Il disegno di legge delega approvato l’altro ieri in Senato in materia di retribuzione dei lavoratori e di contrattazione collettiva potrebbe stravolgere la bussola per quanto riguarda l’individuazione dei contratti di riferimento da applicare nei diversi settori.
Nella prassi delle relazioni industriali, si è affermata la formula secondo cui si applicano i contratti collettivi nazionali di lavoro firmati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Si guarda sicuramente al contenuto dei contratto ma anche a chi lo ha stipulato, cioè alle parti sindacali, intese non solo come quelle che rappresentano i lavoratori ma anche come le loro controparti datoriali. Il concetto è espresso in modo chiaro in una sentenza del 10 aprile 2024 del Tribunale di Campobasso, chiamato a risolvere una controversia relativa all’applicazione del Contratto Terziario Confcommercio rispetto al contratto Anpit-Cisal. Il Tribunale, nella sentenza, ha affermato che “laddove per la medesima categoria vi sia una pluralità di contratti collettivi nazionali è necessario individuare il cd. contratto leader ” e che “per stabilire la maggiore o minore rappresentatività non si deve considerare il CCNL bensì le parti sociali, sia dal lato datoriale sia dal lato lavoratori”.
La giurisprudenza attribuisce ai sindacati maggiormente rappresentativi il potere di stipulare determinati contratti collettivi, ma non esclude la possibilità per altri sindacati di stipulare altri contratti, spesso chiamati “pirata” per la scarsa rappresentatività delle parti che hanno firmato il testo e che solitamente prevedono un costo del lavoro più basso rispetto ai contratti firmati da Cgil, Cisl e Uil. Questi ultimi avranno una portata limitata e si applicheranno solo ai lavoratori iscritti al sindacato che li ha stipulati.
Insomma, il concetto di rappresentanza è il cardine attorno a cui ruota l’intera contrattazione. Infatti, le parti sociali hanno lavorato nel tempo, fino a sottoscrivere l’accordo interconfederale nel 2014, su come misurare la rappresentanza e su quali criteri utilizzare per tale misurazione.
Una premessa necessaria per comprendere il cambio di direzione prospettato dalla legge delega, legge in cui fin dal primo articolo viene introdotta una nuova dicitura, ripetuta in articoli successivi: “stabilendo criteri che riconoscano l’applicazione dei trattamenti economici complessivi minimi previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro maggiormente applicati, il Governo è delegato ad adottare”, ecc.
“Maggiormente applicati” è una formula radicalmente diversa da maggiormente (e comparativamente) rappresentativi. Nel contesto attuale non si possono avvertire le sue implicazioni, quindi è necessario fare uno sforzo immaginativo e proiettarci di qualche anno avanti nel tempo. Per esempio, la maggioranza delle aziende di un settore si potrebbero spostare in blocco verso un contratto pirata, approfittando del cambio di paradigma previsto nel ddl che in pratica legittimerebbe quel contratto poco rappresentativo dato che risulterebbe, per l’appunto, maggiormente applicato. Viceversa il contratto maggiormente rappresentativo perderebbe la sua forza. Quindi, chi rappresenta pochi e costruisce un contratto, applicato dalla maggioranza delle imprese e dei lavoratori, si ritroverebbe di fatto ad essere considerato punto di riferimento contrattuale. Mentre chi rappresenta la maggioranza di lavoratori e imprese si ritroverebbe, per converso, marginalizzato e quasi svuotato di senso, dato che il contratto che ne scaturirebbe non verrebbe preso in considerazione se non riuscisse ad essere, come prevede la legge delega, anche il maggiormente applicato.
È pur vero che i contratti nazionali tengono insieme un grande numero di imprese e lavoratori, quindi sul piano quantitativo è difficile immaginare che, di punto in bianco, la maggioranza si sposti verso un contratto pirata.
Si tenga però conto di due elementi: il primo è il numero totale dei contratti. Nel corso di questi ultimi 20 anni, siamo passati da circa trecento contratti registrati al Cnel a più di mille, un aumento che non accenna a rallentare e imputabile in larga parte proprio ai contratti pirata. Un numero elevato di contratti significa che numerosi accordi regolano anche piccoli settori, di nicchia o a elevata specializzazione, che abbracciano un limitato numero di aziende e lavoratori. E qui arriviamo al secondo elemento, cioè l’importanza della perimetrazione contrattuale. Perché un’area ristretta renderebbe più semplice per le poche aziende che la abitano organizzarsi tra loro e in blocco cambiare casacca verso un contratto pirata per trasformarlo in contratto leader, sfruttando appunto l’escamotage della dicitura “maggiormente applicato” che sembra offrire la legge delega.
Certo, sul fronte della perimetrazione contrattuale le parti sociali hanno provato a metter mano grazie al Patto per la fabbrica: un accordo che Confindustria, Cgil, Cisl, Uil hanno sottoscritto il 9 marzo 2018 e rappresenta, come ha precisato in una nota il giuslavorista Michel Martone, “il più avanzato tentativo sindacale di definire i perimetri all’interno dei quali selezionare il contratto collettivo di cui estendere l’efficacia”. Tentativo appunto, perché le relazioni industriali attendono ancora uno sviluppo concreto di quell’accordo.
Quindi per paradosso, proprio laddove la giurisprudenza in lunghi decenni non è riuscita a dare una piena legittimità erga omnes ai contratti firmati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, oggi il pericolo è che questa legge delega riesca a legittimare in tal senso la cosiddetta contrattazione pirata. E, dato che questa mano ai “pirati” viene tesa dallo Stato, sarebbe forse più consono chiamarla contrattazione “corsara”.
Emanuele Ghiani




























