Il mancato accordo dei sindacati sul recepimento della Direttiva europea 70/99, riguardante i contratti a termine, fu uno dei casi di arresto dei processi di concertazione in Italia e di crisi dell’unità sindacale. Cerchiamo di ricostruire la vicenda. Quali erano le posizioni dei sindacati di fronte alla prospettiva di riforma del contratto di lavoro a tempo determinato?
Uno dei motivi, per cui inizialmente eravamo tutti d’accordo di intervenire sui contratti a termine, era sicuramente, in primo luogo, una esigenza di razionalizzazione della materia, poiché la combinazione tra legge e contrattazione collettiva che si era andata delineando sul contratto a termine, creava incertezze e zone d’ombra. Un secondo motivo, era quello di evitare che continuasse lo scambio, non accettabile, che cominciava a consolidarsi da parte del sindacato, rispetto alla concessione di causali. Soprattutto in specifici settori, succedeva che si concedesse una causale in più, come contropartita di qualche altra concessione. Fu uno dei motivi per cui eravamo tutti d’accordo, anche la Cgil, di giungere ad una causale generica, omnicomprensiva. Su questo intento di correzione, all’inizio delle trattative, c’era un consenso unanime, peraltro maturato anche con sostanziale facilità.
Su quali punti vi furono le prime divergenze fra i sindacati?
Arrivammo alla sera in cui fu formulata un’ipotesi di testo adeguato per la chiusura della trattativa in termini positivi (marzo 2001, ndr), con posizioni che sembravano unanimi, anche se ognuno si era riservato le dovute verifiche. Ricordo che quella sera al tavolo non era presente Giuseppe Casadio, impegnato su altri tavoli. La Cgil emise un comunicato, in cui precisava che avrebbe lasciato il tavolo delle trattative, recedendo da posizioni che sembravano precedentemente acquisite, soprattutto per dissensi sulle causali e sul loro rinvio alla contrattazione. La Cgil abbandonò il tavolo delle trattative, abbandonando anche, la possibilità di rivedere alcuni punti della materia. Se si prendesse il testo, come noi l’avevamo costruito insieme nell’ultima riunione, si potrà constatare quanto fosse diverso e peggiore del testo che poi Uil e Cisl sottoscrissero.
Apprezzabili passi avanti furono fatti, in effetti, nella fase ulteriore delle trattative, soprattutto nella specificazione delle eccezioni, che furono significativamente limitate.
Perché la Cgil cambiò posizione su quanto già concordato?
Credo, ma evidentemente è un’ipotesi non verificata, che il “Servizio delle politiche del lavoro” della Cgil (non rammento esattamente la loro nomenclatura), avesse affrontato le trattative sulla modifica dei contratti a termine senza tutte le verifiche di prassi nella Cgil. E vi furono, credo, reazioni molto forti quando Casadio fece la riunione di verifica del Dipartimento; su determinati argomenti. Per quanto è dato sapere, si manifestarono forti dissensi.
A mio avviso, peraltro, il veto per la mancanza di un richiamo alla contrattazione era una falsa scusa, poiché la contrattazione aveva continuato a svolgere il suo ruolo anche dopo che le causali erano state recepite in termini normativi, ed ugualmente avrebbe potuto svolgerlo dopo l’accordo.
E’ una mia supposizione, ma credo che nella Cgil s’innestarono, su questa vicenda, anche problemi di equilibrio interno, perché su Casadio ricaddero critiche, secondo me poco credibili, anche da chi normalmente stava più a “destra” di lui.
Perché accettaste, voi come Uil, di continuare le trattative sull’ipotesi di una liberalizzazione così spinta delle causali?
C’è un approccio culturale nostro, che diviene metodologico, completamente diverso da quello della Cgil. Loro tendono a valorizzare solo l’azione collettiva, sostanzialmente rifiutando l’ipotesi che alcune tutele si possano realizzare, anche meglio, per via individuale. Questo vale pure per l’approccio al decreto legislativo 276.
Anche all’interno della Uil, peraltro, ci sono state alcune critiche; poi, però, in termini concreti, nella prassi contrattuale non è successo nulla di tragico, perché si era comunque prodotta un’accentuazione delle garanzie a livello individuale. Per esempio, il fatto che ci fosse una causale specifica da indicare nel contratto di assunzione, implicava, oltretutto, una rigidità di utilizzo del lavoratore. La specificità della clausola normativa risulta, infatti, fortemente cogente.
Questo approccio, da parte nostra, non è formale, o ideologico, è sostanziale e per certi versi, direi culturale. Noi, come Uil, siamo sempre più convinti che valga la pena di fare molta attenzione al diritto sostanziale, invece che fare tanti discorsi su diritti generali previsti dalla norma, che poi magari, restano inapplicati.
E sui limiti quantitativi da stabilire nella contrattazione, qual’era la vostra posizione?
Sui tetti vi sono state delle tensioni serie, con la controparte ben più che tra noi. Infatti, i tetti non erano stati, per così dire, confederalizzati. Su questo problema avevamo maturato un’esperienza, non del tutto corretta dal punto di vista legislativo, con l’individuazione dei tetti per l’interinale. Avevamo raggiunto un accordo interconfederale, non previsto dalla norma, in sostituzione di specifici accordi contrattuali, che poi non furono mai realizzati. In quell’occasione, affrontammo il tema dei tetti in termini complessivi, per comprendere la temporaneità totale che c’è dentro un’impresa. È ridicolo, infatti, dare un tetto per ogni istituto: era giusto prevedere dei tetti per la temporaneità totale di ogni impresa.
La storia dei tetti noi l’avevamo posta in termini duri durante la fase delle trattative, e l’avremmo messa nell’articolato (la proposta presentata dalla Confindustria, ndr) se ci fosse stata la Cgil. Che le categorie potessero stabilire i tetti era una conclusione che, se stavamo tutti insieme, potevamo raggiungere. Ma il tetto non poteva essere il tetto confederale. L’esperienza fatta appena due anni prima per l’interinale era stata scavalcata in tutti i modi. In termini espliciti si doveva rinviare la questione dei tetti alle categorie.
Ma non si è accettata una liberalizzazione, che, in un certo senso, limita l’autonomia collettiva?
Non mi pare che la legge, nei fatti, abbia comportato peggioramenti. Che poi la liberalizzazione debba sempre costituire sempre un peggioramento mi sembra un approccio, a dir poco non pragmatico, che assolutamente non credo sia condivisibile. È un problema di visione generale del diritto. Il diritto non può servire a bloccare la società, deve invece coglierne le trasformazioni e sapersi adeguare rapidamente. Mi sembra che sia veramente ideologizzata una visione statica della funzione del diritto: storicamente connotata – a destra come a sinistra – e a dir poco assolutamente superata.
La Uil cercò più della Cisl un accordo unitario?
La Uil ha cercato di fare da ponte nella trattativa, di mediare tra i vari approcci e di proporre un valore maggiore della funzione negoziale. Ma la trattativa non poteva bloccarsi per la diversità di approcci per così dire teoretici. Il modo in cui intendiamo la legislazione tra le tre centrali è assolutamente differente. La legge per la Cgil è il massimo di garanzia e di stabilità; si evita così il problema dell’adeguamento immediato al cambiamento. Ed il cambiamento, continuo e veloce, è il primo connotato di questa nostra contemporaneità.
Per la Uil, la legge ha la funzione duplice di regolare la società nella sua evoluzione, ma solo se riesce a coglierne l’evoluzione nella sua immediatezza; quindi, la legge deve avere una funzione dinamica e capacità continua di aggiornamento.
Rispetto ad una legislazione che non può essere così continuamente riformata, noi immaginiamo una legge che non indica articolazioni applicative: sia prescrittiva di principi, non delle loro formalità attuative. La dinamica di applicazione non può, dunque, che seguire una logica negoziale, con soggetti legittimati a concordarne le prassi attuative.
Ma non vi è, in questi progetti, un ridimensionamento della funzione stessa del sindacato e della sua capacità di intervenire attraverso la contrattazione?
Una delle trasformazioni che dobbiamo fare come sindacato è quella di arricchire la tutela collettiva con l’assistenza e la tutela individuale. L’assistenza sulla qualità del rapporto di lavoro significa una condizione di verifica dell’applicazione dei contratti collettivi nazionali. I diritti sindacali sono oggi tutelati ampiamente grazie ai risultati che si sono ottenuti negli anni passati.
Oggi come oggi, in questo contesto competitivo, il classico soggetto debole non è più il lavoratore dipendente a tempo indeterminato. Il soggetto debole è chi cerca lavoro. Va detto anche, che c’è altresì una fetta ampia di piccoli imprenditori che sono deboli. Se pensiamo alla quantità di piccole imprese che chiudono in Italia ed al lavoro nero diffuso, non possiamo parlare di destrutturazione del mercato perché si sono cambiate alcune regole.
Credo che, se c’è tanta irregolarità, sovente è perché vi sono irregolarità reciproche per i vantaggi che ciò reciprocamente comporta.
In questo contesto, il sindacato deve superare il ruolo storico che ha esercitato e rinunciare a quello di supplenza della politica; deve profondamente cambiare la sua funzione arricchendola, soprattutto adesso che, almeno sembra, la politica ha pienamente recuperato il suo ruolo. Come diceva Cofferati, noi dovremmo ritornare a fare il nostro mestiere!
Il sindacato non può avere un ruolo concentrato sulle politiche sociali, deve acquisire un ruolo, ben più ampio dell’attuale, nelle politiche economiche.
Quale fu il ruolo del Governo, soprattutto dopo il mancato raggiungimento di un accordo?
La Cgil aveva sicuramente un rapporto privilegiato con il Governo. Con un’immagine un po’ provocatoria, si potrebbe dire che io e Bonanni c’eravamo un po’ stancati di vedere con tanta frequenza il Segretario Confederale della CGIL uscire dalla stanza di Salvi con Ministro, prima delle riunioni al Ministero del Lavoro.
Quando poi non si raggiunse l’accordo, l’obiettivo della Cgil divenne quello di promuovere un intervento unilaterale del Governo, poiché non vi era un “Avviso comune”. Questa, secondo me, è una significativa dimostrazione dell’inadeguatezza pragmatica della Cgil.
Che senso aveva che Salvi facesse una legge, quando la delega diceva che la legge era correggibile nell’arco dei 24 mesi successivi? E poi si era a fine legislatura, ed un eventuale intervento legislativo poteva essere corretto da una nuova maggioranza politica.
Credo comunque, che sia sbagliato definire la vicenda solo in termini politici. Vi erano problemi d’approccio ideologico e metodologico tra noi significativamente diversi. I nostri valori, e mi sembra pur normale, non sono uguali a quelli della Cgil, soprattutto nel come considerare la funzione della legge e quindi, caso per caso, i suoi contenuti ed i suoi strumenti.
Perché nell’intesa, che raggiungeste con Cisl e Confindustria, non fu riportato il carattere dell’eccezionalità del rapporto di lavoro a tempo determinato, come indicato nella Direttiva?
Che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato sia il rapporto normale di lavoro siamo d’accordo; rimane il fatto – al di là di ogni enunciazione formale – che al dunque il “lavoro normale” è rimasto il lavoro a tempo indeterminato. Basta vedere le statistiche sulle trasformazioni del lavoro interinale, dove il 25% circa dei contratti si è stabilizzato in tempi indeterminati. Problemi certamente ci sono, soprattutto nella ripetizione eccessiva, per un medesimo lavoratore, di contratti a termine. Vanno prese iniziative specifiche. Cerchiamo anche di ricordare, però, che i rapporti di lavoro dipendono anche dagli andamenti del mercato del lavoro connessi al ciclo economico, molto più che da condizioni che, al massimo, parcellizzano la disponibilità occupazionale, dividendola tra più soggetti.

























