È innegabile che di fronte ai continui e spesso inattesi cambiamenti della vita economica in Italia e fuori di essa occorra coraggio e innovazione. Ma se il coraggio travalica il realismo può diventare temerarietà, con la conseguenza di non fare passi avanti, ma indietro.
Il tema della partecipazione, oggi, non è più materia di discussione, ma deve fare i conti con una legge che, solo parzialmente, ha recepito le indicazioni di una parte del movimento sindacale. Dettaglio non indifferente se si vuole ragionare su come procedere.
Finora gli atti legislativi di maggiore efficacia e portata sono arrivati al termine di un percorso sindacale unitario, là dove, per unitarietà, si intende sia uno sforzo comune delle tre confederazioni sia il rapporto sancito dal consenso largo dei lavoratori.
Nel caso della legge in questione, tale metodo non è stato onorato e non c’è stato, quindi, un supporto in grado di migliorare le norme varate.
Il riformismo sindacale ha avuto sempre, fin dai tempi di Bruno Buozzi, la convinzione che la dignità dei lavoratori dovesse essere suffragata da strumenti di controllo e di partecipazione alla vita delle aziende. In questo senso è stato “rivoluzionario” nei confronti di rigidità ideologiche che, a loro volta, pretendevano di assolvere a un compito altrettanto rivoluzionario. Ma il rapporto con la realtà è stato da sempre un pilastro delle lotte riformiste.
È quindi bene rifarsi a quel detto popolare secondo il quale “la gatta frettolosa fa gattini ciechi”. Ovvero, è necessario calare nella situazione attuale le concrete possibilità, per la legge sulla partecipazione, di diventare il motore di un’evoluzione positiva delle relazioni industriali e della vita delle aziende.
Oggi, si fa una fatica immensa a rinnovare i contratti di lavoro, mentre è molto difficile difendere i diritti fondamentali del lavoro dipendente. La questione salariale rimane prioritaria e non si vede come quel tipo di partecipazione possa facilitarla. È evidente che, in un momento simile, il solo parlare di partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali diventa impossibile. Tanto più che non vi sono nella legge norme obbliganti, ma solo decisioni volontarie.
La trasformazione dell’apparato produttivo italiano ha steso sulla realtà economica un tappeto di medie e piccole aziende, sempre più sfuggenti a una logica di trasformazione e sempre più costrette a innovare per non perdere mercato, senza ascoltare il parere di nessuno. Il territorio diventa allora l’area nella quale si prendono le vere decisioni: su questo punto, però, la legge sulla partecipazione tace.
Vi è, inoltre, un problema ancora più importante: per applicare la partecipazione occorre, a monte, una strategia economica e industriale che non si vede nemmeno lontanamente e che impegna il movimento sindacale in una dura resistenza per difendere posti di lavoro e prospettive minacciati, per un verso, dall’assenza di scelte chiare in Italia e, per l’altro, da ciò che avviene nel mondo.
Il tema della partecipazione resta comunque valido e da non sottovalutare. Prima, però, è necessario realizzare condizioni economiche, produttive e di rapporti fra le parti (pensiamo al nodo della rappresentanza) che fino ad ora non appaiono sufficienti per poter procedere.
Vi è di conseguenza un ruolo del CNEL in questa situazione? Certamente può essere utile, ma non se cristallizza in una commissione prematura e con inevitabili defezioni la sua azione, quando poi la legge neppure è applicabile immediatamente. Monitorare, inoltre, un atto legislativo, che richiede tempi di attuazione non definiti e, comunque, già ora, modifiche non da poco anche sul piano fiscale e “finanziario”, non sarebbe un sostegno a ciò che si è fatto, ma forse solo un’inutile fuga in avanti.
E qui si ritorna al problema centrale: si può far vivere una legge a sostegno dell’iniziativa sindacale quando essa non si avvale di sintonie in grado di includere e fare leva su un grande consenso di lavoratrici e lavoratori? È innegabile che una parte consistente del mondo del lavoro dipendente ha fatto da spettatore, neppure da osservatore. Ed è altrettanto necessario che anche nel CNEL, come nel Paese, si lavori con pazienza e spirito unitario a ricomporre diverse sensibilità.
Se un lavoro c’è da fare è quello di favorire, come del resto in molte occasioni e su molte problematiche il CNEL sta egregiamente facendo, la creazione di spazi di impegno comune fra le forze sociali rappresentate. Bruciare le tappe può voler solo dire non sfruttare opportunità che possono invece creare migliori condizioni di dialogo e di confronto con la realtà, di cui c’è grande bisogno.
Paolo Pirani, Consigliere CNEL