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Home - Blog - Perché il reddito di cittadinanza era un fallimento annunciato

Perché il reddito di cittadinanza era un fallimento annunciato

di Giuliano Cazzola
2 Ottobre 2020
in Blog
Perché il reddito di cittadinanza era un fallimento annunciato

Deciso ad ‘’épater les bourgois’’ Giuseppe Conte, intervenendo al Festival dell’Economia di Trento, ha preso le distanze dai due più importanti provvedimenti assunti dal governo precedente, presieduto dallo stesso Conte: quei provvedimenti – il reddito di cittadinanza e quota 100 – che, in sembianze di Cristo crocefisso tra i due ladroni, Giuseppi e i suoi due vice/padroni, avevano esibito in conferenza stampa dopo la conversione in legge del decreto n.4 del 2019. Se si è rivelata una non-notizia ribadire che quota 100 arriverà a scadenza alla fine dell’anno prossimo (visto che era concepita fin dall’inizio come una misura sperimentale, vigente per un triennio e che nessuno si fosse mai sognato di mettere in discussione questa impostazione), le considerazioni svolte sul RdC presentano qualche aspetto di novità, quanto meno nei toni severi con cui il presidente ha trattato l’argomento. Tanto che la Repubblica on line ha commentato le affermazioni di Conte attribuendo loro un rilevo eccessivamente generoso: Ma il premier Conte lavora ormai, ventre a terra, per la sua riforma. Come ha già spiegato a Trento il 26 settembre, Conte lamenta la mancanza di un cervellone informatico – di livello nazionale – capace di mettere insieme la domanda di lavoro (dei giovani e meno giovani) con le offerte delle aziende. Il cervellone  – ha  sostenuto  il presidente del Consiglio  – permetterebbe anche di scovare le persone, beneficiarie del Reddito, che rifiutano una o più offerte di lavoro. Quello della predisposizione di un servizio informatica nazionale era un obiettivo prioritario dell’apparato del RdC. Addirittura, l’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio aveva importato dal lontano Mississippi una sorta di Helenio Herrera delle piattaforme telematiche, latore di un progetto pronto a divenire in breve operativo, allo scopo di avere un quadro della domanda e dell’offerta di lavoro di tutta la Penisola. Si dice, anche, che Conte abbia dato un ultimatum al ministro Nunzia Catalfo e al presidente dell’Anpal, Mimmo Parisi, affinchè in un semestre risolvano questo problema (che per la verità rimbalza da anni da un governo all’altro senza arrivare alla meta). Una banca dati di carattere nazionale sarebbe senza alcun dubbio necessaria e quindi sono utili le sollecitazioni in tal senso. Ma il recupero del RdC non può partire proprio laddove ha fallito: non tanto nell’erogazione delle prestazioni anche se sono emersi criteri di assegnazione farraginosi e non sempre equi, scoperte delle attribuzioni discutibili, verificati degli abusi (come capita spesso quando si è nel campo dell’assistenza ed è richiesta la prova dei mezzi). Il fallimento del RdC era annunciato nel pretendere di tenere insieme – attraverso i medesimi strumenti, con procedure centralizzate in capo all’Inps e in regime di reciproca condizionalità – la lotta alla povertà e le politiche attive del lavoro. Così, se anche gli assegni erogati sono stati in numero inferiore del previsto (sono rimasti escluse ad esempio le famiglie degli stranieri extracomunitari per la mancanza dei decreti attuativi), sul versante della presa in carico dei soggetti, della stipulata dei patti del lavoro, sull’organizzazione di stage formativi come sulle proposte di impiego, nonostante l’arruolamento dei navigator, il fallimento viene ammesso da tutti (di mezzo ci si è messo anche il Covid-19). Per ripartire occorre separare le due fasi, sul piano degli istituti giuridici come su quello dell’operatività. Per quanto riguarda la lotta alla povertà – anche senza perdersi in condizioni nominalistiche che producono le paturnie  ai pentastellati – occorre ritornare alla logica del Rei, il reddito di inclusione, varato in zona Cesarini della XVII legislatura dal governo Gentiloni, poi assorbito dal RdC.

______________________________________________________________________________________

 

SCHEDA

• Il Reddito di Inclusione

In applicazione  del dlgs n. 147/2017 dal 1° gennaio 2018 è stato istituito il Reddito di inclusione (ReI) quale misura unica nazionale di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, condizionata alla valutazione della condizione economica attraverso l’ISEE. Il ReI ha sostituito il SIA (Sostegno per l’inclusione attiva) e l’ASDI (Assegno di disoccupazione).

Il ReI si componeva di due parti:

1. un beneficio economico, su dodici mensilità, con un importo variabile a secondo della numerosità del nucleo familiare (da circa 187 a circa 539 euro per nuclei familiari con 6 o più componenti). Il beneficio economico era erogato mensilmente attraverso una carta di pagamento elettronica (Carta ReI);

2. un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa volto al superamento della condizione di povertà, predisposto sotto la regia dei servizi sociali del Comune.

3. Per l’accesso al ReI erano previsti requisiti economici, di residenza/soggiorno e di compatibilità (i membri del nucleo familiare non devono essere percettori di prestazioni di disoccupazione).

_______________________________________________________________________________________

Nel passaggio delle consegne tra i due istituti (ReI ed RdC)  l’Osservatorio sul Reddito di Inclusione (ReI)  ha pubblicato i dati del 2018, anno in cui vennero erogati benefici economici a 462.170 nuclei familiari, raggiungendo 1.329.325 persone. La maggior parte dei benefici furono erogati al Sud (68%), con interessamento del 71% delle persone coinvolte. Il 47% dei nuclei beneficiari di REI risiedeva in sole due regioni: Campania e Sicilia. Calabria, Lazio, Lombardia e Puglia coprivano un ulteriore 28% dei nuclei. Il tasso di inclusione del REI, ovvero il numero di persone coinvolte ogni 10mila abitanti, nel 2018 risultò pari a 220. Raggiunse i valori più alti in Sicilia, Campania e Calabria (rispettivamente 634, 603 e 447) e i valori minimi in Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige (37 e 28). L’importo medio mensile del REI erogato nel 2018, pari a 295,88 euro, risultò variabile a livello territoriale, con un intervallo che andava dai 237,01 euro per la Valle d’Aosta ai 327,63 euro per la Campania. Come emerge da un esame obiettivo il ReI non è stato un fallimento. Il suo vero limite lo ha messo in evidenza, nel suo saggio ‘’Le riforme dimezzate’’, Marco Leonardi, consigliere economico di Palazzo Chigi nella XVII Legislatura. Il ReI – una misura più organica e meno pasticciata del RdC  e rivolta  solo al contrasto della povertà –  era arrivato troppo tardi (entrò in vigore il 1° gennaio 2018 quando già erano in vista le elezioni con il frastuono propagandistico del RdC) e con scarse risorse a disposizione (ben inferiori di quelle stanziate per il RdC che si avvalse anche delle risorse in quota ReI). Per quanto riguarda le politiche attive, meglio meno ma meglio. La strada da seguire è quella dell’assegno di ricollocazione, uno degli strumenti di politica attiva del lavoro individuati dal Jobs Act (nel dlgs n.150/2015)  con l’obiettivo di realizzare la tutela del lavoratore nel mercato del lavoro, attraverso l’incremento della sua occupabilità e il supporto nella ricerca attiva di un lavoro per ridurre i periodi di disoccupazione e favorire la continuità occupazionale. Più nel dettaglio, l’assegno di ricollocazione consente ai disoccupati aventi diritto di “acquistare” «servizi di assistenza intensiva nella ricerca del lavoro», erogati dai centri per l’impiego oppure dai servizi privati per l’impiego accreditati.  Per ottenere l’assegno di ricollocazione, oltre al possesso dei previsti requisiti (i lavoratori disoccupati da oltre quattro mesi e percettori della NASpI che presentino la relativa domanda ai CPI), è necessaria la profilazione del candidato, consistente nella valutazione del potenziale personale di occupabilità rispetto ai fabbisogni professionali espressi dal mercato del lavoro. Tale valutazione determina l’intensità delle iniziative necessarie per rendere il profilo del lavoratore maggiormente corrispondente alla domanda di lavoro del mercato. Conseguentemente, l’importo dell’assegno sarà proporzionato alla tipologia e al grado d’intervento che si ritiene necessario. Il titolare dell’assegno di ricollocazione, come anticipato, ha diritto a ottenere, in cambio, un servizio di assistenza intensiva nella ricerca del lavoro erogato dai centri per l’impiego oppure dai servizi per l’impiego privati accreditati. Il decreto legislativo n. 150/2015 definisce abbastanza precisamente in che cosa deve consistere il servizio di assistenza alla ricollocazione, prevedendo in realtà una serie di obblighi per il destinatario del servizio che creano la condizionalità tra il diritto al servizio e l’impegno del destinatario a partecipare attivamente alle iniziative organizzate a suo favore. Innanzitutto il servizio prevede l’individuazione di un tutor che affianchi il titolare dell’assegno di ricollocazione, il quale si assume l’impegno di svolgere le attività che il tutor definisce al fine del reinserimento del lavoratore nel mercato del lavoro. Il servizio si sostanzia nella definizione di un «programma di ricerca intensiva della nuova occupazione e la relativa area», che può comprendere anche un percorso di riqualificazione professionale che prenda in considerazione i concreti sbocchi occupazionali esistenti nell’area di riferimento. Come si può agevolmente comprendere si tratta di un’impostazione che promuove esigenze specifiche, mirate, affidate ad operatori dotati di una professionalità effettiva. E non di centinaia di migliaia di persone – individuate dall’aver ottenuto, a parte e in altra sede, una prestazione come il RdC – che intasano gli uffici dei CPI, in attesa di  ricevere tre offerte di lavoro che nessuno è in grado di organizzare e fornire, in quel numero e in quelle dimensioni, con la pretesa di una mobilità territoriale che non è stato possibile praticare neppure nel caso di un posto fisso e di ruolo nella scuola pubblica. In sostanza – come ha scritto Emmanuele Massagli di Adapt – l’assegno si può leggere come il tentativo di affidare indirettamente ai servizi privati per l’impiego il compito del reinserimento nel mercato dei soggetti più difficilmente occupabili, confidando nella loro capacità di fornire <un’assistenza appropriata nella ricerca della nuova occupazione, programmata, strutturata e gestita secondo le migliori tecniche del settore>. È, infatti, il lavoratore disoccupato titolare dell’assegno di ricollocazione che liberamente può scegliere l’operatore del mercato del lavoro accreditato a svolgere il servizio di assistenza intensiva nella ricerca del lavoro, a cui rivolgersi per acquisire il supporto specialistico.

Giuliano Cazzola

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Giuliano Cazzola

Giuliano Cazzola

Ex Sindacalista

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