- Parliamo del lavoro salariato. “Valore” va inteso come peso, significati, incidenza, del lavoro nella cultura politica e sociale, nell’opinione pubblica, nei media e fra gli stessi lavoratori.
Le osservazioni, che seguono, si collocano all’interno di queste tre tesi:
1) Fino all’inizio della crisi, i 5/6 dei lavoratori e delle loro famiglie vivono meglio del passato, molto meglio che nel decennio’50. Si è costruita la “società del benessere”, sia pure con forti disuguaglianze e una quota di poveri (povertà relativa, non assoluta).
2) Il lavoro, anche prima della crisi, dopo gli anni ’80, sembra avere meno valore; almeno sul piano ideologico. Sono state consumate le possibilità del riscatto di classe, il capitalismo è sostanzialmente accettato da (quasi) tutti e prevale l’idea che la spesa sociale non abbia limiti.
3) Il lavoro, centrale sul piano oggettivo e per lo status del lavoratore e famiglia, conta meno soggettivamente. Accanto al lavoro, abbiamo molte “attività”, che riempiono la vita. I lavoratori sono “distratti” dalle attività collaterali.
1) Le condizioni materiali dei lavoratori migliorano decisamente, un poco anche dopo gli anni ’80, quando inizia il ristagno della nostra economia. Pezzi forti: alimentazione, casa, auto. I lavoratori crescono di statura, di salute, di istruzione. Si passa dalla psicologia della scarsità a quella del “comperare”. L’usato (vedi abbigliamento) non viene più usato.
Molti,compresi i lavoratori, sono più liberi sul piano esistenziale: amicizie, amori, viaggi, letture, discussioni e contrapposizioni.
Il lavoro è tutelato dai sindacati in crescita di adesioni e di potere; il sistema del Welfare diventa robusto, seppur poco ordinato e poco previdente.
Spiccata la mobilità geografica interna e inizia la mobilità sociale ascendente per i “ceti umili”.
Sembrerebbe che sia stato applicato l’articolo 1 della Costituzione.
2) La domanda di lavoro è divenuta inferiore all’offerta. C’è abbondanza di lavoro, specie per due fattori (con aspetti positivi): molte più donne sono occupate e entrano molti immigrati.
La preoccupazione prevalente è quella dell’occupazione perché interessa a tutti gli attori del sistema, mentre i problemi delle relazioni industriali perdono di peso. L’importante è il posto, come si lavora è ormai questione meno rilevante e si vuole rivedere il grado di rigidità.
Il nostro 57% di popolazione attiva occupata (rispetto ai dati ben superiori di molti paesi europei) dimostra che, anche prima della crisi, il binomio + crescita + occupazione non ha ancora ripreso a funzionare in Italia.
Anche la pluralità dei rapporti di lavoro (dal part time al precariato) ha reso il lavoro come “una cosa” più leggera, commerciale,senza i tradizionali itinerari occupazionali in una o due imprese nella vita. Questo alleggerimento del rapporto di lavoro colpisce soprattutto i giovani di ambo i sessi: il recipiente dell’occupazione è mezzo vuoto ma i “nuovi venuti” non riescono ad entrare, salvo pochi.
Si ritiene giustamente che la causa principale del nostro ristagno (meno crescita – produttività – occupazione) sia la c.d. globalizzazione, ossia una causa generale, esterna, sfuggente. La causa principale non è la sola. Le responsabilità della politica economica vengono discusse con profonde divisioni e gli stessi sindacati sono divisi. Si dimentica che l’altra causa determinante è quella detta “debito pubblico – Welfare”: si deve tagliare ma i problemi sociali (invecchiamento, malati cronici, sostegno alla famiglia, solitudine, integrazione immigrati) sono diventati più pressanti e visibili dei problemi del lavoro dipendente.
Di fatto, il conflitto è diminuito, recentemente anche nel pubblico impiego. Mobilitazioni e grandi scioperi generali emergono solo quando c’è l’intreccio con vicende strettamente politiche. Emblematica la storia del famoso articolo 18. La Fiat costituisce una eccezione.
I “nemici” non sono più i padroni, i datori di lavoro, i manager. Anch’essi sentono gli svantaggi della crisi, specie quelli meno bravi. Le relazioni sindacali nelle imprese sono meno conflittuali di un tempo, c’è molta tensione nei casi di riduzione dei posti di lavoro: sono, invece, aumentate istituti e forme di collaborazione, di adattamento, di partecipazione. È in via di superamento la peculiarità italiana di lotte, antagonismi, estraneità fra le parti in gioco.
Il prestigio del lavoro italiano è intaccato dalla bassa produttività del lavoro, dal suo costo elevato, dalla scarsità di soggetti professionalizzati per le esigenze del mercato, dalla scarsa propensione alla mobilità. Eppure si deve convivere con la flessibilità; regolata con misura, non semplicemente con iniziative difensive.
Anche non pochi provvedimenti di politica sociale e di pressione sindacale hanno contribuito a ridurre il rilievo e la centralità del lavoro. Non mi riferisco tanto alla riduzione dell’orario di lavoro, quanto all’esaltazione delle pensioni sotto i 60 anni e, dopo tanto dibattito, poco dopo i 60 anni. Lasciamo da parte qui i costi connessi. Diciamo che tale esaltazione ha rappresentato la vita lavorativa come una condizione dalla quale liberarsi. Come se il lavoro, tutti i lavori fossero tutti stressanti, faticosi, monotoni. A volte si avverte una logica secondo la quale la vita lavorativa è una parentesi fra la scuola e la pensione.
3) L’operaio, simbolo del lavoro nel passato, ha meno rilevanza quantitativa e non suscita tanto pathos, ideologia, retorica. La parte centrale del mercato del lavoro è costituita da un insieme di gruppi (che potremmo chiamare) impiegatizi: amministrativi, tecnici, esperti, produttori,controllori, animatori, ecc. Non esercitano lavori manuali. Ancora fondamentali gli operai specializzati.
Sul piano reale e simbolico l’ufficio (in tutte le sue varianti) tende a prendere il posto della fabbrica.
Operai, impiegati ed altri non sono massicciamente assorbiti dal lavoro, dall’occupazione, dalla loro identità sociale e professionale.
Il lavoro ha ancora un grande peso ma convive con numerose altre attività. La vita dei lavoratori è più ricca di un tempo, sono aumentate le aspettative e così i bisogni. La “privazione relativa” rispetto agli strati sociali medi e medio –superiori è diffusa, sollecitata dalla cultura del consumo, dalla pubblicità, dalle continue innovazioni di prodotto.
Le attività extra-lavorative sono molteplici. Nella famiglia i padri si occupano di più delle vicende domestiche e scolastiche, si esce di più con moglie e figli, più numerose le relazioni amicali. Ciò si intreccia con il fatto di viaggiare, delle vacanze, dell’uso dell’auto. Eravamo partiti, anni 40-50, con la bicicletta.
Le attività, come è noto, riguardano principalmente: lo sport (guardato, discusso, esercitato), spettacoli e televisione, vita associativa, feste popolari, ecc.
Con ciò due trasformazioni profonde: le differenze fra i lavoratori e gli altri si sono molto attenuate con le attività (non così sul piano della disuguaglianza); si è ampliata la “cittadinanza sociale” dei lavoratori (un semplice impiegato e l’amministratore delegato possono conversare su molti argomenti, ad esempio), si sono sciolti i termini dell’identità e delle “classe operaia”.
I lavoratori vivono in una società più dinamica, più competitiva e rischiosa, più integrata ma con profonde differenze interne (in parte giustificate dal merito, in parte dovute alla stratificazione sociale).
di Guido Baglioni

























