Angela Merkel è nata e cresciuta nella Germania dell’Est. Un’origine che ha condizionato tutte le sue scelte. Quando vieni su in una Patria divisa, l’unità e la coesione diventano la tua bussola. Non è certo un caso che abbia affiancato Helmut Kohl nel titanico processo di Riunificazione. Ora ha deciso di uscire dalla scena politica, annunciando che lascia subito la guida della Cdu, l’Unione cristianodemocratica, e che non si ricandiderà come Cancelliera. C’è ancora tempo per l’addio definitivo, a meno d’imprevedibili colpi di scena potrebbe continuare a tenere in mano le redini del governo fino al 2021, ma intanto il percorso è segnato. La donna che con il suo sorriso triste e deciso appariva un baluardo del mondo libero, la definizione, come ha ricordato Tonia Mastrobuoni, le fu affibbiata dalla rivista Time, sta ammainando le proprie bandiere.
E questa, nel vecchio continente sempre più in disfacimento, non è una buona notizia. A maggio dell’anno prossimo si voterà per il Parlamento europeo e la marcia trionfale della destra sovranista sembra inarrestabile. Un fronte ricco di idee e di leader, quanto quello avverso appare debole e con pochi punti di riferimento. Il partito popolare è sempre più strattonato a destra e la socialdemocrazia ridotta a una flebile fiammella. E ora che la figura della Merkel vacilla, a tenere alta la fiaccola dell’Unione, restano di fatto solo Emmanuel Macron, peraltro in calo di consensi anche nella sua Francia, e Pedro Sànchez che però è arrivato al potere solo per le dimissioni di Mariano Rajoy, travolto dalle accuse di corruzione, e dopo una crisi parlamentare senza avere la benedizione delle urne. Dall’altra parte, agguerriti e baldanzosi, promettono sfacelo Viktor Orban, con tutto il gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia Ungheria), e il nostro Matteo Salvini, affiancati da Marine Le Pen e dall’austriaco Sebastian Kurz, con tutta la corte dei vari movimenti ultraconservatori se non proprio neonazisti.
Un’armata temibile, blandita e aiutata da Putin e Trump, che hanno tutto l’interesse a indebolire, se non proprio a far crollare, l’Unione Europea. Steve Bannon, l’uomo che ha aiutato il presidente americano nella corsa alla Casa Bianca, è già all’opera con consigli e aiuti, anche economici. E non è l’unico ideologo in campo. Si dà da fare un personaggio meno noto, il russo Alexander Dugin, una sorta di Rasputin, a sua volta consigliere del gran capo di Mosca, autore della Quarta Teoria Politica, un manifesto che si va diffondendo a macchia d’olio e che propugna la fine della democrazia liberale e la morte dell’individuo come valore assoluto. Un progetto tanto confuso, con riferimenti al Dasein, l’esserci, di Martin Heidegger ed espliciti richiami “alla Tradizione e all’Eternità”, quanto pericolosamente avvincente nel mare magnum dell’ignoranza e della guerra alle presunte elite. C’è poco da stare allegri.
E’ la “Controrivoluzione”, come la chiama Jan Zielonka. L’allievo di Ralf Dahrendorf contata la disfatta del liberalismo attribuendone la colpa in buona parte proprio alla miopia delle classi dirigenti ora al tramonto. “I liberali- scrive- si sono dimostrati più abili nel puntare il dito contro gli altri che nel riflettere su se stessi. Essi dedicano più tempo a spiegare la nascita del populismo che a illuminare la caduta del liberalismo. Rifiutano di guardarsi nello specchio e riconoscere le loro insufficienze, che hanno portato alla marea populista in tutto il continente”. Siamo di fronte, avverte, a “una sconvolgente svolta ideologica” che ci porta “verso un grande ignoto”.
Un ignoto nel quale personaggi come Dugin vorrebbero spegnere il faro dell’illuminismo e fare un salto nella premodernità “intesa non come il passato ma come una struttura atemporale di principi e di valori che appartengono a un diverso universo filosofico (dove esistono l’eternità, il dio o gli dèi, angeli, anime, il diavolo, la fine del tempo e la resurrezione dei morti) ”. Vaneggiamenti, verrebbe da dire. No, perché questo è il fuoco irrazionale che cova sotto le ceneri del pensiero volterriano e progressista. D’altro canto lo stesso Dugin si vanta, lo ha fatto anche in una recente intervista televisiva, di parlare spesso con Salvini.
Questo è il contesto nel quale si combatte la guerra per l’Europa del domani. La battaglia culturale, quella più importante, sembra persa. Dopo la caduta del muro di Berlino e l’apoteosi del pensiero unico e del libero mercato, sembrava che non ci fossero più ostacoli sul cammino dello sviluppo sociale. Doveva essere “la fine della storia”.
E invece prima il terrorismo islamico, poi la crisi economica causata dall’esplosione della bolla speculativa nel 2008 e infine l’esodo biblico dai paesi in guerra o sottosviluppati hanno devastato uno scenario che dopo il 1989 veniva dipinto come idilliaco dai cantori di un capitalismo dal volto umano. La grande paura ha preso il posto della grande speranza.
Proprio sull’immigrazione, Angela Merkel ha dato il meglio di sé e nel contempo ha segnato il proprio tramonto. Era il 2015 quando aprì le frontiere a quasi un milione di profughi provenienti, via Balcani, dal Medio Oriente. “Possiamo farcela”, disse preoccupata ma ottimista. Argomentando, come ha ricordato in questi giorni Angelo Bolaffi, che “oggi, nel ventunesimo secolo, noi tedeschi siamo dinnanzi a un altro bivio: tra una coraggiosa avanzata verso un’Europa liberale e cosmopolita e una codarda ritirata verso un nuovo nazionalismo”. La seconda opzione sta prevalendo e la Cancelliera pensa di essere arrivata al capolinea. Le sconfitte in Baviera e in Assia sono state le spinte decisive.
D’altro canto, è difficile difendere un’Unione Europea che sembra sempre parlare d’altro rispetto ai veri problemi. Giulio Tremonti ha calcolato che in solo anno, proprio il 2015, la raccolta delle gazzette ufficiali emanate da Bruxelles ha raggiunto una lunghezza pari a 151 chilometri. Una miriade di regole per lo più bizzarre e insulse, dagli ascensori alle valvole termiche, dalle lumachine di mare alle banane. Poco o nulla su questioni fondamentali come la disoccupazione e l’immigrazione.
Un disastro. E l’internazionale sovranista avanza a vele spiegate. Tutti d’accordo nel voler cambiare o distruggere la Ue, salvo poi litigare per la spartizione del bottino. Torneranno i nazionalismi e le questioni di frontiera, tornerà la voglia dello scontro. E la forza delle armi, come profetizzavano, confinati a Ventotene, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Ecco il loro sogno, gli Stati Uniti d’Europa, “un saldo stato federale, il quale disponga di una forza armata al posto degli eserciti nazionali; spezzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari; abbia gli organi e i mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli”.
Vale ancora la pena di gettare il cuore oltre l’ostacolo. Anche perché stavolta non arriveranno a salvarci gli angloamericani. La Gran Bretagna è fuori e gli Stati Uniti sono ancora in stato d’ipnosi. Dobbiamo fare da soli.
Marco Cianca