Chiamare in causa Julien Benda, il “Tradimento dei chierici”, e la condanna di chi, per seguire interessi pratici, abbandona la difesa di giustizia e ragione è francamente fuori misura. E’ – sì, d’accordo – anche ingeneroso e irrispettoso. Eppure, alla vigilia della partita del Quirinale, il comportamento di Sergio Mattarella e Mario Draghi evoca una parola: disertori. Il fatto che, probabilmente, inseguano, ambedue, motivazioni e ambizioni assolutamente legittime e comprensibili è, in fondo, irrilevante. Semplicemente, non è quello che ci saremmo aspettati dall’uno e dall’altro. Per quello che sapevamo di loro, ci saremmo aspettati invece che, ancora una volta, avrebbero messo l’interesse pubblico davanti a quello personale: non si è fulgidi esempi ad intermittenza.
Il momento del paese è drammatico, come tutti sanno. La variante Omicron impazza, l’economia, dopo la lunga galoppata del 2021 rischia di perder colpi, il collante fra i partiti di una maggioranza posticcia si fa sempre più debole, la stessa credibilità di un governo (fino a ieri assolutamente credibile) è messa ogni giorno a dura prova dalle difficoltà di gestire situazioni inedite. All’emergenza Sanità/Ripresa si somma quella – cruciale – del grande piano di riforme. L’Italia ha finora rispettato il calendario proposto da Bruxelles nella realizzazione dei passaggi previsti dal Pnrr, ma la verità è che i traguardi raggiunti si riducono a indicazioni ancora vaghe e senza riscontro sul campo. Una cosa è dire: metteremo rapidamente in campo procedure e strutture per realizzare ponti e ferrovie. Un’altra è cominciare a gettare cemento e poggiare traversine.
E questo è esattamente il momento in cui si dovrebbe cominciare a poggiare le traversine. La vera prova del fuoco del grande piano di rilancio del paese non è, cioè, nell’abbozzo delle riforme dei mesi scorsi, ma nella gestione quotidiana che comincia adesso: i prossimi dieci anni dell’economia italiana si decidono nei prossimi dieci mesi, nel lavoro giorno per giorno, da Palazzo Chigi in giù. Nessuno crede che, senza Draghi, possa essere la stessa cosa.
Ecco perché la soluzione che sembrava più logica era un anno in più di Mattarella al Quirinale, che consentisse a Draghi un anno in più a Palazzo Chigi, fino alle elezioni per il Quirinale e poi per il nuovo Parlamento, probabilmente con Draghi al Colle. Invece, le tappe vengono bruciate: Mattarella vuole andarsene e Draghi scalpita per salire al Quirinale (altrimenti avrebbe già detto che non gli interessa): una sorta di devastante testa-coda.
Se Mattarella ha solide ragioni personali per lasciare la presidenza, ad esempio di salute, ha il dovere di renderle note. La preoccupazione istituzionale di non dare un altro strappo – dopo Napolitano – ai percorsi costituzionali con un altro periodo di reggenza a termine è risibile nella situazione attuale.
La questione Draghi è più complessa. Non è chiaro perché un uomo, certo assai svezzato in politica, ma mai immerso nel politichese possa ambire ad una carica che, una volta scartati i compiti di rappresentanza generica del paese, si riducono agli alambicchi nella formazione dei governi, ovvero quanto più di più aridamente politichese si possa immaginare. L’idea di una funzione più immediatamente operativa, magari con affaccio sulle cose d’Europa, mentre gli affari d’Italia sono affidati ad un leale scudiero come l’attuale ministro del Tesoro ha la stessa capacità di volare di un tacchino obeso: nessuno dei partiti della maggioranza, forse neanche il Pd, glielo consentirebbe.
Niente governo, elezioni al buio, nessuna garanzia di una solida futura maggioranza. E’ la ricetta del caos: i chierici ci pensino.
Maurizio Ricci