La questione del “sindacato dei poveri” molto opportunamente è stata al centro, nei giorni scorsi, di una serie di interviste e di interventi del “Diario del lavoro”. La questione in effetti è davvero centrale. Ma non si tratta solo di un problema terribile che riguarda tante persone e tante famiglie. Da un punto di vista politico e sindacale questa prospettiva può anche essere un’opportunità.
Lo sappiamo bene, lo vediamo con i nostri occhi: uno degli effetti della pandemia è l’impoverimento di tante persone. Sono persone in carne e ossa, ciascuna con un volto, ciascuna con una storia. Se vogliamo possiamo poi inserire queste persone in determinate categorie professionali: quelle più colpite dai provvedimenti presi per arginare la pandemia.
È inutile ripetere quali sono queste categorie, perché ben le conosciamo. Nei loro confronti, nei confronti di queste persone in carne e ossa, è stata data però un’unica risposta: sono stati promessi e in parte erogati sussidi che le aiutassero a resistere nell’emergenza. Si tratta di una risposta insufficiente. E questo per vari motivi, alcuni di carattere contingente, altri più strutturali. I sussidi sono arrivati spesso in ritardo, o non sono arrivati affatto, o sono stati insufficienti. Ma soprattutto si è trattata di una risposta tampone. Non è stata strutturale. Non è servita e non serve a rilanciare l’economia per quando l’emergenza sarà finita. Non sono investimenti per il dopo. Tutti abbiamo paura di pensare a che cosa accadrà a livello sociale quando finirà il divieto dei licenziamenti. Già ora, secondo i dati INPS appena diffusi, sono andati persi in un anno 622.000 posti di lavoro.
Si tratta di una situazione certamente dirompente. Ma che può offrire anche opportunità ben precise. Si tratta di opportunità che bisogna cercare di cogliere. E ciò non avviene se si continua a pensare in maniera vecchia, come fanno tuttora certe forze politiche e sociali: ad esempio facendo silenziosamente solo gli interessi di alcuni, oppure rivendicando a gran voce le esigenze della parte che rappresentano, o ancora promettendo e cercando di dare tutto a tutti. Tanto poi a pagare saranno altri.
Invece la vera occasione è quella di ripensare le questioni più importanti. Di ripensare ad esempio, come ben viene detto nell’intervista di Cianca a Cazzola, lo stesso ruolo del sindacato. Un modo, tanto più in questa situazione, è di non considerarlo solo il rappresentante di chi è stato e di chi continua a essere tutelato. Al contrario: l’occasione è quella, per il sindacato, di trasformarsi nella voce proprio di chi non ha voce, di chi non è tutelato, come è stato nei momenti decisivi della sua storia. Questo sarebbe il compito del “sindacato dei poveri” di cui parla Benaglia.
E l’altra opportunità, poi, potrebbe essere quella di ripensare davvero, e nelle sue prospettive di fondo, i modi in cui il lavoro viene oggi concepito e organizzato. Non è possibile che, in assenza di alternative, si ripropongano forme di monopolio e di sfruttamento che lasciano spazio solo, come reazioni, o all’acquiescenza o alla rabbia. La rabbia, in questa situazione, rischia davvero di esplodere, con le conseguenze imprevedibili che nella storia ha sempre comportato. Sarebbe saggezza politica operare con urgenza per non giungere a certi estremi.
Adriano Fabris