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Meloni e l’economia, il “miracolo” che non c’è mai stato

Maurizio Ricci
Settembre13/ 2023

I conti alla fine si pagano. Con un trucco da vecchia Dc, il governo aveva varato una misura popolare e richiesta da tutti, come il taglio al cuneo fiscale sugli stipendi,  limitandola, però, a una manciata di mesi del 2023, così da nasconderne il peso sul bilancio. Ma mettere le mani dentro la busta paga è ancora peggio  che giocare a nascondino con il Superbonus o il prezzo della benzina. L’idea che, sotto Natale, quando già il promesso intervento a rimpolpare le tredicesime si sta facendo evanescente, si debba annunciare anche che il cuneo fiscale torna quello di prima e i lavoratori devono rinunciare, in media, a 100 euro al mese non viene presa neppure in considerazione. Dirlo, però, non è come farlo:  il conto annuo del minor cuneo è (al netto delle tasse) di 8,5 miliardi di euro, una zavorra che si fatica a sostenere, senza intraprendere l’improbabile percorso di allargare, con l’Europa, le maglie del deficit di bilancio.

Di fatto, quel cuneo vale un terzo di tutta la manovra finanziaria 2024, stimata in 25-30 miliardi, solo per fare l’indispensabile. Il problema è che questi miliardi non ci sono e non si sa dove pescarli: al massimo, per ora, si arriva a metà, ovvero il cuneo e spiccioli. Troppo poco a neanche un anno dalle promesse elettorali dello scorso settembre. E la diabolica tentazione diventa di ripetere il trucchetto democristiano: una manovra più corposa, ma a tempo, con l’intesa di rimettere le mani alla finanza pubblica, fra un po’ di mesi. Una manovrina di austerità in corso d’opera, insomma, come si è fatto altre volte. Solo che, stavolta, l’annuncio “stringete la cinghia” arriverebbe in tarda primavera, a ridosso (orrore!) delle elezioni europee, da cui Giorgia Meloni si aspetta una consacrazione, non la rivolta. Se qualcuno ha provato a proporre qualcosa del genere a Palazzo Chigi, deve essere stato cacciato a pedate.

Ma il problema è lì e non è aggirabile. A tradire Meloni e compagni è, infatti, l’economia: mentre il governo si attardava, da Pasqua in poi,  a magnificare il ritmo da record dell’economia italiana, la macchina, nelle stesse settimane di inizio primavera, cominciava a battere in testa, a rallentare, a non rispondere più ai colpi di acceleratore. In effetti, spie del motore che si ingrippa non mancano: per un paese che esporta, il rallentamento della locomotiva tedesca, come di quella cinese è una campana a morto; l’inflazione ha scavato nei portafogli dei consumatori, razionando le spese; piano piano, la stretta monetaria della Bce sta erodendo la capacità di indebitarsi di famiglie e imprese. Questi segnali, tuttavia, si inseriscono in un fenomeno più profondo: l’esaurirsi della ventata di vitalità che, nel post-pandemia, aveva investito l’economia italiana, sottraendola, per una volta, al tran tran in cui ristagna almeno dagli anni ‘90.

Il punto è  che non è mai esistito, nell’economia italiana, nonostante le veline di Palazzo Chigi, un miracolo Meloni. Il governo ha, piuttosto, trionfalmente galleggiato sulle ultime onde del miracolo vero, e precedente: il miracolo Draghi. Dove, più che sulle scelte di politica economica, conta il clima che, nei mesi dell’ex presidente della Bce al governo, si era creato nel paese. Quasi un clima di euforia, testimoniato dal vero motore di quel miracolo: gli investimenti e, in particolare, non gli investimenti pubblici, ma quelli privati, l’ossigeno che, da sempre, manca all’economia del paese. Siamo stati testimoni di un boom: nel 2021, gli investimenti privati esplodono, con un aumento del 18,6 per cento rispetto all’anno precedente. Che è l’anno del Covid e dei lockdown, certo, ma, nel 2022, gli investimenti crescono ancora del 9,7 per cento. A fare i conti, metà di tutto il (consistente) aumento del Pil, quell’anno, è dovuto agli investimenti, un circolo virtuoso, raro nel nostro paese. Poi, la spinta si spegne: nel 2023, gli investimenti non cresceranno più del 3 per cento. E, per il 2024, dicono le previsioni, rassegnamoci allo stop puro e semplice. Zero, miracolo finito.

Ecco perché il sentiero dei prossimi mesi si fa strettissimo e il governo è chiamato a percorrerlo in punta di piedi. Il ridimensionamento delle previsioni di crescita 2024, dal trionfante 1,5 per cento stimato dal Tesoro in primavera, allo 0,9 di cui si parla ora, in sè, non è sorprendente. E’ la velocità di crociera abituale dell’economia italiana: negli ultimi venti anni prima della pandemia, solo una volta siamo arrivati al 2 per cento, per sei volte abbiamo superato l’1 per cento. Tutti gli altri anni siamo stati sotto l’1 per cento. Quello che rende la situazione molto scivolosa, però, è la composizione della crescita del 2024. Di quello 0,9 per cento in più, quasi tutto (lo 0,8 per cento nelle stime del Tesoro) risale ad un elemento solo: la spinta propulsiva del Pnrr, il piano reso possibile dai soldi dell’Europa. Senza quei soldi, la capacità di farseli dare e di spenderli, l’Italia, l’anno prossimo, si fermerebbe. Mai come nei prossimi mesi, l’andamento dell’economia italiana si deciderà a Bruxelles. Maneggiare con cura, viene da suggerire al governo.

Maurizio Ricci

Maurizio Ricci

Giornalista