Il ministro del lavoro ha annunciato formalmente al convegno di Parma della Confindustria che il governo cambierà lo statuto dei lavoratori e lo farà nel giro di qualche settimana, mesi al più. Non è una novità, del resto. Da tempo si va parlando dell’opportunità di rimettere dopo quarant’anni le mani sulla legge 300, della necessità di allargare l’ombrello statuto dai lavoratori ai lavori per farvi rientrare non solo i lavoratori dipendenti, ma tutto il lavoro, anche quello autonomo.
Appunto, una necessità, perché quattro decenni sono davvero tanti, il contesto economico e sociale non è più quello, è cambiato tutto, e la legislazione deve essere lo specchio della società che si trasforma, non può essere ferma a un’immagine che col tempo diventa sfocata e non rappresenta più la realtà. La contrattazione, proprio con il suo divenire, modifica continuamente il diritto del lavoro, cambia e aggiorna diritti e doveri nel mondo del lavoro, ma da sola non è sufficiente, specie con un corpo giuridico così importante come lo statuto dei lavoratori, che cambiò radicalmente la legislazione lavoristica.
Il pericolo è che con questa innovazione le fratture dolorose che hanno attraversato e ancora attraversano il mondo del lavoro si aggravino invece di attenuarsi. In realtà negli ultimi tempi si sono fatti più concreti i segnali di un possibile disgelo nei rapporti tra le confederazioni sindacali. A pesare positivamente non è solo la felice stagione contrattuale, che ha sventato il pericolo di un numero infinito di accordi separati dopo il grande disaccordo sulle regole stabilite nel gennaio dello scorso anno. In questi ultimi tempi si sono moltiplicati i messaggi distensivi, le promesse di un riavvicinamento, le indicazioni delle strade che sarebbe possibile seguire per superare alcune divergenze. Segnali, certamente, ma tali da far sperare che la nottata forse non è ancora passata, ma magari trascorsa nella sua gran parte e si possa quindi riprendere a pensare a un futuro unitario.
Segnali timidi però, debolissimi. Tali da credere che sparirebbero immediatamente in presenza di un nuovo braccio di ferro tra l’esecutivo e il mondo del lavoro. Rimettere le mani sullo statuto dei lavoratori significa infatti riformulare tutele e diritti fondamentali per il mondo del lavoro ed è da credere che un’operazione del genere non passerebbe incruentamente. E del resto le prime reazioni da parte della Cgil non lasciano sperare nulla di buono.
Potrebbe scoppiare una nuova guerra e sarebbe la iattura peggiore, perché il paese in questo momento ha bisogno di tutt’altro, è indispensabile una forte coesione sociale che consenta all’economia quel salto di qualità che ci faccia reggere la competizione mondiale del dopo crisi, ancora più forte e agguerrita di quanto non fosse prima.
Il problema è tutto qui, nel saper conciliare l’esigenza di nuove norme, più adatte alla realtà economica e produttiva degli anni che stiamo vivendo, con quella di non guastare il clima sociale, già abbastanza deteriorato per conto suo. Le energie che abbiamo a nostra disposizione per riprendere lo sviluppo a un ritmo non inferiore a quello degli altri paesi nostri concorrenti, quelli europei per non parlare del resto del mondo, sono poche, forse insufficienti. Se le riduciamo ancora minando la coesione sociale, rischiamo di non farcela e cadere in quel declino che sta sempre dietro l’angolo.
E’ un sentiero sottile, difficile da percorrere, ma obbligato per cogliere l’obiettivo della modernizzazione della legislazione e farlo tutti assieme.
Certamente il prossimo congresso della Cgil rappresenterà l’occasione giusta per una nuova partenza dei rapporti unitari, perché dopo la scontata riaffermazione dell’unità interna, sancita dalla clamorosa vittoria delle tesi del segretario generale, può venire il momento dell’unità col tutto il resto del sindacato. I congressi del resto servono proprio a questo, a guardare lontano, a tracciare gli obiettivi di fondo e le strategie di massima per riuscire a coglierli.
Massimo Mascini