di Carlo Fabio Canapa – Segretario Confederale UIL
La legge 30 e poi, soprattutto, la sua traduzione applicativa, il decreto legislativo 276, hanno creato motivate perplessità, ma anche forti contrarietà – a volte al limite del conflitto ideologico – in tanti ambienti: da quello accademico giuslavoristico a quello sindacale, da quello politico a quello datoriale. E’ conveniente allora, nell’accingersi ad esprimere alcune pur sintetiche e frammentarie considerazioni sull’argomento, far tesoro di quanto sottolineava il professor Carlo Dell’Arringa nel suo intervento del 14 novembre e cioè che se “non si può giudicare una legge col senno di poi, si deve anche riconoscere che del senno di poi occorre far buon uso, se si vuole far tesoro di quanto i fatti stanno dimostrando”. Ed i fatti, al di là di ogni valutazione di merito, stanno dimostrando che la normativa del decreto 276 fa una grande fatica ad essere applicata.
Molteplici sono i motivi che hanno spinto e spingono in questa direzione. Intanto, il fatto che la normativa è rimasta per così dire incompleta, perché tutti i non pochi rinvii alla competenza e quindi alla “legislazione concorrente” delle Regioni non hanno ancora avuto tutte le risposte necessarie, e ciò rende inapplicabili istituti anche assolutamente rilevanti come, ad esempio, il nuovo apprendistato: proposto come l’unico istituto che consenta di realizzare un inserimento formativo nel mondo del lavoro, è divenuto ancora più importante di quanto già non fosse e la sua mancanza crea non pochi problemi.
Va sottolineato, poi, un altro elemento di difficoltà: l’ampiezza e la complessità della normativa varata. A ciò si poteva ovviare con l’attività di confronto delle parti, la cui accoglienza, peraltro, non è mai stata entusiastica, per cui nessuno si è proposto come ponte nei confronti di chi, in molti casi, opponeva veri e propri rifiuti alla trattativa. L’attività dei soggetti sociali, che avrebbero dovuto essere i protagonisti dell’applicazione del 276, è stata dunque inadeguata, e questo soprattutto per alcuni istituti, ha avuto veri e propri effetti di blocco o ha indotto conseguenze assolutamente distorsive. Ciò è avvenuto, ad esempio, quando si è concordato che il “contratto” ai suoi tempi stipulato tra le parti per i lavoratori interinali (oggi somministrati a tempo determinato) fosse automaticamente applicabile anche allo staff-leasing (oggi somministrazione a tempo indeterminato). Questo istituto, invece, per non essere rifiutato ha bisogno di veder realizzate almeno due condizioni: la prima che l’utilizzo del fondo specifico previsto dalla legge sia direttamente finalizzato alla stabilizzazione del rapporto tra agenzia e lavoratore, consentendo una continuità contributiva ed una integrazione all’indennità di disponibilità dell’agenzia nei periodi di non somministrazione; la seconda, la determinazione che il bacino dei lavoratori da utilizzare per lo staff-leasing sia individuato in termini separati ed i lavoratori non possano essere impiegati nelle missioni se non già dipendenti delle agenzie. Sono condizioni certamente determinabili per via contrattuale; sarebbe, però, più opportuno fossero specificate direttamente dalla norma. Sono, comunque, condizioni assolutamente necessarie affinché la somministrazione a tempo indeterminato sia fruibile senza arrecare pregiudizi inaccettabili ai lavoratori.
Sarà, magari, un approccio distorsivo di una parte che ha il negoziato nel proprio Dna, ma credo che il problema del rapporto tra la contrattazione e l’applicazione del 276 meriti qualche approfondimento. Innanzitutto, per capire il perché dello scarso entusiasmo che prima richiamavo, anche da parte di chi non da ora richiede innovazioni profonde del nostro ordinamento giuslavoristico, di metodo oltre che di merito; e poi, infine, per poter ipotizzare percorsi attuativi più certi e rapporti negoziali tra le parti più efficaci e produttivi.
Il perché degli scarsi entusiasmi e, aggiungo ora, della progressiva disaffezione delle parti sociali, sta soprattutto (oltre che in alcune indicazioni raggelanti di qualche circolare ministeriale di attuazione) nel fatto che l’intervento normativo sul mercato del lavoro era stato concordato, nell’ambito del cosiddetto Patto per l’Italia, come provvedimento che doveva essere contemporaneo alla redazione ed alla promulgazione dello Statuto dei lavori ed alla riforma degli ammortizzatori sociali, per generalizzarne e potenziarne la capacità di intervento.
Sembrava necessario a tutti, infatti, che alla istituzionalizzazione di nuovi lavori fosse giustapposta l’individuazione del relativo quadro di diritti e, parallelamente, che la facilitazione al ricorso del lavoro modulato e temporaneo fosse coincidente con un più qualificato sostegno della discontinuità lavorativa. Era questo, oltretutto, l’intervento coordinato auspicato nel Libro bianco da Marco Biagi, che si preoccupava di dare risposte in termini di congruità e di efficacia di sistema e, proprio per questo, facendosi carico di prospettive di modernizzazione, si preoccupava in parallelo di garantire riforme equilibrate nel rispetto degli interessi di tutte le parti sociali.
Tale orizzonte condiviso è rimasto, però, tutto nei propositi: non si è giunti alla definizione dello Statuto dei lavori, non si è varata la concordata riforma degli ammortizzatori sociali. Ciò ha reso particolarmente grave il peso sociale del 276, tanto da proporre riconsiderazioni sulla sua praticabilità. Questo, chiaramente, ha aumentato lo spessore dei problemi nell’attività negoziale delle parti relativa al 276 e ne ha reso l’attuazione ancora più lenta e problematica.
Qualche parola, peraltro, va spesa in relazione al rapporto tra contrattazione e legge 30. Per un verso, infatti, si sostiene che nel relativo decreto legislativo ci sia grande spazio per l’attività negoziale delle parti, tanto che ci sarebbero ben 43 richiami alla contrattazione: praticamente, uno ogni due articoli; per altro verso, invece, si evidenzia come la quasi totalità di questi rinvii non sia, di fatto, essenziale all’applicazione della norma stessa, per cui il loro valore finisce con l’essere più formale che sostanziale. C’è addirittura, poi, chi pensa che l’accordo delle parti avrebbe dovuto essere condizione dell’applicazione delle varie norme; ma, sinceramente, sembra quasi come immaginare che l’entrata in vigore del codice della strada dovesse dipendere dal convenire delle varie polizie con gli utenti della strada.
Sembra, però, che il problema sia posto in modo oggettivamente non corretto: il richiamo alla contrattazione va bene, perché è un esplicito riconoscimento del ruolo centrale delle parti coinvolte; ma una contrattazione “necessitata” diverrebbe una contrattazione obbligata e questo, allo stato dei fatti, è assolutamente inaccettabile. E va soggiunto, soprattutto, come il negoziato sui modi di applicare una normativa sia possibile indipendentemente da qualunque non necessaria prescrizione di legge: dipende dalla volontà delle parti, la cui iniziativa, peraltro, tante volte la legislazione l’ha indotta e non l’ha subita. Se dunque c’è stato, oggi, un difetto di accordi applicativi specifici, lo si deve alle volontà non proprio univoche dei diversi protagonisti, non alla inadeguatezza, in questo campo, della previsione legislativa. Di tutto ciò si potrebbe anche – e con qualche facilità – approfondire le diverse ragioni, ma si rischierebbe ben presto per parlare di altro, e non sarebbe, ora, né utile né corretto.
Sempre rispetto al tema della contrattazione, però, c’è un altro spunto di qualche interesse e riguarda il part-time: secondo la Uil, l’intervento forse più controverso operato dal 276. C’è una asserzione in quegli articoli – basata su una sentenza della Corte costituzionale che evidenzia come la potestà di decidere il proprio tempo di vita sia essenzialmente personale – per cui la scelta del lavoratore è prevalente sugli accordi collettivi. Un approccio desueto, ma assolutamente ineccepibile. Se però, in materia di tempi di vita, la libertà personale è assolutamente determinante, come è possibile che un lavoratore che ha accettato la “clausola elastica” poi, non possa cambiare opinione, anche se le sue condizioni di vita mutano oggettivamente?
Il part-time, così, risulterebbe un rapporto di lavoro completamente subìto. Una prospettiva, questa, francamente inaccettabile per un istituto che si propone di dare risposte contemporaneamente positive alle necessità di articolazione dell’attività produttiva e, insieme, alle esigenze di organizzazione di vita del lavoratore.
Si potrebbe così continuare, proseguendo nell’analisi del caso singolo, con le varie proposte di correzione necessarie a rendere più equilibrato ed efficace un intervento dovuto sulla legislazione giuslavoristica, utile anche a sostenere nuove prospettive economiche e sociali. E’ un percorso, questo, che però va costruito nel coinvolgimento diretto di tutte le parti interessate. E’ solo utile, ora, come sottolineatura unilaterale degli obiettivi da perseguire, richiamare alcuni sintetici postulati: che il costo diretto ed indiretto del lavoro sia uguale per tutte le tipologie, così da determinare occasioni organizzative e non vantaggi economici; che la valutazione delle opzioni organizzative medesime sia condivisa tra le parti; che in parallelo cominci a funzionare, come sistema coerente, il rapporto tra collocamento, formazione ed ammortizzatori sociali, riformati e potenziati.
E’ in tal modo che sarà possibile rispondere con nuove tutele ai nuovi lavori. Sarà però opportuno limitarsi a proporre quelli realmente necessari, perché una prospettiva di vita non si costruisce su opportunità sempre occasionali.
























