È ufficiale, si potrebbe dire. L’anno prossimo non cresceremo dell’1,2 per cento, come aveva calcolato, con solitario ottimismo, il governo, presentando il bilancio 2024. Ma “meno dell’1 per cento”, ovvero, più o meno, quello 0,8 per cento che tutti gli altri (Ocse, Fmi, Bankitalia, Unione europea) avevano stimato nelle settimane precedenti. Ufficiale, perché lo dice il neogovernatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta. E, se appena i dati glielo avessero consentito, Panetta, nel suo primo discorso nella nuova carica, si sarebbe volentieri risparmiato di smentire pubblicamente il governo che lo ha nominato.
La revisione del ritmo di marcia ha conseguenze serie su fattori cruciali, come deficit e debito pubblico. Ma, a preoccupare di più è il motivo del rallentamento. Il “destino cinico e baro” (leggi: un aumento dei prezzi dell’energia, gas e petrolio) questa volta non c’entra. La macchina si ferma perché si è esaurito il meccanismo virtuoso che aveva spinto l’economia negli ultimi tre anni: gli investimenti. E’ normale che gli investimenti alimentino l’economia: ma, in Italia, non accadeva da tempo.
Il paese è fermo dagli anni ‘90 e l’austerità e l’arrivo dell’euro c’entrano poco. Un universo aziendale spasmodicamente fissato sul costo del lavoro ha perso di vista i veri motori della produttività. Negli ultimi vent’anni, la produttività del sistema italiano è aumentata esattamente di zero, mentre nel resto d’Europa cresceva dell’1 per cento l’anno. Il risultato è che, oggi, la produttività italiana è del 20 per cento più bassa di quella che si riscontra nell’area euro.
Colpa dei lavoratori? I dati lo smentiscono. Le ore lavorate si muovono insieme a quelle del resto d’Europa, fino a dieci anni fa, quando austerità e crisi delle finanze pubbliche hanno impiombato l’economia. Quello che è mancato, invece, dagli anni ‘90 sono gli strumenti della produttività: prima gli investimenti nell’informatica e nelle comunicazioni, poi quelli nella digitalizzazione e nel software. Le aziende italiane, insomma, a lungo non hanno fatto i compiti.
Ecco perché il risveglio degli ultimi anni è stato una sorpresa. Forse anche perché il Covid le ha costrette a riorganizzarsi, a trovare strade nuove, le imprese italiane hanno spinto sul pedale. Dal 2019, gli investimenti sono cresciuti del 20 per cento, mentre, in generale, nell’area euro, epidemia e lockdown li facevano scendere del 4 per cento. Come quota del Pil – e, dunque, delle risorse di cui dispone il paese – gli investimenti sono saliti dal 18 al 22 per cento, più o meno il livello del resto dell’eurozona. C’è stato il boom delle costruzioni, certo, fra superbonus e affini, balzate dall’8 al 12 per cento del Pil. Ma il risultato prezioso è il boom, finalmente, degli investimenti in software e in macchinari, arrivati a sfiorare l’11 per cento, non troppo lontano dalla media dell’eurozona, mentre, dal 2008 e dalla crisi finanziaria, il gap era di due punti.
In due parole, una svolta imprevista, inattesa, trascinante come un miracolo. E, come tutti gli eventi imparentati con il sovrannaturale, presto sfuma, svanisce, scompare. Il rischio reale, infatti, con il costo del denaro quadruplicato, rispetto al 2022, è che le aziende si fermino, riaprendo il gap con il resto d’Europa.
Non è un risultato scontato, ma è, purtroppo, il più probabile. Se siamo disperatamente aggrappati ai fondi europei del Pnrr è perché anche quello 0,8 per cento su cui ci dicono di poter contare nel 2024 è, sostanzialmente, poco più dell’impulso che può fornire il flusso di finanziamenti legato alle tranches del piano. Per il resto, siamo al buio.
Maurizio Ricci