicata e incandescente, perché l’industria dell’auto è un asse portante – forse, quello più visibile – dell’economia europea. Poco meno di sei milioni di lavoratori legati, in un modo o nell’altro, all’auto europea. In Germania, 600 mila addetti, 180 mila in Gran Bretagna, 160 mila in Italia. Soprattutto – in particolare in Germania e in Italia – la sede di vere e proprie eccellenze tecnologiche e aziendali a livello mondiale.
Della vecchia auto, però. Diesel e benzina, i dinosauri dei combustibili fossili. La Commissione Ue ha stabilito che, a partire dal 2035, in Europa non si produrranno più auto alimentate dai derivati del petrolio. Per i giganti del settore, è un drammatico ripartire da zero. L’allarme più lucido lo ha lanciato Carlos Tavares, il boss di Stellantis, ovvero il conglomerato Fiat-Peugeot. Il passaggio all’elettrico, dice Tavares, comporta un aumento dei costi del 50 per cento, che non saremo mai in grado di scaricare sui consumatori, che non si possono permettere prezzi così alti. Dovremmo aumentare, nei prossimi anni, la produttività del 10 per cento l’anno, quando, storicamente, non siamo mai andati oltre il 2-3 per cento. Il dilemma è servito: per raggiungere emissioni zero nel 2050, bisogna eliminare l’auto tradizionale almeno entro il 2035, ma quindici anni sono troppo pochi per un passaggio epocale come questo. I tempi fissati per la transizione, conclude infatti Tavares, sono “al di là dei limiti di quello che l’industria dell’auto può sostenere”.
Il boss di Stellantis non lo dice esplicitamente, ma tutta la lobby dell’auto fa capire che il prezzo di questa transizione sarà pagato in posti di lavoro. Rispetto ad un auto tradizionale, l’elettrica è più semplice, ha meno componenti, è facile da assemblare. Anche se questo non vuol dire che bastino quattro robot. Il capo della Volkswagen, Hubert Diess, sottolinea che la macchina bisogna pur sempre metterla insieme. Elettrica o no, c’è sempre da verniciarla, metterci i sedili, montare la carrozzeria, le ruote, gli assi, rifinire gli interni. Ma per chi produce i motori, servono il 20 per cento di occupati in meno. E, per chi fa i componenti (carburatori, pistoni, valvole ecc.) il taglio di addetti può arrivare al 42 per cento. Totale, l’industria dell’auto europea si appresta a perdere 500 mila addetti, calcolano le aziende del settore.
Eccolo il disastro fatto intravedere da Tavares. Un taglio che avviene nella carne viva della fascia privilegiata dell’occupazione, nel cuore dell’aristocrazia operaia, può avere conseguenze politiche pesantissime. Ma è davvero così? Il calcolo, in realtà, si basa su una pregiudiziale che sono gli stessi giganti dell’auto ad essersi posti. La direttiva della Commissione di Bruxelles non dice che l’auto del futuro può essere solo elettrica e non, ad esempio, a idrogeno, a combustibili sostenibili, ibrida. La scelta l’hanno compiuta case come la Volkswagen che ha ufficialmente escluso altre tecnologie che non siano l’elettrico.
Ma anche l’elettrico, in materia di occupazione, non è tutto a perdere. Un’analisi del Boston Consulting Group stima la perdita di addetti, nel passaggio all’auto del futuro, a non più dell’1 per cento del totale. Anche una stima meno dichiaratamente ottimistica, come quella prodotta da PriceWaterhouseCooper, dà risultati meno cupi, ricordando che il passaggio all’elettrico comporta decine di migliaia di nuovi posti di lavoro nelle gigafactory chiamate a produrre batterie, nelle infrastrutture per la ricarica, nella trasmissione di energia. Secondo Pwc, dunque, 500 mila posti di lavoro persi, in prima battuta, ma 226 mila recuperati nelle nuove occupazioni legate all’auto del futuro. Il saldo negativo sarebbe, insomma, di 275 mila lavoratori spiazzati dalla transizione, un po’ più della metà.
Troppi comunque? Una massa ingestibile? Una bomba ad orologeria sociale? Ricordiamo che, proprio perché concentrata nella componentistica – la fascia più sofisticata dell’industria dell’auto – si tratta di manodopera molto spesso ad altissima qualificazione. Difficile che non trovi occasione di ricollocarsi. Anzi, forse il rischio maggiore, in questa rinascita dell’auto, è la perdita di competenze personali ed aziendali, costruite ed affinate negli anni. Conclusione: l’industria dell’auto ha le tasche abbastanza profonde e competenze sufficienti per superare il collo di bottiglia del 2035. Se non ci riescono i giganti dell’auto, la battaglia per emissioni zero è già perduta.
Maurizio Ricci