Nel giro di un mese tre convegni hanno avuto e hanno come argomento, per iniziativa sindacale, i rapporti fra politica e sindacato: uno a metà marzo, organizzato dalla federazione edili della Uil, su sindacato e riformismo; un altro il 27 marzo, dell'Ires Cgil, su lavoro, politica, sindacato; il terzo di Giovane Europa e della Uil confederale il 12 aprile, su politica e sindacato tra dialogo e autonomia. Sembra difficile pensare ad una semplice, casuale coincidenza, che l'improvviso affollamento di dibattiti pubblici su questo tema nasca più o meno dal nulla. Meglio tentare di assumerlo come sintomo e segno di qualcosa che incomincia ad accadere, di un processo che si sta delineando e che inizia a mettersi in moto. Verso un mutamento degli equilibri che da una quindicina di anni, con tutta la loro ambiguità, fissano, reggono, garantiscono la natura dei rapporti fra la politica e il sindacato, vale a dire tra le confederazioni e i partiti. Se così stanno le cose, la domanda è: perché, e perché ora.
Si può arrischiare una ipotesi di risposta partendo da una realtà indubitabile: la politica è malata (tutta, ma il problema di cui si sta parlando riguarda essenzialmente il centrosinistra) e anche il sindacato, per dirla con Woody Allen, non si sente tanto bene. L'una procede in sostanziale solitudine, avvitata su se stessa, aggrappata, quasi avvinta alla ruggine dei propri meccanismi, un solco profondo la divide dal mondo reale, di cui fatica sempre più a interpretare, portare a sintesi, dunque rappresentare gli interessi, esigenze, rivendicazioni, bisogni. L'altro, che pur continua ad essere forte dei suoi legami di massa e precisamente per questo conosce, misura quel che avviene e si agita nel grande corpo sociale, sente crescere e sperimenta l'aspra difficoltà, anch'esso, di interpretare, portare a sintesi, dunque rappresentare una società spezzata, di ricomporne i frantumi, superarne le contraddizioni, vincerne gli egoismi, placarne le paure, per individuare poi gli obiettivi di negoziato e di lotta. Un sociologo ha definito liquida la società dove viviamo e non ci sono mani che possono stringere i liquidi, ma sindacati e partiti sono obbligati, o condannati, a saper stringere nelle loro strategie la società, se vogliono fare il mestiere che hanno scelto. In questa situazione, pesano ancora di più sul sindacato gli effetti della funzione di supplenza che dagli anni Novanta ha dovuto svolgere, non solo consenziente ma orgoglioso di farlo, nei confronti della politica: la concertazione ha dato frutti indiscutibili ma lo ha costretto a muoversi lungo crinali rischiosi, ha dilatato i terreni del suo intervento diretto, lo ha caricato di responsabilità delle quali è stato ed è giustamente chiamato a rende conto.
Se la verità delle cose si condensa nella crisi della rappresentanza politica e nell'indebolimento di quella sociale, non solo appare del tutto vana qualsiasi disputa sui rispettivi primati o qualsiasi retorico omaggio al primato della prima, ma diventa evidente che il vecchio patto non scritto per l'equilibrio dei rapporti fra le due rappresentanze cessa di valere, bisogna cambiarlo, e del resto è andato mutando nel corso degli ultimi anni. Un altro patto è necessario, che stabilisca una nuova dialettica degli equilibri, dal quale emerga per entrambe le parti nuova forza di vita, chiarezza di ruoli, maggiore dignità di senso. Non dimenticando mai il dominante primato dell'economia, che all'epoca del mercato globale sovrasta ogni altro, che limita, assottiglia, comprime la liberta ed il potere della rappresentanza politica e di quella sociale, destinandole ad una sorte comune.
Leopoldo Meneghelli

























