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Home - Approfondimenti - La nota - Il sindacato a scuola, in Cina

Il sindacato a scuola, in Cina

22 Ottobre 2009
in La nota

Una delegazione della Cgil lombarda ha viaggiato questa estate per tre settimane in Cina. Un viaggio di studio per capire cosa davvero sia l'economia globalizzata, di cosa si debba avere paura e cosa invece è necessario rincorrere. Un viaggio intenso, denso di incontri ufficiali con istituzioni, imprese italiane e cinesi, sindacati ufficiali e no, fatto di visite nelle fabbriche, negli uffici, nei parchi industriali, nelle megalopoli e nelle piccole città. Pechino, Shanghai, Tianjin, Changchun, Suzhou, Chongchin, Hong Kong. Un viaggio utile, come hanno detto i protagonisti, perché ha fatto piazza pulita di tutta una serie di idee che negli anni si erano depositate nella testa di ognuno formando un'immagine della Cina e dell'economia cinese che non hanno trovato riscontro nella realtà.
Le lunghe o brevi interviste ad alcuni di questi sindacalisti, che riportiamo nella sottopagina delle interviste, chiariscono il senso di questa nuova realtà della Cina che ciascuno si è andato formando. Alcune cose hanno colpito tutti. L'immensità del paese. Tutti sapevano che la Cina era un immenso paese di un miliardo e trecento milioni di abitanti, ma una cosa è saperlo, un'altra rendersi conto delle dimensioni visitando città, nemmeno tanto conosciute, di 18 o addirittura, come Chongchin, di 30 milioni di abitanti. O ascoltando i racconti delle profonde modifiche che sta subendo l'economia e la geografia produttiva del paese. Ancora, ha colpito la grande capacità dei cinesi di pianificare il loro sviluppo. I piani quinquennali si susseguono e cambia la struttura economica e sociale del paese. Si decide a tavolino il destino di centinaia di milioni di persone, che vengono spostate da una regione all'altra, gli viene fatto cambiare non solo lavoro, addirittura vita.


Un'azione di rimodellamento che noi stentiamo anche solo a immaginare. Ma soprattutto un'azione che viene svolta in un consenso generale che stupisce chi viene dalla vecchia Europa, così riottosa al cambiamento. I cinesi ubbidiscono, di più, si sentono partecipi, non gli viene nemmeno in mente di protestare. Perché abituati da secoli a ubbidire, prima agli imperatori, poi al partito comunista, ma anche perché partecipi dei benefici di questo immenso sviluppo, che marcia da venti anni ad aumenti annui del pil superiori al 10%. E certo anche perché non hanno grandi scelte, colpiti da un autoritarismo che non lascia spazi. Come che sia, i piani si realizzano tutti, anche quando segnano traguardi lontanissimi dalla realtà.
Frutto, osserva qualcuno, della contaminazione che la Cina ha avuto con il mercato aperto. Che qui è una realtà, perché la grande forza economica della Cina viene dall'enorme afflusso di capitali stranieri oltre che dal ritmo sfrenato delle loro esportazioni. Tutte le grandi multinazionali sono in Cina, attirate da un mercato interno immenso molto più che non dalle favorevoli condizioni della produzione. Perché è vero che il costo del lavoro è appena un decimo di quello dei paesi occidentali, ma la forza della Cina non è quella, bensì la grande tensione verso la tecnologia che in questo paese trova sempre nuove frontiere.


La dice lunga sulla capacità della Cina di pianificare il proprio sviluppo e su come questo sia davvero forte, il fatto che il governo centrale adesso abbia  deciso di aggredire i due principali problemi che ha, l'inquinamento e lo spreco di risorse energetiche. E' stato deciso che non saranno più accolte imprese straniere che inquinano troppo o consumano troppa energia e non importano alta tecnologia. Ed è stato già previsto che nei prossimi anni proprio per queste scelte la corsa dell'economia cinese diminuirà di due punti percentuali, dal 10 passerà all'8%.
Una capacità pianificatrice che impressiona i sindacalisti  italiani e un po' li spaventa anche, perché non sono abituati a questo grande risiko, come viene chiamato con un'espressione felice, un gioco alla Orwell che lascia interdetti. Anche perché è evidente che la diffusione del benessere non è uguale per tutti. I ricchi sono già 80 milioni, ed è previsto che salgano rapidamente. La classe media conta non meno di 300 milioni di persone e anche questi stanno crescendo. Ma ci sono 400 milioni di poveri, 300 milioni non dispongono di acqua potabile. Insomma, non è per tutti lo stesso. Il che, appunto, non dà luogo a un malcontento in grado di sfociare in una protesta forte. Perché la Cina non è un paese libero e democratico, certo, ma anche perché forse non sono ancora maturate le condizioni economiche e sociali perché ciò potesse accadere. La scommessa della Cina è tutta qui, nel contemperare questa grande crescita con la soluzione degli immensi problemi che il paese ha. L'ambasciatore d'Italia, Riccardo Sessa, che la delegazione della Cgil ha incontrato a Pechino, ha descritto con efficacia questo sforzo parlando del governo cinese che in una grande cabina di regia apre e chiude immensi rubinetti che portano le risorse, immense, ma non inesauribili, prima verso un obiettivo, poi verso un altro. E così, chiudendo e aprendo questi rubinetti in un ritmo incessante, si cerca di raggiungere più elevati standard di vita.


Un altro motivo di stupore sono stati i sindacati ufficiali. Tutti si aspettavano organizzazioni un po' finte, attente al tempo libero dei lavoratori, un po' meno alle loro condizioni di vita e di lavoro. E invece il sindacato è certamente molto istituzionalizzato, la dice lunga il fatto che il presidente del sindacato di Shanghai sia il vicepresidente dell'assemblea del popolo di questa municipalità, come anche il fatto che spesso il rappresentante sindacale in azienda sia il capo del personale, ma non è un sindacato fantoccio. Contratta quello che può, lo smig con le municipalità, le condizioni di lavoro con le aziende. E le fabbriche, almeno quelle che hanno visitato, non hanno lasciato ai sindacalisti un'impressione di sfruttamento. Al contrario, aria, pulizia, poco rumore, catene di montaggio non oppressive.
Poi, a parlare con i sindacati liberi, quelli che da Hong Kong cercano di organizzare i lavoratori cinesi, si ha un'altra impressione. Loro dicono che sono <brava gente>, proprio così si esprimono, ma non sono assolutamente in grado di scalfire una situazione che non controllano. Implementano leggi che fanno altri, sono più attenti all'armonia sociale, cioè alla realizzazione degli obiettivi dei piani del governo in un clima di coesione sociale. Tutto ciò è certamente vero, ma quei sindacati ufficiali danno comunque l'impressione di fare il possibile per aiutare i lavoratori a vivere meglio.


Insomma, un grande paese, in grande sviluppo, che per la piccola Italia, come appare da laggiù il nostro Paese, rappresenta soprattutto una grande opportunità. I sindacalisti hanno capito bene che il nostro problema non sono certo le delocalizzazioni, perché in Cina si viene per aggredire un mercato immenso, non certo per risparmiare qualcosa sul costo del lavoro, ma hanno capito ancora meglio come le carte vincenti nella grande battaglia per lo sviluppo siano sempre le stesse, la ricerca, l'innovazione, la qualità. Chi investe ha possibilità di farcela, gli altri, chi si accontenta della sua nicchia, presto o tardi sarà spazzato via. E c'è chi non a caso ha pensato a un grande patto sociale in cui tutti, politici, imprese, sindacato, mettano quanto possano per aggredire il mercato globale e quanto meno cercare di sopravvivere, puntando su quello che gli italiani sanno offrire, il lusso, la bellezza, il fashion, la moda.
Tornano a casa i sindacalisti, cambiati, ma non pentiti. Proprio vedendo le condizioni di lavoro e di vita dei cinesi, che non sono terribili, al contrario molto accettabili, ma certamente arretrate rispetto ai nostri standard, si sono resi conto ancora di più che il sindacato è fattore di sviluppo. Basta avere la testa a posto, basta essere abituati a ragionare.


Massimo Mascini


Nella rubrica Interviste quelle a Camusso, Anghileri, Baseotto, Brunato, Cappelletti, Laini, Lattuada, Losio, Minali, Riva.

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