Nonostante la crescita del Pil e il miglioramento dei livelli occupazionali generati in gran parte da contratti a tempo determinato “la qualità dello sviluppo del Paese non cresce, fermandosi agli stessi livelli dello scorso anno. Ciò è determinato dalla permanenza di una grande area di povertà e da un’ancora più grande area di vulnerabilità economica e sociale”. È quanto emerge dal terzo Rapporto “La qualità dello sviluppo” elaborato da Tecnè con la Fondazione Giuseppe Di Vittorio.
La ricerca evidenzia che in Italia “la forbice sociale si allarga, con la ricchezza che tende a concentrarsi nella popolazione ad alto reddito” mentre aumentano le distanze territoriali tra nord (in particolare il nord-est) e il resto del Paese.
Complessivamente, rileva lo studio, calano la fiducia economica e le attese per i successivi 12 mesi e peggiora anche l’indice che misura l’equità economica. A fronte del 5% che ritiene migliorata la condizione economica della propria famiglia rispetto a un anno fa, il 28% l’ha vista ulteriormente peggiorare. E quanto la forbice si stia allargando lo si rileva tra chi ha un reddito inferiore a 850 euro netti al mese, solo l`1% ha migliorato la propria condizione mentre il 49% l’ha peggiorata.
Prevale un sentimento di rassegnazione: il 75% pensa, infatti, che tra 12 mesi la propria situazione economica sarà uguale a oggi, e il 16% teme un peggioramento. Questa dinamica, è evidente nell’andamento dell’indice di sviluppo strutturale che cresce di 2 punti rispetto al 2015, passando da 100 a 102, mentre peggiora la qualità dello sviluppo individuale che scende a 98.
Per quanto riguarda le attese sull’andamento dell’occupazione nei prossimi mesi, il 44% del campione prevede che non crescerà e il 38% prevede una diminuzione.
“In sintesi – sottolinea la ricerca – anche se l’Italia cresce rispetto agli anni precedenti (spinta anche dal contesto internazionale favorevole) e migliorano le dotazioni strutturali del Paese, aumentano le differenze tra chi è sul treno della ripresa e chi, invece, non è ancora salito, col risultato che nel complesso il ceto medio è più fragile, i poveri più poveri, il lavoro percepito più instabile e nel complesso è più difficile migliorare le proprie condizioni economiche, sociali e professionali”.
Ad aggravare le disugualizanze anche il deterioramento dei sistemi di protezione sociale, proprio nelle aree a più forte disagio sociale: nel mezzogiorno la qualità dei servizi socio-assistenziali registra un’ulteriore flessione rispetto ai livelli già bassi del 2016 e del 2015.
“Nel complesso sono circa 12 milioni gli italiani che non hanno soldi per curarsi – prosegue lo studio – con un’incidenza più elevata proprio nel mezzogiorno e nell’area della vulnerabilità.
Chi è povero in Italia ha probabilità maggiori di restarlo, contrariamente a ciò che accade in altri Paesi avanzati dove la povertà ha caratteristiche più transitorie. E nemmeno il lavoro, che ne ha sempre costituito l’antidoto (si è creata un’importante area di disagio rappresentata da precari e part time involontari è in grado ormai di preservare dai rischi”.