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Home - Seminari - Le proposte degli “under 40” per i rinnovi contrattuali

Le proposte degli “under 40” per i rinnovi contrattuali

3 Aprile 2015
in Seminari

Sono ben 45 i contratti nazionali ancora in attesa di rinnovo, e riguardano una vasta platea di oltre 6 milioni di lavoratori interessati. Il quadro economico non induce a ottimismi, ma i contratti sono comunque indispensabili: come se ne uscirà? A questa domanda ha cercato di rispondere il secondo seminario organizzato dal Diario del lavoro con i rappresentanti “under 40” del mondo imprenditoriale, sindacale e accademico. Ecco, in una sintesi della discussione, le loro opinioni e proposte.

Riccardo Sanna, economista, ha aperto il suo intervento parlando del costo del lavoro in Italia che, sebbene negli ultimi anni sia cresciuto, di pari passo con l’inflazione e comunque meno della produttività, rimane ancora sotto la media dei paesi Ue. “La causa –ha spiegato Sanna- è nell’aumento delle disuguaglianze, soprattutto nella distribuzione del reddito primario, e alla debolezza strutturale del sistema di imprese”, a un sistema, cioè, ancora fortemente polarizzato tra imprese tese all’internazionalizzazione e non. Quanto al tema della contrattazione, Sanna ha ricordato che a tutt’oggi sono 45 i contratti in attesa di rinnovo, pari a 6 milioni di lavoratori interessati. L’economista ha poi illustrato quale potrebbe essere la miglior strategia per risanare questo stato di crisi del mercato del lavoro: “una contrattazione che leghi la crescita dei salari a quella della produttività, dato che, se i salari crescono meno della produttività, scende anche il tasso di occupazione”. “Per questo –ha aggiunto – il contratto nazionale è uno strumento importante per evitare ulteriori ricadute” e la miglior via percorribile è quella di una “redistribuzione sostenibile del reddito, volta cioè all’aumento della massa salariale, dell’occupazione”. “Per far questo, però –ha concluso l’economista- oltre alle relazioni industriali serve anche una vera politica industriale”.

Marco Bentivogli, segretario generale della Fim Cisl, ha illustrato lo stato del settore metalmeccanico in Italia: “un terzo è composto da imprese proiettate verso l’export, alcune anche tramite ricorso alla delocalizzazione, altre no; un altro terzo da imprese rivolte verso il  mercato interno, che attende la famigerata ripartenza; e infine un terzo composto da imprese destinate alla dissoluzione”. Il reale problema della crisi economica, secondo Bentivogli, a parte quello della sparizione di un terzo del tessuto produttivo nazionale, consisterebbe nella “mancanza di investimenti privati, equivalenti a una perdita di 80 miliardi di euro”. “Purtroppo -ha aggiunto – nel sindacato non ci sono le idee su come far ripartire la politica industriale nel paese”. Sul tema della contrattazione, definito come elemento “non solo di coesione sociale” ma fondamentale anche per la “ripartenza economica del paese”, il segretario ha sottolineato come sia tanto più difficile oggi, in assenza di un sistema di regole (scadute nel 2013) sulla contrattazione stessa, negoziare per i rinnovi. Ed è proprio quest’assenza di regole, secondo Bentivogli, ad aver autorizzato Confindustria a non considerare importante l’istituto del rinnovo contrattuale. Ma “la Cisl –ha assicurato il segretario- vuole riaprire il confronto per convincere Confindustria a cambiare idea, superando i reciproci conservatorismi”. In quanto alle proposte, il segretario dei metalmeccanici ha suggerito che, oltre alla riduzione del numero (circa 400) di contratti nazionali, bisognerebbe adoperare il contratto nazionale per stabilire un rapporto fra primo e secondo livello di contrattazione, lasciando a ciascun livello una certa autonomia, senza creare cioè sovrapposizioni”. “Il contratto nazionale – ha precisato- dovrebbe essere strutturato in modo che la contrattazione di primo livello, incentrata sui salari, funga da spinta a quella di secondo livello, incentrata invece sulle questioni di produttività e sull’organizzazione del lavoro, evitando la tenaglia del paternalismo e antagonismo”. Ma per far questo –ha concluso Bentivogli- servono relazioni industriali più partecipative. Questa la vera sfida”.

Marco Gay, presidente dei Giovani imprenditori di Confindustria, ha iniziato parlando delle strategie di politica industriale da adottare in Italia. “Innanzitutto –ha affermato- bisogna capire chi siamo e dove vogliamo andare, e, da lì, comprendere affondo i problemi specifici di ogni settore”. Facendo poi riferimento al caso Ilva, “che – ha precisato- non è un problema solo tarantino e del settore siderurgico, ma una questione di interesse nazionale”, il presidente dei giovani imprenditori ha dichiarato: “Gli investimenti pubblici hanno un ruolo assolutamente centrale, che non va a sostituire gli investimenti privati, ma anzi ad incentivarli. Il mercato privato – ha aggiunto- è essenziale per la creazione di quel reddito di cui il mercato interno necessita”. A proposito della necessità di riformare le imprese, Gay ha parlato della delocalizzazione aziendale come di una necessità “ma non a tutti i costi. Va bene se è l’unico modo per salvare l’azienda, ma se si ricorre alla delocalizzazione solo per massimizzare i profitti, io da investitore, non lo capisco. Bisogna aver rispetto e consapevolezza del territorio”. E sono proprio i contratti nazionali, secondo Gay, a dover dare le linee guida per una contrattazione attenta al territorio e alle realtà aziendali locali. Ma i contratti, ha specificato, devono essere usati anche come strumenti per creare competitività: “il nostro costo del lavoro è più alto del 18% rispetto a quello dei nostri competitors Ocse, ed è di questo “18”, piu’ che dell’articolo 18,  che dovremmo preoccuparci”. “Per fortuna – ha aggiunto riferendosi all’intervento di Marco Bentivogli- oggi ho sentito dire, per la prima volta, che si può contrattare anche senza dover legare tutto all’aumento salariale”. In conclusione, condividendo ancora una volta le parole del segretario dei metalmeccanici Fim, Gay ha affermato che “se i contratti sono solo espressione di rapporti di forza, non servono a nulla”. “Bisogna superare gli sterili antagonismi. Oggi  -ha concluso- non è il momento per litigare, ma di guardare al paese come uno di quelli che ha le carte in regola per competere”.

Andrea Ciarini, sociologo del lavoro, ha incentrato il suo intervento sul concetto di welfare, tanto quello contrattuale quanto integrativo, che dovrebbe legarsi maggiormente agli aumenti salariali. Quello del welfare, secondo Ciarini, è “un ambito da potenziare, ma ha dei limiti insiti nell’assenza normativa del riconoscimento dell’azione sindacale contrattuale su questo tema”. Per questo il sociologo ha auspicato un ampliamento del riconoscimento legale dell’istituto. Il welfare integrativo, inoltre – ha aggiunto il sociologo- oggi riguarda anche nuovi rischi sociali per i lavoratori, ma privi di copertura pubblica”. Ciarini ha quindi invitato ad aprire una discussione seria sull’istituto del salario minimo, di cui solo Italia e Grecia sono rimaste prive. In conclusione il sociologo ha affermato che, “continuando a vedere le culture sindacali come fisse e destinate a riprodursi sempre uguali a se stesse, non agevoliamo quel processo di rinnovamento culturale necessario a colmare il gap, generato dalla crisi economica, fra vecchie e nuove esigenze dei lavoratori”.

Lucia Grossi, segretaria generale Uiltemp, ha illustrato la proposta del suo sindacato incentrata sul concetto di “continuità del reddito” e sull’ampliamento del bacino di “utenti del contratto”, ossia i lavoratori atipici. “Non parliamo mai – ha dichiarato Grossi- dei circa sei milioni e mezzo di persone non tutelate dal contratto. È una fetta di mercato alla quale nessuno guarda”. “Il welfare bilaterale – ha proseguito-, istituto che in realtà esiste già da dodici anni, ma di cui quasi nessuno parla, sarebbe utile per tutti quei lavoratori con contratti di lavoro in somministrazione”. “Bisogna – ha precisato Grossi- risvegliare la coscienza e la dignità dei lavoratori atipici; va bene parlare di competitività, ma la professionalità dove la lasciamo?”. Il mercato del lavoro, ha spiegato la sindacalista, è ormai sempre più frammentato, “il che ci obbliga a capire, come sindacato, dove stiamo andando e per chi”. “Il sistema delle partite Iva, ad esempio, – ha concluso Grossi- è un sistema malato basato sul ricatto imposto a lavoratori che svolgono a tutti gli effetti un’attività subordinata”. Welfare, continuità di reddito e formazione tesa alla riqualifica professionale, sono quindi i tre pilastri che, secondo Grossi, andrebbero presi a modello per rinnovare i contratti.

Bernardo Marasco, segretario della Filctem Cgil, ha aperto il suo intervento lanciando due spunti utili al miglioramento delle modalità di rinnovo contrattuale: “evitare l’eccessiva semplificazione, che incentiva l’autoreferenzialità di ciascun attore sociale, e impedire che la politica tolga potere alla negoziazione sindacale”. “Bisognerebbe – ha proseguito Marasco- fare politiche industriali che calcolino le ricadute fra un livello aziendale e l’altro, dato che è proprio a livello locale e aziendale che si annidano le sacche di criminalità”. Il sindacalista ha quindi invitato a riflettere sul giusto spazio della contrattazione, che dovrebbe trovare la sua “declinazione nel rapporto fra capitale e territorio”. Uno spazio ben delimitato, quindi, “ma che mi permetta di agire e negoziare là dove ho bisogno”. L’organizzazione del lavoro è, infatti, per il sindacalista, uno dei temi portanti della buona e sana contrattazione, più importante anche della redistribuzione della ricchezza, perché “è a questo livello che si determina la qualità del lavoro”. Occorre dunque partire dalla riqualificazione del territorio, rispecchiando così il vero valore aggiunto della contrattazione, ossia “produrre capillarità”. Il sindacalista ha concluso il suo intervento facendo riferimento al concetto di inclusività: “se i sindacati si rifiutano di normare questioni che interessano pochi, o pochissimi, lavoratori, il rischio è che la contrattazione diventi corporativa”. “Solo tramite istituti quali ad esempio il welfare aziendale – ha concluso Marasco- si apre al sindacato la possibilità di declinare se stesso come strumento anticorporativo, inclusivo, e teso all’ampliamento delle tutele sociali”.

Lina Lucci, segretaria generale della Cisl Campania, ha aperto il suo intervento criticando il disinteresse del governo Renzi verso quanto accade sul territorio e, di conseguenza, la chiusura al dialogo con i sindacati: “Continuando a dire che i sindacati non servono, non si va avanti. Il governo dovrebbe fare delle scelte, come ad esempio quella di un modello di economia per il paese e delle relative politiche industriali da mettere in campo”. La pericolosità del clima di “qualunquismo, sotto il quale si nasconde la strategia del corporativismo dei poteri e degli interessi”, è che non si facciano dialogare fra loro i luoghi e gli attori sociali del lavoro. “Noi, in Campania, – ha spiegato la sindacalista- abbiamo iniziato a dialogare con gli attori sociali locali, in primis i sindaci, obbligandoli a dare delle risposte concrete per il territorio e a stare dentro la contrattazione territoriale”. Il sindaco, secondo Lucci, è quella figura che, per incentivare l’azienda a rimanere sul territorio, dovrebbe offrire ogni tipo di assistenza, agevolazione e semplificazione nei relativi processi burocratici e amministrativi. “Il nostro non è solo un monitoraggio di facciata –ha precisato Lucci-, la Cisl ha cambiato pelle, ed è presente sul territorio per monitorare l’impatto sociale”. La necessità di esercitare la contrattazione in Italia, ha concluso la sindacalista, risiede nel carattere “pattizio” della contrattazione stessa.

Luigi Mazza, responsabile Risorse Umane di ItaliaCamp, ha invitato a riflettere sul cambiamento sociale che ha portato alla nascita di una nuova categoria di lavoratori in Italia, al quale le istituzioni, tanto il governo, quanto i sindacati, dovrebbero riuscire a dare delle risposte. “Finché il sindacato non innova i propri modelli, le persone, soprattutto giovani qualificati che vogliono collocarsi nel mercato del lavoro, saranno escluse dalle logiche della contrattazione o, al limite, intercettate dal governo”. “Le piattaforme non possono parlare solo di salari. C’è  bisogno di semplificazione, innovazione e di comprendere a fondo le necessità dei nuovi lavoratori”, ha concluso.

Maria Cristina Cimaglia, giuslavorista, ricollegandosi all’intervento di Mazza, ha affermato che per affrontare la contrattazione collettiva bisogna partire proprio dalle “idee delle nuove generazioni”, ma soprattutto dalla comprensione e analisi degli “effetti della crisi sui diritti fondamentali del cittadino”. “La contrattazione deve giocare il proprio ruolo, andando oltre il proprio steccato, per affrontare questo aspetto più generale”, ha affermato. Al di là dell’inflazione e del problema retributivo, ha proseguito Cimaglia, la crisi si manifesta anche nel peggioramento dei servizi, sanitaria, di assistenza, dei trasporti, delle scuole, etc. “Per questo il bisogno del lavoratore non si riduce solamente alla mera questione retributiva salariale”. Quanto al Jobs act, e alle sue ricadute sulla contrattazione, Cimaglia ha affermato: “Sulle collaborazioni e sul demansionamento, il Jobs act rimette tutto alla contrattazione aziendale, allargando il bacino della contrattazione ma ponendo, al tempo stesso, un problema di organizzazione”. Secondo la giuslavorista è soprattutto a livello territoriale che vanno affrontati tali nodi, tramite un tipo d’azione “inclusiva, non solo dei lavoratori, ma anche dei datori di lavoro”.

Fabiana Palombo

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