Dopo l’accordo dello scorso marzo tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria il tema della misurazione della rappresentatività sia dei sindacati che delle associazioni datoriali è tornato al centro del dibattito che anima il mondo delle relazioni industriali. Una necessità dettata anche dal manifestarsi di alcune condizioni esterne. Da una parte il proliferare di numerosi contratti collettivi (il Cnel ne ha contati più di 900), con la conseguenza che molti di questi contratti risultano essere, alla fine dei conti, contratti “pirata”, stipulati da sindacati di comodo o con un basso tasso di rappresentatività. Questi sono poi causa di forme di dumping sia salariali che nella parte riguardante i diritti.
Tuttavia, ancora si è dato seguito a questa procedura, e permangono molte perplessità su come attuare, in concreto, la misurazione della rappresentanza. Interrogativi al centro del seminario organizzato dall’Arel, l’Agenzia di Ricerche e Legislazione, dal titolo “Rappresentatività dei lavoratori”.
Nel suo intervento, il presidente del Cnel Tiziano Treu ha ribadito come il tema di arrivare a una misurazione oggettiva delle parti in campo sia diventato sempre più urgente. Da una parte per dare il via a un processo di razionalizzazione delle relazioni industriali. Dall’altra, a differenza del passato, si sta assistendo a una progressiva disgregazione della compagine datoriale. Questo, spiega Treu, ci pone il quesito di come arrivare a misurare la rappresentatività su questo versante. Per il presidente del Cnel si potrebbe adottare il sistema che viene utilizzato per calcolare la rappresentanza datoriale nelle camere di commercio. È l’unico sistema esistente stabilito per legge; funziona e si basa sulle autodichiarazioni al fine di controllare quanto un’associazione datoriale è rappresentativa e quindi di quanti posti ha diritto in una camera di commercio. Il sistema funziona perché tra le imprese c’è un interesse reciproco a controllarsi per conquistare dei posti importanti; dunque sulla base di questi criteri l’apprezzamento del peso delle singole associazioni datoriali è abbastanza condiviso.
In questo modo, si avvierebbe un serio contrasto ai contratti pirati. Sul tema è intervenuto anche il presidente dell’Inps Tito Boeri, il quale afferma che la diffusione di questo fenomeno potrebbe essere letto come la risposta a bisogni oggettivi del mercato del lavoro italiano. Infatti, nel nostro paese, continuano a sussistere differenziali di produttività molto elevati tra azienda e azienda, a seconda dell’area geografica nella quale è collocata. Questo causerebbe l’impossibilità, per alcune realtà produttive, di sostenere i minimi salariali disciplinati dai contratti collettivi, ricadendo così nei contratti pirata. Da qui la necessità di una maggiore flessibilità, che tenga conto delle diversità geografiche, attraverso una contrattazione non solo aziendale ma anche territoriale.
Il contratto pirata, spiega Boeri, è la prova più evidente che oggi i contratti collettivi non sono più in grado di garantire un salario minimo che invece, sostiene il presidente dell’Inps, sarebbe uno strumento molto valido per contrastare il fenomeno della povertà anche tra chi ha un’occupazione.