Voglio anzitutto lodare la Cgil per il coraggio mostrato. In un momento di grande difficoltà, in cui accordi politici scellerati l’avevano costretta in un angolo da anni, venire fuori con questa proposta, con la sua qualità e la sua portata, non è solo un atto di grande responsabilità e civiltà, che rinnova la sua vocazione di confederazione sindacale capace di farsi portatrice dell’interesse generale. È anche un atto di grande coraggio politico perché affronta senza remore il rischio di rafforzare ulteriormente il fronte politico che da anni l’ha confinata in uno spazio angusto, di perdita di rilievo e di capacità di movimento. Il Piano riapre con decisione gli spazi e riporta la Cgil al centro del dibattito non solo sindacale, ma anche politico e culturale.
Su quest’ultimo punto voglio poi aggiungere qualcosa. Il fatto che la Cgil accompagni il Piano del lavoro con simulazioni econometriche del suo impatto su crescita e occupazione costituisce per me un altro motivo di notevole apprezzamento. Io sono stato allievo, oltre che amico e collaboratore, di Ezio Tarantelli. E dal giorno della sua tragica scomparsa sento amaramente il gravissimo danno che deriva al paese, e in particolare ai più deboli, ai poveri, agli immigrati, ai disoccupati, ai lavoratori, dal fatto che con la sua persona, da quel tragico 27 marzo del 1985, è venuto a mancare il suo progetto politico-culturale: dotare il sindacato confederale, portatore di interessi generali, degli strumenti tecnici necessari a valutare gli impatti della manovra economica del governo e a discuterla, a correggerla, a proporre misure alternative. Senza questa strumentazione, di controllo e di confronto democratico ad armi pari, lo stesso terreno del dialogo sociale si fa incerto e diseguale; e ricaccia ogni tentativo di concertazione nel limbo delle buone intenzioni, quando non nel retrobottega del sottogoverno. Se quel progetto politico-culturale non si fosse spento con Ezio, ben difficilmente l’economia italiana avrebbe attraversato il “ventennio perduto” che ci separa dal 1993: l’impoverimento prima relativo e poi assoluto del paese, la mancanza di un disegno di politica economica e di politica industriale, il paese vittima del “doppio incantesimo” microeconomico ed europeo, per cui bisognava occuparsi solo delle ragioni immediate della singola impresa e lasciare ogni visione generale e del futuro all’Unione Europea, rispetto ai cui disegni i compiti della politica nazionale erano soltanto di tardivo e spesso stupido adempimento.Con Ezio vivo e un sindacato confederale ben determinato ad un compito di vigilanza sui comportamenti degli altri due contraenti dello scambio politico, il Capitale e lo Stato, e sulle loro conseguenzein termini di benessere del paese, ben difficilmente si sarebbe consumato quello “scambio politico masochistico” che oggi ci inchioda ad una performance economica tanto deludente da compromettere una quota rilevante del nostro apparato produttivo e il futuro dei nostri giovani.
Oggi il Piano del lavoro della Cgil ci fa capire che forse i tempi sono mutati e forse, finalmente, anche il maggiore sindacato italiano ha pienamente compreso il valore cruciale di quel progetto politico-culturale e intende perciò riprenderlo dal sottoscala del progetti “politicamente sconvenienti” in cui è stato relegato, rianimarlo e servirsene per contribuire a rimettere il paese su di un binario di progresso. È bene perciò che la Cgil si renda conto che questo è un impegno vero, consistente, costoso e utile solo se duraturo, che va perseguito con fermezza anche attraverso le alterne fasi della nostra tormentata vicenda politica.
Concordo anche con la seconda indicazione di fondo del Piano, della necessità di aprire sistematicamente al dialogo sociale la dimensione territoriale, e in particolare i governi regionali, se non altro per la necessità di riconoscere appieno il nuovo impianto federalista adottato dallo stato. Parlo di dialogo sociale e non di concertazione e ancor meno di contrattazione, perché credo che la contrattazione debba rimanere circoscritta alle aziende, mentre al livello della politica spetta il compito di elaborare disegni di sviluppo condivisi, che prendano corpo in comportamenti coerenti dei partner sociali anche in assenza di qualunque contropartita finanziaria da parte dello stato. Il dialogo sociale deve trovare i propri incentivi essenzialmente nei vantaggi che derivano a tutti dall’adozione di comportamenti cooperativi e dal mantenimento di reciproci impegni convergenti al fine comune del progresso. È questa la logica di fondo di un sano “scambio politico” locale, teso a superare con comportamenti cooperativi i numerosi “dilemmi del prigioniero” di cui è disseminata la via dello sviluppo economico e sociale. Mentre la trasformazione del dialogo sociale in un luogo di “scambio economico”, in cui i comportamenti responsabili e coerenti al disegno di progresso comune degli attori siano assicurati da contropartite finanziarie a carico dell’erario costituisce una deriva tanto pericolosa e scorretta sotto il piano etico quanto insostenibile sotto quello finanziario. Il progressivo fallimento degli esperimenti di “programmazione negoziata” tanto attraverso i Contratti d’area quanto i Patti territoriali sta lì a dimostrarlo. Si dirà che quel fallimento dimostra che né le classi politiche né i partner sociali locali sono sempre all’altezza di un disegno politico-culturale di “scambio politico locale” veramente efficace. Ma il criterio dirimente mi sembra proprio quello enunciato, e cioè che il vantaggio a cooperare deve derivare per tutti gli attori dall’assunzione di comportamenti cooperativi e coerenti e non dalla dispensazione di prebende da parte dell’attore pubblico. In fondo è proprio questo ciò che differenzia un territorio che si riconosce in una comunità da uno che invece non ha altra immagine di sé se non quella di un luogo in cui convivono interessi contrapposti, per i quali la sconfitta dell’uno è la vittoria dell’altro.
Peraltro, in tema di relazioni industriali nel territorio è necessario riaffermare oggi con forza una delle conclusioni fondamentali della relazione della Commissione Giugni sul Protocollo del ’93, e cioè che la via maestra per il continuamente invocato sviluppo della contrattazione decentrata è quella dell’apertura a questo fine di terreni negoziali di livello regionale, provinciale e di distretto. Solo il livello territoriale può aprire alla contrattazione decentrata le piccole e le microimprese. Anche in questo caso, la storia degli sgravi contributivi alla contrattazione aziendale concessi dal 1997 ad oggi sta a dimostrare che questo genere di incentivi pubblici è sostanzialmente inefficace. La “politica passiva” dello sgravio è troppo lontana dai beneficiari, e non può fornire alcun vero incentivo al cambiamento; mentre corre il rischio di funzionare semmai da alibi per un ulteriore ritardo nell’affrontare i delicati e complessi problemi della riorganizzazione delle imprese e della reingegnerizzazione dei luoghi di lavoro. Solo una contrattazione locale, animata da un genuino spirito di comunità, può portare a risultati economici significativi tanto per il tessuto economico territoriale quanto per i lavoratori locali.
Un argomento non dissimile vale oggi anche per la necessaria, urgente ripresa del dialogo sociale a livello centrale. Non è più in alcun modo tollerabile la colpevole assenza di indirizzi di politica economica di non breve termine e, a maggior ragione, di politica industriale da parte di governi nazionali troppo prigionieri dell’“incantesimo europeo” per riconoscere l’assoluta necessità di autonome assunzioni di obiettivi e di responsabilità per il loro conseguimento. A questo fine, la logica del “patto tra i produttori” può e deve incalzare il governo almeno a dotarsi di un progetto coerente e organico di politica economica e industriale, di portata temporale almeno quinquennale. In questa direzione, il Piano del lavoro della Cgil costituisce indubbiamente uno stimolo e un esempio. E costituisce anche una importante mossa di apertura di un nuovo dialogo sociale animato più dallo spirito di ricostruzione della comunità nazionale e del suo futuro che da quello della rivendicazione di benefici immediati.
di Leonello Tronti