Questo governo favorisce gli evasori, strozza i poveri, crea un fisco di favore solo per alcuni privilegiati. No, non è il discorso in Parlamento di Letta, Calenda o Conte. E’ la bocciatura pressochè unanime che delle prime mosse del governo Meloni dà la classe dirigente del paese. La valutazione è più bruciante, infatti, perchè non è politica, ma tecnica. A parlare, è quell’arcipelago di giuristi, economisti, amministrativisti, intellettuali, grand commis, public servants che costituiscono la classe dirigente – al di là e al di fuori delle maree della politica – e che rintracciamo nelle grandi istituzioni indipendenti: fra tutte, Corte dei conti, Banca d’Italia, Ufficio parlamentare del Bilancio, Istat. Le loro audizioni in Parlamento sulla manovra economica 2023 impostata dal governo sono un dettagliato J’accuse, da cui la stessa opposizione avrebbe molto da imparare. Mordono nel vivo, perché, anche riconoscendo la fretta con cui il governo ha dovuto impostare, in poche settimane, la manovra, ne smascherano le fondamenta ideologiche e strumentali.
In qualche modo, nei mesi scorsi, un altro governo radicale di destra – quello della sventurata Liz Truss a Londra – aveva dovuto imporre la sua manovra economica, scavalcando e azzerando i suoi interlocutori tecnici della burocrazia (come è noto, è finita male, con il governo più breve della storia britannica). Qui, la storia è meno cruenta e meno drammatica, ma la frattura con la classe dirigente più antica, quasi strutturale. Svanita, trent’anni fa, la Democrazia cristiana, la destra italiana, da Berlusconi in poi, sembra sempre incapace di ricostruire un legame organico con le risorse tecniche ed intellettuali delle grandi istituzioni, finendo per vivere una sorta di interminabile conflitto ribellistico. Se la distonia si può capire per un partito che, per la prima volta, esce da una opposizione permanente, come Fratelli d’Italia, più difficile spiegarla per Forza Italia e la Lega che circolano, spesso in posizione predominante, nelle istituzioni dagli anni ‘90. Quasi ci fosse una impossibilità connaturata a superare un “diverso sentire”.
Di questo “diverso sentire” le audizioni dei giorni scorsi davanti alle Commissione Bilancio di Camera e Senato sono state un campionario ricco, ma omogeneo. I parametri fondamentali della manovra (disavanzo, debito, misure anticrisi energetica) sono stati accettati. Le critiche (più sfumate quelle di Bankitalia e Istat, incalzanti quelle di Corte dei conti e Ufficio parlamentare del Bilancio) si sono concentrate sui capitoli che non prevedono grandi spese, ma sono anche il diretto riferimento – politico ed elettorale – della maggioranza e questo spiega gli scatti di nervi degli interessati: condono, contante, flat tax, reddito di cittadinanza.
CONDONO. Le misure volte ad agevolare i contribuenti morosi “possono aggravare con la tenuità delle sanzioni il fenomeno delle imposte dichiarate e non versate e influenzare i comportamenti fiscali anche nelle prossime dichiarazioni. Il rischio è l’attenuarsi dell’effetto deterrente delle attività di controllo e riscossione, inducendo il convincimento che sottrarsi al pagamento dei tributi possa essere notevolmente vantaggioso” (Corte dei conti).
“Ormai è una misura permante. Ma gli accordi sul Pnrr prevedono che, rispetto al 2019, la differenza fra reddito potenziale e reddito dichiarato, il tax gap, si riduca, rispetto al 2019, del 5 per cento nel 2023 e del 15 per cento nel 2024” (Ufficio parlamentare del Bilancio).
CONTANTE. Alzare il tetto al contante a 5 mila euro e ridurre pagamenti digitali “rende più difficile l’emersione di basi imponibili nei settori dove sono più diffusi i comportamenti evasivi: servizi alla persona, commercio, ristoranti, agricoltura, servizi professionali” (Corte dei conti)
“Più contante più economia sommersa, dicono i nostri studi. E i pagamenti digitali costano agli esercenti – fra furti, trasporto, assicurazioni – meno del contante” (Banca d’Italia)
“Si va contro le raccomandazioni esplicite del Consiglio Ue del 2018 e 2019” (Upb).
FISCO. Nonostante non mobiliti, secondo le previsioni, grosse cifre, il regime fiscale messo in campo per i lavoratori autonomi, fra regime forfettario e flat tax suscita una levata di scudi.
“E’ un fisco meno progressivo e meno equo. Con forte inflazione, risultano ancora più svantaggiati i salari, che si gonfiano e vanno ad affrontare aliquote più alte” (Banca d’Italia)
“C’è una frammentazione del prelievo fra diverse categorie di contribuenti che fa dell’Irpef sempre più una imposta su pensioni e salari. Un’aliquota al 15 per cento è anche più bassa del primo scaglione dell’Irpef” (Corte dei conti)
“Qui si ridisegna un regime alternativo alla progressività dell’Irpef, un regime generale per i redditi di professionisti e imprese individuali” (Upb)
“Il 74 per cento degli autonomi rientra potenzialmente nel nuovo regime forfettario e quelli a cui più conviene aderire sono i tre quarti di quel 10 per cento che ha il reddito più elevato” (Upb).
“Il risparmio medio in tasse per i lavoratori autonomi è di 7.700 euro l’anno. Per i professionisti è di 9.600 euro l’anno e, per un quarto di loro, oltre 13 mila euro (Upb).
REDDITO DI CITTADINANZA. “I beneficiari che verranno esclusi hanno anche meno reddito e uguale difficoltà a trovare occupazione di quelli che continueranno a fruirne” (Istat)
“Era meglio abolirlo del tutto, nel momento in cui ne fosse pronto uno nuovo” (Upb)
Maurizio Ricci
























