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Home - Primo Piano - 1973-2023: “Esistere è molto più che funzionare”. Le 150 ore nel futuro

1973-2023: “Esistere è molto più che funzionare”. Le 150 ore nel futuro

di Francesco Lauria
19 Aprile 2023
in Analisi
1973-2023: “Esistere è molto più che funzionare”. Le 150 ore nel futuro

Prato, prima mattina, spazio di co-working e start-up, la sede di Prisma in Via Galcianese.

Si prepara una giornata di formazione per dirigenti sulle politiche attive del lavoro e il ruolo del sindacato nel rafforzare la soggettività delle persone in difficoltà, siano esse disoccupate o lavoratori/lavoratrici che si trovano a far fronte a una crisi aziendale.

Proprio in quel momento mi salta all’occhio, in un prezioso volume curato da un collega formatore (Claudio Arlati,

“E’ tempo di politiche attive?, Edizioni Lavoro 2022), un testo della poetessa romagnola Mariangela Gualtieri:

“Forse si muore oggi – senza morire.

Si spegne il fuoco al centro.

Sanguinano le bandiere. Generale è la resa.

Ciò che nasce ora crescerà in prigionia.

Reggete ancora porte invisibili dell’alleanza

bastioni di sereno. Puntellate il bene

che si sfalda in briciole e cartoni.

Il popolo è disperso. In seno ad ognuno cresce

il debole recinto della paura – la bestia spaventosa.

A chi chiedere aiuto? E’ desolato deserto il panorama.

Si faccia avanti chi sa fare il pane.

Si faccia avanti chi sa crescere il grano.

Cominciamo da qui”

Quando ho letto questa poesia l’ho subito collegata idealmente ai cinquant’anni dall’introduzione delle 150 ore per il diritto allo studio, in un anno, il 2023, che l’Unione Europea ha deciso di dedicare alle “competenze” e nel quale si ricorda il centenario della nascita di Don Lorenzo Milani.

È corretto chiederci ancora, come ha fatto in questi giorni Il Diario del Lavoro, che senso abbia oggi continuare a ricordare le 150 ore, in un tempo inedito di pandemie, guerre, lavoro da remoto, pervasività dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi, pillole formative digitali spesso fruite individualmente. Un tempo in cui, se non tutte, molte delle bandiere che hanno contraddistinto il Novecento, anche sindacale, sembrano ammainate.

Che cosa ancora ci racconta questa singolare, visionaria, plurale esperienza di risparmio contrattuale dove, in una fase espansiva, si è data una direzione nuova ad una quota di salario, e si è sperimentato un coraggioso e non scontato «investimento contrattuale» e di cittadinanza, oltre che su se stessi?

l fatto che la memoria di questa rilevante vicenda si sia in parte perduta è legato alla ragione che essa fu una pratica costruttiva e non conflittuale: si ricordano, infatti, più facilmente gli aspetti drammatici di divisione e di contrapposizione, rispetto alle dinamiche collaborative. In questo oblio non sono coinvolte solo le 150 ore, ci sono anche altre importanti vicende: si pensi, ad esempio, a tutto il lavoro comune tra il sindacato unitario, i delegati e le cliniche del lavoro in tema di nocività e salute e sicurezza, oggi sostanzialmente dimenticato.

Scriveva dieci anni fa Pierre Carniti, ricordando Pippo Morelli, uno dei protagonisti delle 150 ore, in occasione della sua scomparsa: “Il 19 aprile 1973 veniva firmato il contratto nazionale dei metalmeccanici che consentiva la fruizione di un massimo di 150 ore di permessi retribuiti, con il fine di favorire la crescita culturale dei lavoratori, una loro migliore partecipazione alla vita sociale e, per chi ne fosse sprovvisto, il conseguimento del titolo di studio di scuola media inferiore. Una grande influenza su quella battaglia ha avuto il testo di don Milani e dei ragazzi di Barbiana: “tu conosci trecento parole, il tuo padrone tremila. Anche per questo lui è il tuo padrone”.

L’ex segretario generale della Cisl, nel 2013, a quarant’anni dalla conquista contrattuale delle 150 ore, aggiungeva con tono amaro:

“Purtroppo quello delle 150 ore, insieme all’intero apporto sindacale nell’educazione e formazione degli adulti, è uno dei temi rimossi dalla memoria e dall’impegno sindacale. Perciò ricostruire orizzonti ideali, modalità, percorso declino di quella decisiva esperienza collettiva che, dai metalmeccanici si estese a tutto il mondo del lavoro, pubblico e privato, e che ha coinvolto negli anni oltre un milione e mezzo di lavoratori, incidendo fortemente sulle loro conoscenze, sulle loro vite, sul movimento sindacale e sull’istituzione scolastica, non è un semplice esercizio di nostalgia”.

E oggi? Quali echi delle 150 ore in quella che, all’inizio degli anni 2000, veniva definita, un po’ pomposamente, con la strategia di Lisbona, la “società della conoscenza” e che, oltre vent’anni dopo, si confronta con le sfide inedite poste prima dalla pandemia da Coronavirus, poi da una nuova guerra in Europa, dall’economia dell’interdipendenza digitale e delle catene globali del valore?

È importante, nel fare memoria del passato, avere ben chiare le criticità e le peculiarità del tempo presente.

I dati sulla formazione continua in Italia, pur se moderatamente positivi, presentano le consuete e ormai consolidate criticità: il tipo di fruitori (aziende e lavoratori), pur con lodevoli eccezioni, tende ad aumentare e non a diminuire le disuguaglianze nel nostro mercato del lavoro.

Tutto ciò non può non essere tenuto presente, anche in considerazione degli squilibri sociali, territoriali, generazionali e di genere aggravatisi in questi ultimi anni.

L’utilizzo delle risorse dei Fondi interprofessionali, in collegamento con politiche attive del lavoro, anche a fronte dell’innegabile fallimento del binomio “navigator-reddito di cittadinanza” (ma senza assecondare l’eccesso di retorica e colpevolizzazione contro i percettori del reddito stesso), potrebbe costituire uno dei cardini per accompagnare i necessari accordi tra governo e Regioni e parti sociali, allargandosi alla formazione dei disoccupati.

Nell’uso delle risorse dei Fondi interprofessionali nell’attuale difficile condizione generale, in cui l’accelerazione della transizione digitale condiziona anche metodologia e fruizione della formazione, è necessario osare il coraggio dell’innovazione.

Si tratta di gestire la complessità della domanda e dell’offerta formativa e di analizzare anche le prospettive del ruolo degli enti bilaterali nel collegamento tra formazione professionale e continua

e negli strumenti di orientamento nel mercato del lavoro, a partire dai giovani, senza fermarsi ad essi.

Il sistema bilaterale, anche attraverso un possibile ampliamento delle risorse contrattuali e pubbliche a sua disposizione, ha buone chance per impegnarsi con successo nello sviluppo di capacità consulenziali nei confronti di imprese e lavoratori, anche su temi specifici; pensiamo alla grande questione della giusta transizione ecologica o alle sfide della digitalizzazione, partecipando contemporaneamente alla strutturazione sia della domanda che dell’offerta formativa, a partire dalle piccole e medie aziende.

Le considerazioni precedenti non esauriscono echi e prospettive di un recupero dello strumento e dello spirito delle 150 ore per il diritto allo studio a cinquant’anni dalla loro prima adozione nel contratto collettivo dei lavoratori e delle lavoratrici metalmeccanici con successiva diffusione in tutto il mondo del lavoro, privato e pubblico.

Sul tema delle risorse non si può non tenere presente che le 150 ore meriterebbero oggi di essere incrementate anche nella quantità. Esse, infatti, sono il frutto di una stagione che le ha inventate anche come strumento di inclusione sociale (tema assolutamente ancora attuale), ma in un contesto di percorsi di istruzione, qualificazione, apprendimenti spesso situati in specifiche (per quanto in alcuni casi “ritardate”) fasi della vita e con il riferimento, maggioritario anche se non totalizzante, del conseguimento, ormai in gran parte superato, di un titolo della scuola dell’obbligo.

Tornare a guardare alle 150 ore in un’ottica di formazione continua, mantenendone inalterato lo spirito e le idee forza alla base, richiede di avere sempre a disposizione una dote di tempo per il diritto allo studio al fine di affrontare al meglio lo sviluppo del proprio percorso lavorativo e di cittadinanza.

Va confermata una fruizione individuale che non escluda una dimensione collettiva di contesto nell’ambito di diversi obiettivi di fondo: dall’investimento sulle competenze non necessariamente professionalizzanti, a percorsi di formazione interna e reskilling, fino a strumenti che intreccino l’outplacement nell’ambito delle ristrutturazioni aziendali e in affiancamento agli assegni di ricollocazione.

L’occupabilità, come ci hanno ben spiegato Amartya Sen e Martha Nussbaun non deve però ricadere sulle spalle del singolo lavoratore, ma è una sfida di responsabilità e di impegno attivo dell’intera società che lo circonda.

Il ruolo del sindacato, degli attori sociali, delle istituzioni nei processi formativi e di ricollocazione non può che basarsi sulla valorizzazione della persona, per soddisfarne, anche facendo emergere la domanda formativa, la creatività, il percorso lavorativo ed esperienziale, senza misurare solo gli esiti, ma anche i processi.

Come ci hanno insegnato anche le 150 ore, sono le idee, insieme alle intuizioni, ai suggerimenti, a muovere la macchina dell’innovazione in un’ottica partecipativa, di futuro.

Ricordare e rinnovare lo spirito delle 150 ore per il diritto allo studio è elemento fondamentale per rafforzare e sostenere questo recupero di soggettività nel lavoro, ancor più valido e necessario nell’epoca degli algoritmi.

È chiaro che un altro ambito di utilizzo delle “150 ore del futuro”, come ha affermato il segretario generale della Fim Cisl Roberto Benaglia, non può non essere quello del linguaggio digitale.

Le nuove 150 ore, quindi, come strumento per recuperare il digital divide, anche alla luce del fatto che l’accesso alla pubblica amministrazione (si pensi ad esempio stagione dei “ristori” nella pandemia) e agli istituti pubblici, avviene sempre di più attraverso i canali e l’identità digitale.

Appare cruciale recuperare un elemento fondamentale della filosofia di fondo delle 150 ore: intrecciare le questioni dell’educazione e della formazione degli adulti nell’ottica di andare oltre ad una visione utilitarista delle competenze.

Si tratta, secondo il filosofo e psicanalista argentino Benasayag, di andare oltre un a certa tipologia di “pedagogia delle competenze” (anche e proprio nell’anno europeo ad esse dedicato) laddove essa si concentra non tanto sulla reale conoscenza dei contenuti trasmessi, quanto sull’essere “ben programmati” a imparare e, quando necessario, a gestire e dimenticare le informazioni.

D’altronde, come affermato quasi un secolo fa da Eduard Lindeman in “The meaning of Adult Education” (1926) recentemente citato da Monica Dati in un volume da lei proprio dedicato alle 150 ore (Quando gli operai volevano suonare il clavicembalo, Aracne, 2022), occorre sempre sottolineare i rischi di una connotazione eccessivamente utilitaristica dei processi di apprendimento in età adulta. Perché esistere “è molto più che funzionare”.

Per concludere: la sfida complessiva è ancora quella alla quale ci richiamava il compianto prof. Tullio De Mauro, “maestro” scomparso nel 2017: “(ri-)aprire un rinnovato e coordinato discorso e impegno per ottenere in Italia un sistema nazionale di promozione degli apprendimenti in età adulta”.

Cantò Victor Jara, proprio nel 1973: “La dove tutto giunge e dove tutto ha inizio, un canto che sia stato coraggioso, sarà sempre una canzone nuova”. Buon cinquantesimo compleanno 150 ore!

(Spunti a partire dal volume: “Le 150 ore per il diritto allo studio. Analisi, memorie, echi di una straordinaria esperienza sindacale”, Edizioni Lavoro, 2023).

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