Se vogliamo, Putin è in trappola. Però, anche l’Europa finisce in trappola. La trappola è, simmetricamente, la stessa, ma scatterebbe in tempi e modi diversi. Putin non può uscirne e lo strangolerà sempre di più, man mano che il tempo passa. Tuttavia, la trappola non scatta subito. Diciamo fra 12-18 mesi. Che è esattamente il tempo in cui resterebbe in trappola l’Europa, per uscirne, fra un anno o poco più, ammaccata, ma libera dall’orso russo.
Sembra molto complicato, ma non lo è. E’ quello che dicono le cifre, frutto inevitabile della logica e delle omissioni con cui sono state congegnate le sanzioni contro l’invasione dell’Ucraina. A sei settimane dal lancio di sanzioni internazionali, fra le più dure della storia, infatti, le finanze di Mosca, a guardare i conti, vanno splendidamente. La banca centrale russa segnala che le partite correnti con l’estero (in buona sostanza, la differenza fra import ed export) registrano un attivo record. Ecco perché avevamo visto il rublo assorbire tutte le sue perdite e recuperare la situazione anteguerra. Gli esperti calcolano che, entro il 2022, le casse russe avranno accumulato 250 miliardi di dollari, più o meno quanto le riserve che, un mese e mezzo fa, l’Occidente ha clamorosamente congelato fuori dalla Russia. Non c’è nessun mistero. Le sanzioni impediscono ai russi di comprare all’estero alcunchè, per cui le importazioni sono crollate. Ma non hanno fermato i flussi in entrata delle esportazioni di gas e petrolio, in particolare verso l’Europa.
E’ un successo del tutto apparente. E’ frutto del blocco delle importazioni, del boom dei tassi di interesse e della camicia di forza in cui è stata costretta l’economia e sta dissanguando il paese. Quest’anno, il Pil crollerà fra l’11 e il 15 per cento, quasi 100 mila lavoratori più qualificati (informatici ecc.) sono scappati all’estero, insieme a 70 miliardi di dollari di capitali stranieri. Soprattutto, nel giro di un paio d’anni, la Russia perderà quei clienti che, in questo momento, la stanno coprendo di dollari, perché difficilmente l’Europa tornerà indietro sull’impegno di rinunciare al gas russo e Putin si troverà con un mucchio di metano che non saprà dove smerciare, perché altri potenziali clienti sono lontani e i gasdotti non camminano.
Insomma, Putin ha lanciato il paese verso il disastro, condannandolo ad anni durissimi. In democrazia, sarebbe già stato buttato fuori dal Cremlino. E, forse, anche in un qualsiasi paese non democratico, ma con una articolazione fra diversi centri di potere. La Russia di oggi, però, è una autocrazia blindata, in cui il potere si riassume in un uomo solo e la macchina della propaganda gli consente di tenere a bada il malcontento, soffiando sull’orgoglio nazionalista. Per ora, quei 250 miliardi di dollari, del resto, gli consentono di pagare gli statali, le pensioni e, soprattutto, di finanziare, alla faccia delle sanzioni, la guerra a cui ha affidato l’ultima occasione che un vecchio ha di restaurare l’impero zarista. Il conto da pagare, dunque, rischia di arrivare fuori tempo massimo.
A meno che l’Europa non gli tagli i viveri subito, bloccando le sue esportazioni di petrolio e gas. E infilandosi, appunto, nella trappola. Perché, senza il metano di Putin, con una economia in frenata e una inflazione galoppante, è dura. Non per tutti allo stesso modo: fra i grandi paesi, a dipendere di più (rispettivamente 40 e 50 per cento) da Gazprom sono Italia e Germania. E non all’infinito: in buona sostanza, al contrario dei russi, qui si tratta solo di scavallare il prossimo inverno. Fra Algeria, Egitto, Congo, Mozambico, Qatar, Nigeria, Azerbaigian, Stati Uniti, Adriatico nostrano, rinnovabili e qualche anno di carbone in più, dal 2023-24 l’Italia dovrebbe essere in grado di fare del tutto a meno di Gazprom. Più o meno, lo stesso calendario avrebbe la Germania. E, da quel momento in poi, tocca ai russi arrangiarsi.
Ma è possibile questo calcio nel sedere a Putin? E quanto costa una rinuncia immediata al metano russo? Non poco, in termini di Pil e di occupazione, soprattutto se confrontato con le attese sfumate di una ripresa rombante post-pandemia. Valutarlo dipende da quanto gas russo non si riuscirebbe a sostituire entro il prossimo inverno. Potete, dunque, anche voi provare a calcolare l’impatto di un embargo contro Gazprom, sulla base delle notizie su accordi sostitutivi.
Gli economisti tedeschi hanno immaginato che la quota di gas russo che Germania e Italia non riuscirebbero a rimpiazzare entro il prossimo inverno sarebbe il 30 per cento. Per la Germania, vorrebbe dire recessione, anche se blanda. L’economia tedesca dovrebbe crescere, nel 2022, dell’1,8 per cento, senza quei metri cubi di Gazprom perderebbe due punti e il Pil, alla fine, risulterebbe in discesa dello 0,2 per cento. All’Italia andrebbe meno peggio: crescita stimata al 2,9 per cento, con 10 miliardi metri cubi in meno (il 30 per cento non sostituito dei 30 miliardi di Gazprom) e inevitabili razionamenti, si perderebbero 2,2 punti. L’Italia non andrebbe in recessione, ma la crescita sarebbe limitata allo 0,7 per cento. Più o meno, è lo stesso scenario tratteggiato nel Def appena approvato dal governo.
La Banca d’Italia, nel suo ultimo Bollettino, ne propone, invece, uno più pessimista (o, forse, solo meno a giorno di accordi alternativi) e immagina che l’Italia riesca a sostituire soltanto 12 dei 30 miliardi di metri cubi che, abitualmente, arrivano dalla Russia. In questo caso, con un buco di 18 miliardi di metri cubi, anche l’Italia andrebbe in recessione e il Pil si ridurrebbe dello 0,5 per cento sia quest’anno che il prossimo.
Non è un crollo, ma, per un paese che sta appena uscendo dallo choc della pandemia, è più di una doccia fredda e, forse, un addio al treno che, con il piano di rilancio finanziato dall’Europa, dovrebbe rimetterci al passo delle altre grandi economie. In una situazione fluida, sia sul piano economico che militare, come quella attuale, tuttavia, le previsioni sono poco più che tentativi al buio. Più di un economista, ad esempio, è convinto che, ai prezzi record europei attuali, una quota significativa del gas tradizionalmente diretto verso Corea o Giappone possa essere dirottato verso l’Europa, tanto più che, in Asia, una sua sostituzione con il carbone è più agevole. Parallelamente, questi stessi prezzi-record possono generare forme di razionamento spontaneo della domanda, diminuendo il fabbisogno e, dunque, il buco. Infine, c’è molto in ballo in Europa in queste settimane, come ai tempi della pandemia. Un intervento straordinario di Bruxelles a sostegno delle economie più colpite da un eventuale embargo non fa parte delle ipotesi impossibili.
Maurizio Ricci