Tutta colpa di Craxi. O, quanto meno, della Milano da bere e dell’Italia rampante dei suoi tempi. No, non è un tentativo di buttare la palla in tribuna, scaricando colpe e responsabilità sulla politica di mezzo secolo fa. Ma Craxi è un pezzo importante della risposta alla domanda cruciale dell’Italia attuale: perché il paese non cresce?
Dagli anni ‘90, l’Italia è un paese, di fatto, a sviluppo zero. Il nostro reddito individuale e quello complessivo del paese sono rimasti, sostanzialmente, quelli di trent’anni fa. E’ l’unico caso in Europa. Gli altri sono cresciuti, in questi anni, anche del 20-30 per cento. Noi, negli anni buoni andiamo avanti dello 0,5-1 per cento, che ci giochiamo l’anno successivo. Perché? La risposta standard è che ristagna il fattore cruciale dello sviluppo: la produttività. E, infatti, anche le statistiche della produttività ci dicono “zero virgola”, come per la marcia del Pil. La produttività, tuttavia, non nasce dal nulla. E’ il risultato di investimenti. Nel mondo di oggi, nuovi macchinari, ma, ancor più, informatica, ricerca & sviluppo, innovazione. Tutte cose per cui ci muoviamo a rilento, rispetto agli altri paesi.
La differenza, fra noi e gli altri, tuttavia, è, in buona misura, sugli incentivi e gli stimoli che la mano pubblica è in grado di fornire agli investimenti, pompando risorse nell’economia. Ed è qui che viene fuori Craxi. Perché a serrare i cordoni della finanza pubblica è soprattutto la necessità di far fronte alla montagna del debito. E questo debito è figlio della politica degli anni ‘80.
Nel 1970, con i governi di Rumor e Colombo, il debito pubblico arrivava al 37 per cento del Pil. Nel 1980 (governo Cossiga) supera il 56 per cento. Ma, nel 1985 (governo Craxi) ha già scavalcato l’80 per cento, fino a sfondare il 105 per cento con il governo Andreotti del 1992, l’ultimo prima di Tangentopoli. Negli anni successivi, il debito pubblico continua, in realtà, ad aumentare (tornerà sotto il 100 per cento solo, brevemente, con l’ultimo governo Prodi, nel 2007, prima del tracollo Berlusconi). Ma il meccanismo che lo gonfia e lo porta oggi oltre il 140 per cento non è più la prodigalità della mano pubblica, ma l’ingranaggio che porta al fallimento le aziende private: lo stragolamento determinato dall’accumulo degli interessi.
Un economista della Cattolica, Marco Fortis, ha provato a scorporare la marea degli interessi dal crescere del debito vero e proprio. Ne risulta, a sorpresa, che non siamo affatto i reprobi della Ue. Anzi, siamo campioni di virtù, alla faccia di tutti gli iettatori d’Europa: “un paese modello” dice Fortis. Fra il 1996 e il 2023, infatti, il debito pubblico – al netto degli interessi – è aumentato, in cifra assoluta, di 12 mila miliardi di euro negli Stati Uniti, una economica extralarge. Ma anche di 1.107 miliardi di euro in Francia, di 570 miliardi in Spagna e – sorpresa – anche di 95 miliardi di euro fra i campioni della penitenza finanziaria, cioè i tedeschi. Ecco i soldi pompati nelle rispettive economie. E l’Italia? Noi siamo gli unici ad avere ridotto, nell’arco di quasi trent’anni, il debito pubblico netto: meno 317 miliardi. Sono le risorse che sono mancate al nostro sviluppo. Ci hanno rovinato gli interessi che si sono aggiunti a gravare sul totale.
Questo non vuol dire, purtroppo, che il debito pubblico non conti. Gli interessi su quella montagna di debito accumulata negli anni ‘80, infatti, si pagano comunque. Ma significa che il nostro debito, che fa scandalo in Europa, non è frutto di una trentennale gestione dissennata delle finanze pubbliche che gonfia all’infinito il debito precedente. Perché esiste, per parafrasare Mario Draghi, un debito “buono” (quello che serve per gli investimenti), un debito “cattivo” (quello della spesa pubblica improduttiva), ma anche un debito “coatto” (quello che si accende per pagare gli interessi sul debito precedente).
L’Italia inaffidabile e spendacciona per natura, che così spesso campeggia sui tabloid tedeschi, è, dunque, una leggenda metropolitana: questo dicono i numeri. E non può essere un alibi per bloccare progressi nell’integrazione finanziaria europea, come l’emissione di bond comuni a responsabilità condivisa, cruciali per accrescere la competitività della Ue. Abbiamo già dimostrato di meritare la fiducia che chiediamo agli altri.
Maurizio Ricci