L’aula del Senato ha approvato in via definitiva il testo già approvato dalla Camera del disegno di legge delega in materia di retribuzione dei lavoratori e di contrattazione collettiva. Hanno votato a favore 78 senatori, contro 52. Si tratta del provvedimento che deriva dall’esame alla Camera, conclusosi il 6 dicembre del 2023, di una proposta delle opposizioni (il primo firmatario era il leader del M5S Giuseppe Conte, che poi annunciò il ritiro della firma a seguito della trasformazione del testo in una proposta di maggioranza) che originariamente chiedeva di fissare un salario minimo legale di 9 euro lordi l’ora.
Nei compiti che l’articolo 1, primo comma del testo, affida al Governo, si legge che esso “è delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, nel rispetto del diritto dell’Unione europea, uno o più decreti legislativi recanti disposizioni in materia di retribuzione dei lavoratori e di contrattazione collettiva, per il conseguimento dei seguenti obiettivi: a) assicurare ai lavoratori trattamenti retributivi giusti ed equi; b) contrastare il lavoro sottopagato, anche in relazione a specifici modelli organizzativi del lavoro e a specifiche categorie di lavoratori; c) stimolare il rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro nel rispetto dei tempi stabiliti dalle parti sociali, nell’interesse dei lavoratori; d) contrastare i fenomeni di concorrenza sleale attuati mediante la proliferazione di sistemi contrattuali finalizzati alla riduzione del costo del lavoro e delle tutele dei lavoratori (cosiddetto ‘dumping contrattuale’)”.
Scettica la reazione dei sindacati. Per Vera Buonomo, segretaria confederale della Uil, la legge delega sul salario minimo “non è la risposta che le lavoratrici e i lavoratori attendevano”. Al suo posto, piuttosto, “occorre una legge di sostegno agli accordi interconfederali e al Testo Unico sulla rappresentanza, così da rafforzare la contrattazione collettiva e contrastare il dumping contrattuale”.
In particolare, Buonomo sostiene che parlare di ‘trattamento economico minimo complessivo’ “senza definirne con precisione i contenuti” significa introdurre ulteriori elementi di incertezza. Inoltre, scegliendo di “affidarsi al criterio dei contratti “più applicati” anziché a quelli sottoscritti dalle organizzazioni realmente rappresentative” concretizza il rischio di alimentare il fenomeno del dumping contrattuale, minando così la tenuta del sistema. Infine, aggiunge la segretaria confederale, “l’ipotesi di differenziare i salari su base territoriale ripropone, sotto nuove vesti, l’idea delle vecchie gabbie salariali, che non farebbero altro che accrescere le disuguaglianze”.
“In Italia, le retribuzioni sono ferme da decenni, il potere d’acquisto è tra i più bassi in Europa e il lavoro povero, come quello in part-time involontario, è in crescita. Pertanto, la priorità deve essere rafforzare i contratti collettivi nazionali delle organizzazioni comparativamente più rappresentative. Solo così – conclude Buonomo – sarà possibile contrastare i contratti pirata e garantire l’applicazione dell’art. 36 della Costituzione, con tutele e salari adeguati in ogni settore”.


























