Il sistema produttivo italiano ha subito pesantemente gli effetti economici della crisi sanitaria. Nel primo semestre del 2020 oltre tre quarti delle imprese industriali con almeno 20 addetti hanno registrato “ampie cadute” di fatturato, sia sul mercato nazionale sia su quello estero.
Segnali di recupero più diffusi si sono registrati nella seconda parte dell’anno e nel primo trimestre 2021. E’ quanto rileva il rapporto annuale dell’Istat.
Nella manifattura l’aumento dei ricavi ha coinvolto 15 settori su 23, ma solo 9, che pesano per oltre il 40% sull’indice di fatturato totale, sono tornati ai livelli pre-crisi. In quasi tutti la domanda interna è stata più vivace di quella estera. Nel terziario il recupero è ancora incompleto ed eterogeneo: a marzo 2021 il livello dei ricavi è ancora inferiore di oltre il 7% rispetto a quello registrato a fine 2019.
La crisi sanitaria ha compromesso in molti casi la solidità delle imprese: risultano strutturalmente a rischio la metà delle micro (3-9 addetti) e un quarto delle piccole (10-49 addetti), soprattutto nel terziario. Tuttavia, investimenti in R&S e digitalizzazione, e nella formazione avanzata del personale, aumentano significativamente la probabilità di limitare gli effetti negativi della crisi. Infatti, tra le imprese digitalmente più strutturate solo quattro su dieci hanno ridimensionato l’attività.
L’impatto economico della crisi è stato eterogeneo tra le diverse aree del Paese. Le più penalizzate sono quelle a maggiore vocazione turistica, senza grandi differenze tra nord e sud del Paese. Risultano a elevato rischio operativo anche imprese a grande rilevanza locale che nel periodo pre-crisi presentavano una elevata intensità di investimenti e forti connessioni produttive con altre unità. L’incidenza di queste imprese è maggiore in Basilicata, Calabria e Sardegna ma anche nel Friuli-Venezia Giulia.