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Home - Rubriche - Poveri e ricchi - La fragilità italiana, riassunta in cinque capitoli

La fragilità italiana, riassunta in cinque capitoli

di Maurizio Ricci
13 Febbraio 2018
in Poveri e ricchi, Analisi

A scorrere i programmi elettorali di tutti i partiti non si direbbe. L’immagine che evocano i dettagliati elenchi di promesse, infatti, è quella di un paese che si è risollevato dalla crisi, è uscito dall’emergenza e cammina con passo gagliardo e sicuro verso un futuro stabilmente luminoso: le elezioni come campanella di inizio ricreazione. L’attuale ripresa (1,6 per cento nel 2017, secondo il Fmi) viene vista come il primo stantuffo di un motore dello sviluppo che si è rimesso in moto e aspetta di prendere velocità. Ma è un miraggio. E’ molto più probabile che il 2017 rappresenti, invece, il picco di una ripresa che si accinge a perder colpi: così la pensa, del resto, proprio il Fmi che prevede un rallentamento all’1,4 per cento quest’anno e ancora all’1,1 il prossimo. Le stime inquadrano una ripresa che è sostanzialmente un rimbalzo ciclico (anche timido, a ben vedere) dopo una lunghissima crisi, trainata dalla buona salute dei nostri principali partner, priva della capacità di sostentamento che darebbe un nuovo, riconoscibile, modello di sviluppo, dopo quello – esaurito vent’anni fa – delle esportazioni a basso costo. E’ una ripresa fragile, precaria, che un probabile inasprimento, nei prossimi mesi, dei tassi di interesse potrebbe spazzar via.

In altre parole, non è vero che a preoccupare gli altri governi, investitori, mercati sia l’instabilità politica che potremmo registrare dopo il 4 marzo. Paesi così diversi come Germania, Olanda, Spagna hanno attraversato la stessa instabilità – mesi senza un governo con pieni poteri in carica – in assoluta serenità. Il problema italiano è quella instabilità politica proiettata su uno scenario di profondo deterioramento – strutturale – dell’economia. In Italia non se ne parla affatto, la stampa internazionale ci torna in continuazione. Ecco la fragilità italiana, riassunta in cinque capitoli.

Una crescita economica a rilento. E’ vero che da 4 anni l’Italia ha ripreso a crescere, che il ritmo di sviluppo a fine 2017 è stato il più rapido dal 2011, che, rispetto al 2013, il Pil è più largo del 4 per cento. Ma tutto è relativo: in un momento in cui tutto il mondo ha ripreso a crescere, l’Italia è, Grecia a parte, praticamente l’unico paese Ocse (il club dei paesi industrializzati) in cui il Pil 2017 sia ancora significativamente inferiore a quello del 2007.

La produttività svanita. E’ il motore dello sviluppo, che si calcoli il prodotto per addetto o per ora di lavoro. In Italia, è in caduta libera da venti anni. Fatto 100 il 2007, gli altri paesi del G7 hanno visto una iniziale flessione e poi una vigorosa ripresa, che ha portato ad una produttività fra il 5 e il 10 per cento superiore a 10 anni fa. L’Italia è l’unico paese in cui, nello stesso periodo, invece di aumentare, è diminuita del 5 per cento. Più che ad una ipotetica pigrizia dei lavoratori, è facile guardare agli strumenti con cui lavorano. Gli investimenti totali sono crollati: dal 22,1 per cento del Pil a fine 2007 al 17,33 per cento dieci anni dopo. Basterà il risanamento bancario in corso a rianimarli?

L’insostenibile pesantezza del debito. Con quali soldi i partiti potranno finanziare le loro promesse? Certo non con quelli presi a prestito. Dal 2007, quando era sotto il 100 per cento del Pil, il debito pubblico è salito di 33 punti, fino al 132 per cento del Pil. Colpa, soprattutto, della recessione che ha strangolato le entrate fiscali. Ma il risultato è che, se i tassi di interesse riprenderanno, come probabile, a salire, le risorse saranno sempre di meno. Gli ultimi Btp a 2 anni sono stati collocati sul mercato a tasso negativo (cioè gli investitori ci rimettono), ma non durerà. Nel 2017, l’Italia ha pagato 60 miliardi di euro di interessi sul debito pubblico, contro gli 80 di tre anni fa. Se il trend si inverte, prima di mantenere le promesse elettorali, bisognerà trovare 20 miliardi per pagare il debito.

Sotto i 25 anni il lavoro non si vede. E non si vede a prescindere dalla qualificazione. L’Italia ha un tasso di disoccupazione giovanile sopra il 30 per cento, contro il 17 per cento della media Ue. Ha il più alto numero, fra i paesi industrializzati, di giovani che non lavorano e non studiano. Soprattutto, Eurostat certifica che solo in Grecia c’è un più alto tasso di giovani che, anche tre anni dopo aver finito l’università, non riescono a trovare lavoro: la laurea si rivela solo un pezzo di carta per quasi metà di loro.

Gli stranieri si tengono lontani. Non è l’unico parametro, ma è significativo. Gli stranieri, in Italia, investono poco, soprattutto se si tratta non di comprare un’azienda già fatta, ma di partire da zero. Negli ultimi dieci anni, l’Italia ha raggranellato non più di 50 miliardi di euro di investimenti diretti dall’estero. Meno di un ottavo di quelli che sono andati in Gran Bretagna, la metà di quelli che sono stati scommessi sulla Francia.

Maurizio Ricci

Maurizio Ricci

Giornalista

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