Non solo la Fornero non è stata superata, ma l’esecutivo ha accresciuto i parametri per la pensione anticipata, ha ridotto la flessibilità in uscita e si inventa soluzioni immaginifiche, come quella del Tfr, per porre rimedio a problemi che lui stesso ha creato. È questa l’analisi di Ezio Cigna, responsabile dell’Ufficio previdenza della Cgil. Sulla tema, afferma, si fanno molti spot elettorali ma manca una visione che guardi al futuro del sistema.
Cigna secondo lei il governo come ha maneggiato il tema delle pensioni?
L’unico incontro con il governo sulle pensioni lo abbiamo avuto il 18 settembre del 2023. In campagna elettorale una parte della maggioranza, ossia la Lega, aveva promesso di superare la Fornero cosa non è avvenuta. Anzi da quando è in carica l’esecutivo ha inasprito i requisiti di accesso alla pensione anticipata, ha ridotto la flessibilità in uscita, penso a Opzione Donna o all’Ape Sociale, e abbiamo l’età più alta per la pensione di vecchiaia a 67 anni. In tutto questo non c’è stata alcuna discussione per avviare una riforma seria del sistema previdenziale. Il confronto con il sindacato è stato assente e si ha l’impressione che si vogliano usare le pensioni come materia di scambio in cabina elettorale, attraverso proposte spot.
Sulla pensione anticipata che cosa è avvenuto?
La legge Fornero, nel 2011, aveva stabilito che per accedere alla pensione anticipata servivano 63 anni e una somma pari a 2,8 volte l’assegno sociale. Tradotto un importo di 1.309 euro per chi aveva iniziato a lavorare dopo il 1996. Il governo Meloni ha alzato l’età a 64 anni e ha stabilito una soglia pari a 3,2 volte l’assegno sociale che vuol dire che quell’importo è schizzato a 1.811 euro. Per quei 500 euro in più chi è entrato nel mondo del lavoro nell’96 dovrebbe accumulare 388mila euro di stipendio aggiuntivo. L’innalzamento dei requisiti, inoltre, è stato fatto in una fase nella quale abbiamo avuto un’inflazione a due cifre, come non si vedeva dagli anni Novanta.
Questo che cosa comporta?
Che in un paese con carriere discontinue e salari stagnanti da anni pochissimo possono raggiungere questo importo. Ci troviamo nel paradosso che chi ha percepito una robusta retribuzione e in modo continuativo, anche con 20/25 anni di contributi può andare in pensione. Mentre la donna delle pulizie, che ha svolto un lavoro gravoso, con discontinuità e un salario povero, potrà vedere la pensione solo a 71 anni con il rischio di non poter godere di tutti i contributi versati perché muta l’aspettativa di vita. E questo è un problema per un paese con la più bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro di tutta Europa e con oltre 4 milioni di donne in part time. La domanda che bisogna porsi è se sia ancora equo individuare l’importo soglia come criterio per accedere alla pensione anticipata. In più la maggioranza crea il problema e poi ricorre a soluzioni molto fantasiose e non percorribili come l’utilizzo del Tfr.
Lei si riferisce alla possibilità avanzata dal sottosegretario al ministero del Lavoro Durigon. Perché non la convince?
Prima di tutto perché è una forzatura a un problema creato dallo stesso esecutivo. E poi perché lo dicono i numeri. Attraverso delle simulazioni, con scaglioni di 8mila, 20mila, 30mila e 50mila euro di reddito per 25, 30 e 40 anni di carriera, abbiamo scoperto che anche il Tfr non serve a raggiungere l’importo soglia per quei lavoratori che non ce la fanno sulla base del salario percepito e degli anni di lavoro. Poi il Tfr è salario differito dei lavoratori e non può essere usato per la flessibilità in uscita. Trattatosi di una mensilità all’anno che viene accantonata, se la busta paga è leggera lo sarà anche il Tfr e non esiste una platea di lavoratori che possa percorrere questa strada. Chi, invece, ha un Tfr cospicuo, perché ha lavorato quarant’anni con un salario di 50mila euro, non ne ha bisogno per accedere alla pensione anticipata. Il governo poi si contraddice su un altro punto ossia sulla previdenza complementare. Se infatti si ipotizza di usare il Tfr per uscire prima dal mondo del lavoro si fa venir meno quello strumento che ha reso appetibili i fondi integrativi alle nuove generazioni.
Un’altra cosa che avete denunciato sono i tagli operati dal governo alle pensioni dei dipendenti pubblici scritti a CPDEL, CPS, CPI e CPUG.
Per la legge di bilancio del 2024 l’esecutivo aveva necessità di raggranellare ulteriori risorse e lo ha fatto rivedendo le aliquote di rendimento per la quiescenza anticipata. Una cosa che nessun governo aveva mai realizzato, neanche la Fornero che aveva messo mano sulle regole di uscita, intervenendo retroattivamente su posizioni pensionistiche già maturare per tutti quei dipendenti che al 1995 hanno meno di 15 anni di contributi versati. Quindi il governo invece di impegnarsi per garantire una rapida esigibilità del Tfs per i pubblici, come chiesto anche dalla Corte Costituzionale, taglia le pensioni.
Il sistema previdenziale è solido?
I rendiconti dell’Inps ci dicono che al momento il sistema regge. Ad oggi ci sono 1,4 lavoratori per ogni pensionato. Questo è un rapporto centrale che dobbiamo monitorare e che tra una decina di anni dovrebbe ridursi e arrivare a un rapporto di 1 a 1. Questo dipende non solo dal calo demografico ma anche dell’invecchiamento della popolazione. Quindi avremo meno persone nel mercato del lavoro. Premesso che non bisogna contare le singole teste ma le ore di lavoro di ognuna, in questi anni il mondo del lavoro ha subito e sta subendo grandi trasformazioni sotto la spinta dell’innovazione tecnologica. Sono mutati i luoghi di lavoro e le grandi realtà hanno ridotto l’organico ma mantenuto intatti i profitti. Dunque se il saldo tra attivi e pensionati va in negativo dobbiamo trovare altre fonti di finanziamento del sistema, facendo pagare alle aziende le pensioni non sulle persone impiegate ma sui profitti. Dobbiamo, inoltre, affrontare in modo diverso la questione migratoria e capire che i lavoratori stranieri hanno un impatto assolutamente positivo sull’ente previdenziale e che in prospettiva ne avremo sempre più bisogno.
Quali sono le vostre proposte?
Cgil, Cisl e Uil hanno presentato una piattaforma unitaria, rivista negli anni, nella quale abbiamo ribadito che se i più fragili del mercato del lavoro non hanno nessuna garanzia di una pensione dignitosa rischia di venire meno quel patto generazionale che tiene insieme un sistema a ripartizione come il nostro dove chi è al lavoro paga le pensioni future. Perché a fronte di pensioni povere dopo anni di contributi rischia di essere molto più conveniente non versare la contribuzione previdenziale e ricevere l’assegno sociale. Secondo noi bisogna valorizzare il percorso professionale di una persona, attraverso il riconoscimento di alcuni periodi, come i quelli legati alla formazione, alle politiche attive, di maternità, di stage, diciamo tutti quei periodi degni una tutela, ovviamente senza regalare nulla a nessuno, ma neanche rendendo più appetibile l’assegno sociale. L’obiettivo sarebbe quello di andare verso una pensione di garanzia, graduata secondo gli anni di contribuzione e di età. Quindi bisogna rivedere il sistema partendo dalle nuove generazioni, perché solo così si garantisce la sostenibilità anche a chi è già in pensione, intervenendo, da un lato, sulle misure che hanno una scadenza breve, da discutere a ogni finanziaria e, dall’altro, aprire un cantiere per dare un futuro alla nostra previdenza.
Tommaso Nutarelli


























