di Aldo Amoretti – Presidente Inca Cgil
Con il convegno svolto al Cnel il 29 novembre il Diario del Lavoro ha opportunamente riproposto all’ordine del giorno la tematica delle collaborazioni. Di lì a poco (3 dicembre) c’è stato l’accordo per il rinnovo del contratto nazionale delle telecomunicazioni. I due eventi suggeriscono qualche considerazione intorno alla materia, ed al contendere in corso, anche alla luce della sua storia, non priva di contraddizioni, nel comportamento delle organizzazioni sindacali e della stessa Cgil.
Per un lungo periodo, anche intrecciato con il tentativo di fare una legge nota con il nome di Smuraglia, si è tentato di identificare il fenomeno per circoscriverlo a rapporti che non avessero il carattere della subordinazione tradizionalmente tipica del lavoro dipendente. Tuttavia, se ne è avuta una estensione davvero patologica soprattutto da quando questi rapporti sono stati assoggettati a contributi Inps, perché questa scelta è stata vissuta come legittimazione del fenomeno. Ciò anche nella prestazione più fordista che ci sia: quella dei call center. Circoscrivere il fenomeno avrebbe giustificato una sua regolamentazione “leggera”, in quanto più assimilabile al lavoro professionale autonomo piuttosto che a quello dipendente.
Un primo tentativo di affrontare il problema con lo strumento contrattuale si fece nel settore del commercio intorno al 1997/98. La cosa non ebbe esito per tante ragioni e difficoltà di merito. La più singolare e contraddittoria di tutte fu la tesi del sindacato di categoria della Cisl: meglio aspettare la legge. Nel giugno 2002, al direttivo Cgil, si cambia linea: i co.co.co devono diventare uguali ai dipendenti in quanto a diritti e retribuzione. La novità viene presentata come lo scatto di una organizzazione che finalmente trova la via giusta ed esclude le mezze misure. In realtà si prende atto della sconfitta della linea precedente, non lo si ammette, ma si confonde il tutto con una “linea più avanzata”. Dal momento che non si ottiene il poco si proclama di volere il molto. Intanto prosegue l’azione meritoria di Nidil, che tuttavia fatica ad affermarsi, anche per la oggettiva concorrenza con le categorie, nei riguardi delle quali si approda all’idea della “copromozione”, che sembra la chiave risolutiva ma che in realtà non risolve.
In questa situazione interviene la proposta che poi è diventata legge 30, “annacquata” poi dello stesso ministro del Lavoro con decreti e circolari successivi. Per quanto non si sia ancora detto tutto il male possibile su questa legge, soprattutto per il part time, l’approccio relativo ai co.co.co. era a mio parere da prendere, sfidando il Governo a fare sul serio. La tesi esposta dal solito Sacconi era, più o meno: la gran parte dei co.co.co. sono rapporti subordinati mascherati, occorre fare pulizia ottenendo che quelli finti si trasformino in rapporti di lavoro dipendente a tempo indeterminato, ed evolvendo quelli genuini in contratti di collaborazione a progetto. Ma non si è voluto distinguere nulla. La legge 30 era da demonizzare in toto. Non sostengo che bisognasse fidarsi del Governo, ma che era il caso di prenderlo in parola e fare nostra questa linea, attrezzandosi per sostenerla con le lotte degli interessati e l’appoggio di tutti gli altri. E’ evidente la difficoltà di una tale condotta, ma non mi risulta che ce ne siano di facili quando si affrontano obiettivi rilevanti.
Al congresso di Nidil dell’ottobre 2004 si è messo in evidenza come le categorie dei lavoratori attivi non traducono la linea della Cgil in piattaforme ma anzi, salvo eccezioni encomiabili, si sta alla larga dal problema.
Il fatto è che la linea di fare i co.co.co. (tutti) uguali agli altri non è plausibile, e allora non ci si prova neanche. Quando l’asticella è troppo alta non si prova neanche a fare il salto. Chi si imbarcasse in una trattativa con i padroni sa che se vuole portarla a conclusione deve condividere differenze e perfino imbrogli, cioè far passare mestieri, professioni, qualifiche tipiche del lavoro dipendente per finti co.co.pro., oppure per finti apprendisti senza neppure garanzie per fine corsa, come è effettivamente successo.
Nel caso dei call center si ha l’imbroglio più grave, perché non esiste un lavoro più fordista di quello. Una linea plausibile era riconoscere che, pur essendo un lavoro fatto da laureati, è un lavoro povero, e trovare la via di fare un contratto specifico per loro, meno costoso che per gli altri telefonici. Oppure, dentro il contratto di tutti i telefonici trovare una soluzione economica meno onerosa, ma che avrebbe dato il risultato che questi lavoratori erano uguali agli altri dal punto di vista dei diritti seppure con una retribuzione inferiore. Ma per fare una cosa del genere bisognava prendersi una responsabilità enorme. Si è preferito non farlo e il risultato è meno diritti, meno soldi, meno contributi Inps per la pensione.
L’esempio più clamoroso di questa condotta sindacale è l’accordo Atesia del 24 maggio 2004. Con tale accordo è sconfitta la manovra aziendale che mirava a trasformare i rapporti di lavoro co.co.co. in somministrazione a tempo indeterminato. E’ dubbio che le soluzioni adottate siano meglio di quella proposta inizialmente dall’azienda. La somministrazione a tempo indeterminato, pure con tutte le sue controindicazioni, avrebbe avuto il pregio di implicare l’applicazione del contratto nazionale di lavoro della categoria ed il totale pagamento dei contributi all’ Inps. Allora come si può sostenere che siano migliori i contratti di apprendistato o i contratti di inserimento? Trattandosi di soggetti già professionalizzati il ripassare da rapporti a finalità formativa “che verranno stipulati alle condizioni e nei modi necessari per consentire l’accesso ai benefici di legge” è una forzatura evidente delle norme. Nello svolgimento del lavoro non si capisce quale sarà il rapporto tra quanti in apprendimento e quanti in qualifica addetti a formarli, ma neppure si capisce cosa succederà a fine corsa. La legge 30 esclude qualsiasi vincolo alla trasformazione del rapporto in assunzione a tempo indeterminato, né il contratto dice nulla di più. Abbiamo poi visto quali contrasti sono insorti nelle fasi di applicazione dell’accordo medesimo.
A questo mio ragionamento è stata contrapposta una tesi risolutiva: lo staff-leasing è la proposta della Cisl. Resto dell’opinione che anche la Cisl possa occasionalmente fare cose buone. Questa poteva essere buona, specialmente se associata alla possibilità di una trattativa con utilizzatori e agenzie per garanzie di mobilità da un utilizzatore all’altro, con in mezzo ammortizzatori sociali, formazione e contributi figurativi. Ci sono anche precedenti assimilabili in settori meno nobili e tuttavia diffusi ed a consolidata esperienza contrattuale: nel mondo delle imprese di pulimento chi vince un appalto si assume i lavoratori lasciati a piedi dal precedente appaltatore.
Le discussioni intorno a questa problematica hanno prodotto una novità anche teorica, nata negli ambienti della consulta giuridica Cgil, poco dibattuta nei suoi significati e possibili conseguenze ma che è diventata una delle tesi proposte al XV congresso Cgil. Al punto 1.4 della tesi n.5 (Un’occupazione solida e stabile) si parla di “nuovo patto di cittadinanza” così definito: “Un patto che abbia come cardine il nuovo concetto di lavoro economicamente dipendente con la conseguente estensione dei diritti (e dei costi) attribuiti oggi al lavoro subordinato a tutte le fattispecie economicamente dipendenti dell’impresa (a partire dalle collaborazioni), concetto alla base della proposta di legge d’iniziativa popolare su cui la Cgil ha raccolto oltre 5 milioni di firme”. E’ lecito domandarsi quali possano essere gli effetti di una tale novità.
Intanto, il 3 dicembre, tra i sindacati della categoria e Assotelecomunicazioni-ASSTE si è rinnovato il contratto delle telecomunicazioni. A mio parere una buona soluzione per le cose che affronta, ma non dice una parola sul fenomeno dei contratti di collaborazione. Cosa vuol dire? Che sono esclusi? Oppure che seguiteranno ad esistere tra le aziende ed ogni singolo lavoratore? Vedremo. Intanto si cominciano a vedere sentenze come quella di Torino (maggio 2005), secondo la quale non è il nome attribuito al contratto dalle parti a prevalere, ma il comportamento di fatto (Il Sole 24 Ore del 18/05/2005). Alla sentenza che ha riconosciuto il carattere subordinato del rapporto si è pervenuti anche con l’inversione dell’onere della prova.
Rimane poi non risolto un problema soprattutto interno alle organizzazioni sindacali, ed è la contesa tra i sindacati delle comunicazioni, quelli del commercio e perfino i metalmeccanici intorno alla questione di chi rappresenti questi lavoratori. E’ questione che contrappone anche Confindustria e Confcommercio.
E’ tutta materia che meriterebbe qualche considerazione fuori da ogni partito preso, anche alla luce di due altri fenomeni che interagiscono:
Le nuove norme sulle associazioni in partecipazione, che rischiano di seguire le orme dei co.co.co.;
Il fatto che le collaborazioni sono dilagate nella pubblica amministrazione.
Una inchiesta della Funzione pubblica CGIL di Brescia dell’anno passato denuncia come la quota di rapporti di lavoro precari nelle pubbliche amministrazioni abbia raggiunto dimensioni sconcertanti. L’esclusione delle pubbliche amministrazioni dalla legge 30 serve a confermare questo stato di cose, mitigate appena da qualche accordo che ottiene una quota di diritti e mette il timbro sindacale sul trucco.
E poi ci dichiariamo contrari alla gradualità nella emersione dal lavoro nero.
C’è da augurarsi qualche novità.
























