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Home - Approfondimenti - Analisi - Se il ‘’secondo welfare” si mangia la sanità pubblica

Se il ‘’secondo welfare” si mangia la sanità pubblica

di Tommaso Nutarelli
9 Marzo 2017
in Analisi

Un tema sempre più presente all’interno del mondo del lavoro è rappresentato dall’ampio sviluppo che sta avendo il secondo welfare, un’espressione che raggruppa dentro di sé numerose iniziative che rientrano nell’area delle politiche sociali, promosse attraverso la contrattazione tra sindacati e imprese. Il welfare aziendale e quello contrattuale sono una delle tante declinazioni nelle quali il secondo welfare può concretizzarsi.

La crescita impetuosa di pratiche di welfare nelle dinamiche contrattuali, anche come strumento di moderazione salariale, costituisce un fatto legato alla particolare crisi economica, e al regime di agevolazione fiscale introdotto con la legge di bilancio per il 2016. Una crescita che merita un monitoraggio costante. Perché il secondo welfare, e nello specifico quello contrattuale, è una sorta di Giano bifronte che può, da una parte, essere foriero di benefici per i lavoratori, ma dall’altra innescare un rapporto perverso con quello pubblico, aggravando le disparità sociali. Proprio  su questa duplicità pericolosa si è focalizzato il seminario organizzato dalla Fp Cgil, al quale sono intervenuti il prof. Stefano Neri, docente di  Sociologia dell’Organizzazione all’Università degli Studi di Milano, e Franco Martini, Segretario Nazionale Cgil.  La domanda dalla quale sono partiti i lavori promossi dal sindacato è cercare di capire che tipo di welfare contrattuale si vuole promuovere. Un welfare che sia inclusivo, integrativo e non sostitutivo, e’ sostanzialmente l’obiettivo indicato.

Il prof. Neri ha illustrato lo stato dell’arte del welfare pubblico in Italia e dei fondi sanitari integrativi. In sostanza, spiega Neri, in un momento di forti tagli alla spesa pubblica, dove il retrenchment del welfare pubblico sembra essere diventato un mantra costantemente ripetuto e perseguito dalle istituzioni, è forte la tentazione di dare spazio a forme alternative di welfare, che possono rappresentare un’integrazione e un supporto a quello pubblico, ma che non dovrebbero mai diventarne un sostituto. Questo perché il pericolo di aggravare ulteriormente le disparità tra insiders e outsiders del mercato del lavoro, così come quello di ampliare la forbice tra settori produttivi e la lavoratori più o meno forti, e le disuguaglianze tra Nord e Sud del Paese è molto concreto.

Il rischio maggiore è quello che corre il SSN, in seguito al forte sviluppo dei fondi sanitari: a oggi se ne contano 305, a quali aderiscono circa 9 milioni di persone, delle quali 7 milioni sono lavoratori dipendenti. Il successo dei fondi deriva principalmente da due fattori: da una parte l’insoddisfazione dell’utenza nei confronti delle prestazioni del SSN, sia mediche sia soprattutto per le lunge liste d’attesa, e dall’altra la vasta gamma di servizi offerti dai fondi, come ad esempio le cure odontoiatriche.

Il punto è capire in che modo i fondi sanitari si relazionano al SSN. Se le prestazioni comprese in questi fondi svolgono una funzione complementare e di supporto all’offerta pubblica, possiamo naturalmente riscontrare dei benefici, poiché vorrebbe dire mettere al servizio del cittadino un pacchetto di cure molto più ampio, meno standardizzato e più aderente ai bisogni del singolo, capace di superare le lungaggini burocratiche. Se invece dovessimo imboccare la strada di una sovrapposizione tra pubblico e privato, se non addirittura di una sostituzione del primo con il secondo, cosa che peraltro già sta avvenendo, allora la possibilità di un cortocircuito potrebbe essere concreta.

La prima problematicità riguarda il grado di copertura offerto dai fondi sanitari, incapaci di avere lo stesso spirito universalistico del SSN. I fondi sanitari sono generalmente istituti legati a un particolare settore professionale, rivolti esclusivamente ai lavoratori di quel comparto e ai loro familiari. Questo esclude ovviamente chi non fa parte di quella specifica categoria professionale, aumentando l’eterogeneità tra settori produttivi forti e deboli, facendo crescere un senso di appartenenza alla propria categoria che potrebbe sfociare nel corporativismo. Inoltre, la copertura offerta dai fondi integrativi accompagna i lavoratori fino alla pensione, dopodiché non offre più nessun tipo di tutela.

Altro elemento di criticità è dato dal tipo di prestazioni proposte. Molto spesso si tratta di un’offerta che replica sostanzialmente quella del SSN, venendo meno, così, il carattere integrativo e non sostitutivo del welfare contrattuale. Mentre un  aspetto sul quale il secondo welfare potrebbe rappresentare un aiuto al welfare pubblico è la non autosufficienza, che costituisce un grande nervo scoperto del sistema di assistenza italiano. Ma su questo terreno, i fondi integrativi non offrono nessuno tipo di protezione.

Le conclusioni, affidate a Franco Martini, hanno evidenziato le problematiche che attenderanno il SSN nel prossimo futuro. “Il rischio – spiega il sindacalista –  è che in prospettiva la sanità pubblica assuma un ruolo sempre più residuale, se continuerà questo flusso ingente di risorse verso il privato. In questo modo verranno tagliati fuori dal sistema di cure i pensionati, che una volta terminato il rapporto di lavoro non potranno più usufruire dei fondi sanitari di categoria, e chi è ai margini del mercato del lavoro. Il welfare contrattuale – conclude Martini –  può integrare quello pubblico, anche al livello aziendale, offrendo servizi di conciliazione tra vita e lavoro, comprendo bisogni che il raggio delle politiche pubbliche non riescono a soddisfare. Questo è il buono che possiamo prendere dal welfare contrattuale, evitando tutti quegli effetti distorsivi che andranno inevitabilmente a aggravare le disparità economico-sociali presenti in questo paese.”

Tommaso Nutarelli

Tags: CgilWelfare
Tommaso Nutarelli

Tommaso Nutarelli

Giornalista de Il diario del lavoro.

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