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Home - Blog - Lo strano caso del polo moda di Reggio Emilia

Lo strano caso del polo moda di Reggio Emilia

di Giuliano Cazzola
7 Luglio 2025
in Blog
Lo strano caso del polo moda di Reggio Emilia

In quanto ex segretario generale della Cgil dell’Emilia Romagna (dal 1980 al 1985) seguo sempre con attenzione, sia pure da lontano, le vicende di quella che fu la mia regione. Ormai i sindacalisti che sono sulla piazza non erano ancora nati quando io ricoprivo quell’incarico; pertanto non conosco nessuno di loro, ma sono avvertito nei contesti politici e culturali in cui operano nelle diverse strutture territoriali o di categoria.

Nella Camera del Lavoro di Reggio Emilia, ad esempio, aveva attecchito il ‘’sandinismo’. Era questa la nomea che veniva attribuita ai compagni ‘’vicini’’ (si direbbe oggi) a Claudio Sabattini) amichevolmente definito Sandino 1° (una personalità politica allora Leader del Nicaragua che come il Sandino de noantri ha lasciato un segno che dura anche oggi). Non è un caso che, a Sabattini, alla segreteria generale della Fiom, succedettero alcuni reggiani, dai fratelli Rinaldini fino a Maurizio Landini, allevato con latte sandinista, ma troppo giovane per aver avuto rapporti intensi con Claudio. Ricordo che l’unica volta che io e lui ci incontrammo durante un dibattito televisivo, quando gli dissi che io avevo conosciuto di persona Sabattini già al liceo, mi guardò come se fossi appena arrivato da Fatima, fresco di apparizione della Madonna.

Ma non divaghiamo. Già ai miei tempi c’era nella provincia di Reggio Emilia una fabbrica ‘’difficile’’ anche allora, benché il sindacato avesse le spalle ben più robuste di quelle di oggi. La ditta (che nel diritto commerciale è il nome dell’impresa) era (ed è) la Max Mara, un nome prestigioso nel settore dell’abbigliamento. Ricordo ancora il confronto con gli attivisti di quella fabbrica, deboli con il padrone, ma molto critici con le scelte generali del sindacato. Da allora sono passati tanti anni, io ho ricoperto altri incarichi nella Cgil e ha intrapreso altri percorsi ed esperienze. Immagino che anche le lavoratrici dei miei tempi siano andate in pensione, ma che le relazioni industriali in quel gruppo siano rimaste difficili.

Che cosa ha richiamato la mia attenzione? Ho sentito l’eco di uno scontra tra l’Associazione industriali e la Cgil di Reggio Emilia in cui è rimasto coinvolto anche il Sindaco della città. In sostanza l’Associazione imprenditoriale accusa la Cgil di aver fatto saltare il più grande investimento industriale nella storia di Reggio (sic!) che Max Mara aveva concordato con l’Amministrazione comunale. Nei giorni scorsi Luigi Maramotti, presidente di Max Mara Fashion ha pubblicamente ritirato la proposta di realizzazione del progetto che oltre a costituire il Polo della moda, avrebbe avuto anche lo scopo di riqualificare l’area a Nord della città dove un tempo erano attive le fiere. Ciò veniva attribuito alle dichiarazioni, sgradite a Maramotti, del sindaco di Reggio Marco Massari, che aveva ricevuto alcune lavoratrici di Manifatture San Maurizio, società controllata dal gruppo. Le donne avevano lamentato condizioni di lavoro «oppressive» e avevano scioperato. Il primo cittadino aveva auspicato che il confronto in atto portasse ad un «miglioramento delle condizioni di lavoro delle dipendenti dell’azienda. Nella piena consapevolezza che esistono confini all’interno dei quali l’amministrazione comunale può muoversi, riteniamo che le segnalazioni di tutte le dipendenti meritino attenzione», aveva detto. Poi, come segno di imparzialità il sindaco nei giorni successivi, non aveva esitato a ricevere 68 lavoratrici sottoscrittrici di una nota congiunta con una posizione diversa dalle colleghe: «Lo stabilimento di Manifattura di San Maurizio è un ambiente di lavoro curato e sicuro, con attenzione al benessere delle lavoratrici – hanno scritto – ciò che ci ha colpito maggiormente è stata la rappresentazione distorta del nostro ambiente di lavoro trasmessa da alcuni media e dalla politica che non rispecchia in alcun modo il clima all’interno dello stabilimento né il vissuto della maggioranza di noi». In sostanza, una Marcia dei 40mila in miniatura (che, come quella del 1980, non va sottovalutata dal sindacato). Anche la Cisl ha espresso una posizione più cauta.

«Per coerenza con il nostro stile, abbiamo atteso alcuni giorni prima di intervenire pubblicamente sulle notizie che riguardano le nostre politiche del lavoro – sono le parole di una nota di Max Mara Fashion Group – la nostra azienda non è abituata a commentare, ma a lavorare. Da sempre mettiamo al centro dell’attenzione l’impegno quotidiano, i nostri collaboratori, il rispetto delle regole e la qualità del prodotto, convinti che sia questo il modo più autentico per contribuire a dare valore al nostro territorio e al nostro Paese». «Oggi, tuttavia, a causa di una campagna caratterizzata da disinformazione, sensazionalismo e superficialità sentiamo il dovere di prendere parola ed intervenire, sia per rispetto della verità che a tutela delle persone che ogni giorno, da quasi 75 anni, lavorano per la reputazione ed il prestigio di Max Mara Fashion Group. Ci ha sorpreso che accuse infondate in merito alle condizioni di lavoro vigenti all’interno di una azienda del nostro gruppo, sino ad insinuare che non vi sia rispettata la legalità, abbiano alimentato una narrazione che offende innanzitutto le persone che vi lavorano», continua il gruppo. «Intendiamo smentire che vi sia all’interno di Max Mara Fashion Group un clima lesivo della dignità delle persone, come confermato dall’intervento pubblico di una folta rappresentanza di lavoratrici della Manifatture di San Maurizio».

Che cosa lamenta Max Mara con l’appoggio della Confindustria reggiana? Sostanzialmente di essere stata diffamata portando la polemica sul piano nazionale, persino per mezzo di una interrogazione del Pd alla Camera da cui è partita una visita dell’Ispettorato del Lavoro. Mettiamo pure che a Reggio Emilia sia presente ancora qualche residuo di ‘’sandinismo’’, ma la posizione della Max Mara non si giustifica neppure con molta buona volontà. In primo luogo perché il Polo della Moda non sarebbe stato un atto di beneficienza, ma il gruppo ne avrebbe avuto una particolare convenienza. In questo caso è singolare che il business sia stato annullato in conseguenza di una campagna ritenuta diffamatoria: il che non sarebbe una novità perché le critiche alla gestione del personale da parte dell’azienda non sono mai venute meno nell’arco dei 75 anni della sua attività. Pertanto Maramotti dovrebbe averci fatto l’abitudine. In un primo momento avevo pensato che si trattasse di un caso diverso e cioè che il gruppo avesse condizionato l’investimento ad una modifica dell’organizzazione del lavoro e degli orari allo scopo di saturare al massimo l’utilizzo degli impianti e che queste ragionevoli richieste fossero state respinte dalla Cgil (in sostanza un caso Pomigliano di provincia). In sostanza, una falsa pista ed un processo alle intenzioni dettati da un residuo di pregiudizio verso il ‘’sandinismo’’.

Nella mia esperienza mi sono trovato ad affrontare un caso come mi ero immaginato. Capitò quando ero segretario generale della federazione dei chimici (allora Filcea) e Sergio Cofferati, era il mio “aggiunto” (è successo anche questo dal 1985 al 1987). Si era concluso un travagliatissimo accordo alla Michelin del settore gomma (pneumatici), una multinazionale che non andava troppo per il sottile e che si serviva dei suoi stabilimenti, sparsi per il mondo, con molta disinvoltura. In quel tempo, la Michelin aveva acquisito una grossa commessa ed era disposta a dirottarla sugli stabilimenti italiani (concentrati in Piemonte). Tale scelta avrebbe comportato il rientro dalla cassa integrazione di parecchi lavoratori in uno stabilimento nel torinese, nuove assunzioni in un altro, a condizione che nell’unità produttiva di Cuneo venisse modificato l’orario di lavoro, passando dalla settimana distribuita su cinque giorni ad un’organizzazione su turni che coprisse anche il sabato. Una soluzione permessa dai contratti collettivi e operante in parecchie aziende, quindi del tutto normale. Il sindacato unitario (la Fulc) aveva stipulato l’accordo e lo aveva sottoposto, incautamente, a referendum tra i lavoratori. L’unico stabilimento che si era espresso in senso contrario era stato, in larga maggioranza, proprio quello di Cuneo ( come diceva Totò: ‘’ho fatto il militare a Cuneo’’), il quale, essendo il più grande, aveva anche il maggior numero di occupati. Così l’intesa era stata bocciata: a prova che non sempre i lavoratori hanno ragione. E l’azienda ne aveva preso atto e si apprestava a spostare altrove la produzione della commessa. Se ben rammento in Belgio. La cosa avrebbe provocato un contraccolpo gravissimo sul piano dell’occupazione. I dirigenti confederali del Piemonte si precipitarono a Roma per incontrare il sottoscritto e Cofferati, chiedendo di confermare ugualmente l’intesa.

Noi – incalliti riformisti – non avevamo problemi a farlo, chiedemmo però di avere l’ok da parte della Confederazione. Alla riunione partecipò anche Fausto Bertinotti, allora segretario confederale, responsabile delle politiche industriali, il quale non poteva certo ignorare la gravità della situazione che si sarebbe determinata né l’insistenza dei suoi amici piemontesi perché l’accordo andasse comunque in porto. Ma fu tanto grande e percettibile la sua sofferenza nel dare il suo consenso, che arrivò a proporre a noi della Filcea di azzerare, a Cuneo, il tesseramento e di rifarlo di sana pianta, per dare almeno ai lavoratori la soddisfazione di non iscriversi più al sindacato. Ovviamente, nessuno gli diede ascolto.

Giuliano Cazzola

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