Il mancato accordo dei sindacati sul recepimento della Direttiva europea 70/99, riguardante i contratti a termine, fu uno dei casi che segnarono l’arresto dei processi di concertazione in Italia e di crisi dell’unità sindacale. Cerchiamo di ricostruire la vicenda. Quali erano gli indirizzi della Direttiva europea 70/99 sul lavoro a tempo determinato ?
Nella premessa della Direttiva si diceva che «i contratti a tempo indeterminato sono, e continueranno ad essere, la forma generale di rapporto di lavoro tra imprenditori e lavoratori» e che «il ricorso ai contratti a tempo determinato, basato su motivi obiettivi, è un modo per prevenire gli abusi».
Tuttavia, nel corpo del testo non era stabilita la necessità di un motivo obiettivo per accendere un contratto a termine, ma solo per rinnovarlo. In particolare, gli Stati membri dovevano introdurre una o più delle misure seguenti:
a) motivi obiettivi che giustifichino il rinnovo di tali contratti
b) durata massima totale di contratti a termine consecutivi
c) numero massimo di rinnovi di tali contratti
La Direttiva dunque ammetteva assunzioni a termine senza una causale obiettiva, necessaria solo per il rinnovo. Per il resto, la Direttiva era volta a garantire il principio di non discriminazione.
Ricostruendo la trattative fra le parti per la formulazione di un Avviso comune, quali erano le posizioni iniziali dei sindacati ? Erano molto distanti da quelle di Confindustria?
Restò aperta, fin dall’inizio, la questione del rinvio alla contrattazione di categoria dell’individuazione della percentuale massima di lavoratori a termine utilizzabili, che era tra le principali richieste sindacali. Dopo alcuni mesi di trattativa, vennero invece individuate soluzioni sugli altri punti importanti sostenuti dal sindacato:
sulle causali che rendono possibile un contratto a termine
sulla durata massima compresa la proroga (36 mesi)
sulla parità di trattamento e la non discriminazione
sulle modalità di informazione e consultazione
sulla formazione dei lavoratori a tempo determinato
sulle norme per evitare gli abusi e i casi in cui è vietato l’uso dei contratti a termine
In particolare sulle causali che rendono possibile un contratto a termine, la soluzione individuata tra le parti era quella prevista in un documento Cgil, Cisl, Uil del novembre 2000, il quale sosteneva l’esigenza di «aggiornare in un senso più aderente alle caratteristiche attuali dei processi produttivi e superare, integrandolo, l’attuale quadro normativo», e proponeva di condizionare l’accensione di un contratto a termine a «ragioni oggettive di carattere tecnico-produttivo, organizzativo o sostitutivo».
Dopo il documento unitario del novembre 2000, quando è avvenuto il distacco tra le posizioni di Cisl-Uil e della Cgil ? e su quali punti fondamentali? Su quali punti si è irrigidita la posizione della Cgil ?
Il distacco della Cgil avvenne a inizio marzo 2001, dopo che fu presentato da Confindustria e dalle altre associazioni imprenditoriali un testo che conteneva risposte sui punti elencati nella risposta precedente, ma non sul rinvio alla contrattazione delle percentuali massime di utilizzo.
La Cgil, dopo alcune discussioni al proprio interno, di fronte a tale testo ha rimesso in discussione anche i punti su cui vi era già una intesa sostanziale, ponendo come irrinunciabile per raggiungere un accordo il rinvio alla contrattazione collettiva delle causali, della durata, delle percentuali, in contraddizione rispetto allo stesso documento unitario.
Come Cisl, invece, insieme alla Uil, insistemmo con forza per inserire nel testo un rinvio alla contrattazione relativamente all’individuazione di percentuali massime di contrattisti a termine, questione che, come detto, era rimasta aperta sin dall’inizio. Dopo la rottura della Cgil, il confronto continuò e portò all’accordo, che infine conteneva anche una soluzione, considerata buona da Cisl e Uil, per il rinvio alla contrattazione, con alcune deroghe motivate, dell’individuazione delle percentuali massime di utilizzo.
Il documento unitario di novembre conteneva l’accettazione, da parte sindacale, delle causali generiche senza rinvii per la specificazione nella contrattazione collettiva ?
Sì. Come già detto, il documento sindacale del novembre 2000 non condizionava l’accensione di un contratto a termine all’individuazione di causali specifiche da parte della contrattazione collettiva di settore, superando così l’impostazione della legge 230/62. Si limitava invece a chiedere che fosse indicata nel contratto scritto una causale oggettiva, ma generale, di «carattere tecnico-produttivo, organizzativo o sostitutivo».
Quali erano le posizioni della Cisl soprattutto sull’inserimento delle causali generiche ? Potevano anche essere non previste dalla contrattazione collettiva ?
Come già spiegato, la Cisl era d’accordo su causali oggettive, ma generali (più che generiche), senza la necessità che vi fosse la specificazione da parte della contrattazione collettiva. Su questa stessa posizione era la Uil e, fino ad un certo punto, anche la Cgil, che sottoscrisse il documento unitario citato.
Perché accettaste, voi come Cisl, di continuare le trattative sull’ipotesi di una liberalizzazione così spinta delle causali ?
Dire che l’accordo ha causato una liberalizzazione spinta non corrisponde alla sostanza delle cose, e noi guardammo soprattutto alla sostanza. Negli anni, lo stratificarsi di causali nei contratti collettivi era stato tale da non lasciare praticamente più spazio ad ulteriori allargamenti. Di conseguenza, scrivere nell’Avviso comune, come è stato fatto, che “è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, altro non era se non una operazione di presa d’atto dell’evoluzione contrattuale, oltre che rappresentare un’utile razionalizzazione. Inoltre, nell’Avviso comune è detto che la apposizione del termine deve risultare da atto scritto nel quale vanno specificate le ragioni di carattere tecnico, etc.. , di cui sopra. Dunque, non si tratta di una liberalizzazione spinta delle causali, ma di un allargamento formale (perché nella sostanza si era già allargato quanto si era potuto) che prevede causali generali comunque subordinate a specificazione scritta.
In cambio di questa “concessione”, il sindacato ottenne, non dimentichiamolo, la definizione di una durata massima del contratto a termine, limite non previsto nella legislazione previgente, ed un obbligo delle imprese a fornire al lavoratore una “formazione sufficiente ed adeguata alle caratteristiche delle mansioni oggetto del contratto, al fine di prevenire rischi specifici connessi alla esecuzione del lavoro”.
Perché nell’intesa, che raggiungeste con Uil e Confindustria, non fu riportato il carattere dell’eccezionalità del rapporto di lavoro a tempo determinato, come indicato nella Direttiva ?
Nella lettera di accompagno al Ministro Salvi, questo concetto venne ribadito, laddove si diceva che “i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro”.
Tuttavia, al di là della trattativa sui contratti a termine, non si può non sottolineare che sono le trasformazioni economiche e produttive ad influenzare l’utilizzo delle tipologie contrattuali, più che la regolamentazione legislativa. Le aperture della legislazione italiana alla flessibilità del lavoro, iniziate con il “Pacchetto Treu”, non hanno fatto altro che assecondare gli andamenti del mercato, naturalmente con i dovuti limiti e fornendo un quadro di regole e tutele. Diversamente il rischio è che il mercato si crei da sé le sue regole, come è avvenuto con l’utilizzo dilagante delle co.co.co. . E’ questo che vogliamo? La Cisl sicuramente no, e preferisce essere in prima linea per contribuire a regolamentare l’utilizzo di tipologie contrattuali flessibili, anziché subire gli andamenti del mercato. Questo è anche l’atteggiamento che abbiamo avuto con riferimento alla legge 30 sul mercato del lavoro, per fare un riferimento a fatti più recenti.
La decisione della Cgil di lasciare il confronto è stata improvvisa e ingiustificata ? Vi era l’intenzione di indebolire la concertazione e il raggiungimento di un accordo ?
La decisione della Cgil è stata evidentemente condizionata dalla sinistra interna. Non crediamo vi fosse intenzione di indebolire la concertazione, che anzi ci risulta stare a cuore alla maggioranza della Cgil.
Tuttavia, determinati atteggiamenti sicuramente non hanno giovato alla concertazione, ed hanno prestato il fianco, negli ultimi dieci anni, ai tentativi, più o meno palesi, di indebolirla, prima da parte del Governo di centro sinistra, che allargò i tavoli concertativi fino a comprendere un numero esorbitante di organizzazioni, molte con rappresentanza sociale assai esigua, poi del governo Berlusconi che, oltre a conservare questa pratica della concertazione allargata, ha via via emarginato il sindacato dai tavoli decisionali.
Auspico che la concertazione possa trovare presto nuovo respiro, perché è assolutamente deleterio che su materie di notevole delicatezza sociale si possa essere esposti al rischio che, ad ogni cambio di maggioranza, cambi la legislazione. Naturalmente, è più che legittimo che un nuovo Governo espressione di una nuova maggioranza politica, possa modificare una legge del precedente Governo. Quello che non è accettabile, per una ordinata vita pubblica in un paese civile, è che le campagne elettorali possano avere come tema dominante l’abrogazione della maggioranza delle leggi del Governo precedente. La concertazione con le parti sociali deve dare un importante contributo per poter ancorare la legislazione, su determinate materie, a grandi accordi.
Quale è stato il ruolo del Governo nella trattativa ?
Fu il Governo a chiedere alle parti un Avviso comune per il recepimento della Direttiva, possibilità prevista dalla Direttiva stessa e dall’accordo di concertazione del dicembre 1998 (Patto di Natale). Poiché la trattativa durò molti mesi, le parti si trovarono nella condizione di dover chiedere al Governo di applicare quella parte della Direttiva che prevedeva un anno di tempo supplementare in caso di difficoltà o di recepimento tramite accordo. Il Governo accettò. Fu poi il nuovo Governo (nel frattempo erano avvenute le elezioni politiche) a recepire il testo di accordo nel decreto Legislativo 6 settembre 2001, n. 368.

























