Ricostruire il valore del lavoro, dal punto di vista economico e quindi sociale e politico. E’ questo il compito, difficilissimo, al quale chiama le classi dirigenti Marco Panara nel suo ultimo libro, “La malattia dell’occidente”, edito da Laterza. Un impegno complesso perché per assolverlo occorre percorrere a ritroso il processo degenerativo che ha interessato il lavoro in questi ultimi venti o trent’anni.
Le cause di fondo di questo sconquasso sono state due, spiega Panara, la tecnologia e la geografia. La prima perché il lavoro ha perso valore a causa dei progressi tecnologici che si sono succeduti. Serve sempre meno lavoro per produrre le stesse cose, automaticamente scende il valore del lavoro. In più è arrivata la globalizzazione, numerosi paesi si sono fatti avanti, hanno assunto un ruolo economico importante scalzando l’occidente dalle sue posizioni. E quei paesi che producono a un costo sempre più basso automaticamente hanno abbassato il valore del lavoro anche presso di noi, perché il prezzo sui mercati globalizzati di quello stesso prodotto, sia che sia fabbricato in Europa o in Africa, comunque scende.
E’ così che il lavoro ha perso ruolo e hanno perso ruolo interi gruppi sociali. E’ diminuito drasticamente la quota di pil che tradizionalmente andava al lavoro mentre è aumentata la quota destinata al capitale. E anche all’interno del mondo del lavoro si è creato un effetto discorsivo, una polarizzazione a favore delle classi più elevate e a danno di quelle meno acculturate. La società è cambiata, i valori di fondo sono mutati. Il ruolo che aveva una volta il lavoro è stato preso dal danaro, ma non è la stessa cosa, perché il lavoro è socializzante, il danaro al contrario è individualizzante. Con il lavoro l’uomo si realizza e si apre alla società, con il danaro si chiude in se stesso, la società diventa asfittica, calano anche i livelli di democrazia.
Tutto questo è successo nel giro di pochi lustri, venti, trent’anni, non più. La conseguenza immediata doveva essere, per tutto l’occidente, una perdita del potere di acquisto, il livello di benessere doveva scendere. Questo non è successo subito perché nessun governante si prende mai, se non costretto, l’onere di causare un ridimensionamento del livello di vita. E così è accaduto in questi anni in cui il mondo occidentale ha continuato a vivere alle stesse condizioni di prima, pur non potendoselo permettere. Lo ha fatto ricorrendo al credito, indebitandosi. Nulla di più di quanto non abbia fatto l’Italia negli anni 80, quando un sistema di potere si è mantenuto spendendo le risorse che non aveva e creando quel mostro che è oggi il nostro debito pubblico, più grande del prodotto interno lordo di un intero anno. Hanno iniziato gli Stati Uniti e tutto l’occidente gli è andato dietro. Si è creata così la bolla che è cresciuta a dismisura e alla fine è scoppiata generando la crisi economica che ancora ci sta opprimendo. Una crisi finanziaria che ha attaccato poi l’economia reale, che a sua volta ha creato un crollo dell’occupazione e poi l’esplosione dei debiti sovrani.
Adesso che questa crisi si sta spegnendo, o almeno se ne attutiscono i processi più vistosi, il livello di benessere necessariamente calerà in tutto l’occidente, perché non sarà più possibile far finta di nulla e indebitarsi come prima. Più che altro non sarà possibile perché nessuno concederà più facilmente credito come è successo in questi anni. Il punto è che non cala solo il tenore di vita, ma, svilendosi il lavoro, che è sempre stato un collante sociale, cala anche il livello di democrazia, crescono gli istinti individualistici peggiori, diminuisce la forza della politica, si attenuano i poteri dei corpi intermedi, delle rappresentanze sindacali.
E’ un sistema sociale che rischia di andare in frantumi o di cambiare profondamente, peggiorando. E’ possibile reagire a questo stato di cose? E come? Sono questi gli interrogativi di fondo che la nostra società deve porsi, tutti i giorni, nelle cose più minute come in quelle più grandi che interessano tutti noi.
Panara indica i pochi tentativi di questi anni di opporsi a questo processo degenerante, le politiche innovatrici messe in campo dalla presidenza Clinton per creare nuovi settori produttivi a elevato valore aggiunto, il trattato di Lisbona che in Europa indicava la necessità di costruire una società della conoscenza. Tentativi rimasti però sulla carta. Perché comunque costa prendere queste vie e non se ne è sentita la necessità.
E allora occorre riprendere questo percorso, tornando a individuare i settori produttivi che sanno essere più competitivi e quindi creano ricchezza, realizzando politiche sociale che ricreino il valore del lavoro, soprattutto con lo strumento della formazione, l’unico modo per cui il lavoro riesca a crescere di valore.
Ridare forza al lavoro, un imperativo. Ma allora, per leggere in questa chiave anche i nostri problemi di relazioni industriali, è giusto difendere i diritti dei lavoratori fino in fondo, perché non ci siano arretramenti pericolosi o invece è per questa strada che si finisce per ridurre ulteriormente il valore del lavoro appesantendone i costi? E’ l’interrogativo del giorno, bisogna scegliere la strada che ci impedisca di aggravare i nostri malanni. E allora se i diritti dei lavoratori vanno salvaguardati perché sono la base della nostra società, i pilastri che non debbono cadere perché tutto sostengono, è anche vero che occorre saper capire fino in fondo quali sono i diritti da difendere e quali le posizioni di privilegio che sono dure da abbandonare, ma rappresentano solo un peso che trascina in basso il valore del lavoro.
Per tradurre questi principi ai nostri giorni: è nel giusto la Fiom che si batte per i diritti dei lavoratori, ma sbaglia quando non distingue le sue battaglie. Battendo l’assenteismo e il rivendicazionismo fine a se stesso farebbe crescere la produttività e aumentare così il valore del lavoro.
Più formazione, più attenzione alla cultura, maggiore spinta sui settori più innovativi, un mercato più funzionante perché più giusto, che proprio per questo non dia spazio alla rendita che cresce proprio quando il mercato non funziona più bene, parti sociali capaci di guardare lontano. Un percorso difficile, ma la nostra classe dirigente, tutta, anche i sindacati, dei lavoratori come degli imprenditori, devono imparare a compiere con grande sapienza le loro scelte.
Massimo Mascini