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Home - Rubriche - Poveri e ricchi - Perché sui vaccini America batte Europa

Perché sui vaccini America batte Europa

di Maurizio Ricci
2 Marzo 2021
in Poveri e ricchi, Analisi
La Cgil di Roma lancia la campagna di vaccinazione anti Covid-19 degli over 80

A due mesi dall’inizio della campagna di vaccinazione, l’Italia è a circa 4,5 milioni di immunizzati. A questo ritmo, per raggiungere la magica cifra di 45 milioni di persone al riparo dal Covid, ovvero l’immunità di gregge, ci vorrebbero altri 18 mesi: tarda estate 2022. Una prospettiva impensabile. Infatti, non si parla che di accelerare. Prima ci si immunizza, più vite si salvano. Ma non è l’unica posta in palio. Per una volta, l’intera comunità degli economisti è d’accordo: la determinante della ripresa è una sola e non è economica. Sono i vaccini.

La conferma viene da oltre Oceano. Le previsioni dicono che una massiccia ripresa è alle porte negli Usa. Probabilmente, già questa estate. Per l’Europa, si parla di Natale. L’economia americana è, storicamente, più elastica e reattiva di quella europea. Ma la differenza la fanno soprattutto le vaccinazioni. A fine febbraio, negli Usa era stato vaccinato più del 20 per cento della popolazione. In Italia, Francia, Germania, siamo poco oltre il 6 per cento. Come è possibile che un sistema sanitario disarticolato e farraginoso come quello americano reagisca meglio all’emergenza dell’oliato ed efficiente sistema di sanità pubblica europeo? La risposta è che per battere la pandemia – oltre a crederci – bisogna avere potere decisionale e risorse adeguate. Gli Stati Uniti li hanno, la Ue no.

Purtroppo. Nella sua eterna campagna elettorale,  Matteo Salvini ha rispolverato la tesi che l’Europa sia stata un inciampo nella corsa a conquistare i vaccini. E’ vero il contrario. Parlando con una voce sola, la Ue è riuscita ad evitare una guerra fratricida fra i paesi membri e a spuntare condizioni migliori. Ma la vicenda mostra ancora una volta quale impaccio sia una Commissione europea ostaggio, in una crisi, dei singoli governi e delle priorità nazionali. Se l’Europa arriva tardi e con troppa timidezza sui vaccini, è – in buona misura – per l’omaggio pagato alla preminenza dell’approccio intergovernativo. La sanità resta, infatti, prerogativa nazionale. Come se, negli Usa, davanti ad una pandemia, la risposta, in prima battuta, fosse condizionata dai governatori di Alabama e California.

All’inizio di febbraio 2020, infatti, mentre Trump minimizza l’epidemia, l’amministrazione federale, forse all’insaputa dello stesso presidente, è già in trattativa con Pfizer, al lavoro su un vaccino. A metà febbraio, sono già in atto preaccordi con Johnson&Johnson e Sanofi. In Europa, solo a metà aprile, con la prima ondata al suo picco, Francia, Germania, Italia e Olanda cominciano ad attrezzarsi per la corsa ai vaccini. E solo il 4 maggio entra in campo Bruxelles con una megaraccolta fondi, con cui la Commissione rastrella 8 miliardi di dollari, da destinare genericamente alla ricerca. Negli stessi giorni, a Washington, Trump lancia l’operazione Warp Speed, una parnership pubblico-privato con una dotazione di 10 miliardi di dollari, da destinare direttamente alla produzione di vaccini sperimentali, come quelli rivoluzionari a vettore genetico, tipo Pfizer e Moderna.

La fortuna, in questa pandemia, ha premiato gli audaci. Washington e Londra sono state ripagate da due scommesse ad altissimo rischio. Gli americani hanno puntato con decisione su vaccini che, al contrario di quelli tradizionali, basati su virus depotenziati, agivano attraverso codici genetici, mai provati finora. Londra, da parte sua, ha giocato il tutto per tutto, limitando le vaccinazioni, per il momento, ad un sola dose, per poter vaccinare più persone, il più in fretta possibile. Poteva essere, nel primo, come nel secondo caso, un disastro epocale. Invece, hanno avuto ragione. A Ursula von der Leyen non sono mai stati concessi il margine e la possibilità per giocare d’anticipo, rispetto alle autorizzazioni ufficiali, sui vaccini. La   maledizione del “troppo poco, troppo tardi” inizia da qui.

Solo a metà giugno, infatti, il Consiglio europeo vara una strategia per le vaccinazioni antiCovid. Il piano della Commissione arriva il 17, ma è pesantemente condizionato dai vincoli imposti da alcuni governi. I contratti con le case farmaceutiche devono puntare al prezzo più basso possibile, ad allargare al massimo il ventaglio dei vaccini candidati e devono includere la responsabilità legale dei produttori, nel caso di effetti collaterali dannosi. Non aiuta che, ad occuparsi materialmente delle trattative, sia la direzione legale della Ue, priva di esperienza su megacontratti di appalto e fornitura, come si vedrà poi, nel pasticcio sugli obblighi di fornitura di Astra Zeneca. Ma l’intoppo viene soprattutto dalle condizioni sul prezzo e, soprattutto, sulla responsabilità legale che, ad esempio, negli Usa non esiste.

Del resto, la Commissione non ha neanche in tasca i soldi da sventolare davanti agli occhi dei venditori.  A luglio, gli americani firmano un regolare contratto con Pfizer per 600 milioni di dosi e per 500 milioni di dosi con Moderna, anche se la fase di sperimentazione ancora non si è chiusa.  A settembre, invece, Ursula, che non ha fondi suoi, si sta ancora battendo per ottenere l’impegno dei governi a versare 750 milioni di euro da impiegare nell’acquisto dei vaccini. Passeranno però ancora parecchie settimane, prima che le capitali diano effettivamente i soldi. A sorpresa, tuttavia, anche quando i soldi arrivano, Bruxelles dimostra un braccino corto. A novembre, soldi in mano, si passa, infatti, finalmente dalle prenotazioni ai contratti veri e propri, che Washington e Londra hanno firmato mesi prima. Ma anche se, per i due vaccini già approvati,  Pfizer e Moderna offrono, rispettivamente, 500 milioni e 320 milioni di dosi, la Commissione ne acquista solo 300 milioni dalla prima e 160 milioni dalla seconda.

Perché? Una inchiesta dello Spiegel  ha suggerito la possibilità che la Commissione abbia limitato gli acquisti da queste due aziende per lasciare spazio, nelle forniture, a 300 milioni di dosi del gigante francese Sanofi, che Parigi non voleva restasse tagliata fuori. Sia il governo francese che la Commissione di Bruxelles negano recisamente questa ipotesi e la stessa Sanofi poche settimane dopo getterà la spugna, rinunciando al vaccino.

Il flop di Sanofi, comunque, conferma che, in questa pandemia, la fortuna ha premiato gli audaci e punito i timidi. Se non per Sanofi, la Commissione ha, probabilmente, contenuto gli acquisti dei vaccini Pfizer e Moderna per lasciare spazio a quello di Astra Zeneca, che si rivelerà, però, meno efficace e convincente degli altri due. Poteva andare meglio. Tuttavia, nel mare delle polemiche, la Commissione può rivendicare di aver rispettato al meglio il mandato che aveva ricevuto a giugno. Il ventaglio dei vaccini prenotati o comprati è largo (almeno sei) e il prezzo assai conveniente: l’Astra Zeneca costerà in Europa 2 dollari a dose e 4 dollari negli Usa. Lo Pfizer 15 dollari alla Ue, 20 dollari alla Casa Bianca. Se non era il mandato giusto e ha portato al “troppo poco, troppo tardi” è, in buona misura, un problema del mandato, non di chi lo ha eseguito. Il conto va presentato, innanzi tutto, ai governi e ai vincoli che hanno posto nel Consiglio europeo del 12 giugno. E’ stato un caso di “meno Europa”. “Più Europa” avrebbe, invece, probabilmente aiutato.

Maurizio Ricci

Maurizio Ricci

Maurizio Ricci

Giornalista

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