La Confederazione europea dei sindacati ha lanciato, a metà febbraio, la campagna “L’Europa ha bisogno di un aumento di stipendio”: la produttività aumenta, i redditi da capitale pure, ma le buste paga restano ferme. Sono i sindacati che fanno il loro mestiere, naturalmente, ma non sono soli. Un rapporto appena uscito della più importante banca privata tedesca, la Deutsche Bank, non propriamente un covo di sovversivi, sottolinea che “perchè aumenti l’inflazione base, bisogna che aumentino i salari”. Assenti da anni dal discorso pubblico, insomma, gli stipendi tornano ad essere oggetto di attenzione. Che succede?
La fiammata degli indici dei prezzi in corso, che ha riportato l’inflazione a ridosso dell’obiettivo statutario della Bce, è un miraggio statistico. Al netto dell’aumento del prezzo del petrolio rispetto ad un anno fa, l’inflazione base resta inchiodata all’1 per cento: gli economisti della Barclays la vedono, anzi, scendere verso lo 0,8 per cento. E’ la media europea e questo vuol dire che, per i paesi più deboli, la deflazione resta uno spettro in agguato. Anzi, il paradosso è che l’inflazione che sale spinge alla deflazione i salari reali. Le cifre sulle buste paga, infatti, sono rimaste uguali e, al netto dell’inflazione, valgono meno. Ma, se non ripartono i consumi, è il ragionamento della Deutsche Bank, l’economia europea non si può mettere sul sentiero dello sviluppo.
La domanda cruciale, qui, è: perchè i salari non ripartono, neanche nelle economie che tirano da sempre, come quella tedesca? Bilancio pubblico in pareggio, esportazioni record, piena occupazione, ma i salari tedeschi non riescono a crescere, sottolinea la Deutsche Bank, più del 2 per cento. Le spiegazioni possibili sono due, non necessariamente in contraddizione l’una con l’altra.
La prima è politica, il risultato della crescente debolezza del sindacato, del suo potere contrattuale, non tanto nelle roccaforti – per parlare di Germania – dell’industria, quanto nei servizi. La piena occupazione che le statistiche accertano per la Germania nasconde, infatti, il boom dei mini-job precari e mal pagati o del lavoro temporaneo, il peso delle agenzie per la fornitura di manodopera. C’è probabilmente anche questo malessere nell’improvvisa popolarità preelettorale del socialdemocratico Martin Schulz. Questa debolezza tedesca si moltiplica nei paesi in cui l’occupazione è più fragile.
La seconda spiegazione è a più lungo termine e chiama in causa tecnologia e automazione. Dal fondo della crisi italiana noi ancora la vediamo poco, ma ci aspetta dietro l’angolo. Quando si parla di automazione, infatti, si pensa a robot come Baxter, complesso braccio meccanico da collocare sul pavimento di una fabbrica. Ma Baxter costa, richiede sofisticate manutenzioni, complesse interazioni con il personale umano che ne limitano l’utilizzo e ne aumentano i costi. Soprattutto, se vi serve un altro Baxter, dovete comprare – e pagare – un altro Baxter. Già oggi è possibile individuare un punto di costo, al quale il robot costa meno di un operaio umano. Ma la rivoluzione dei robot è altrove. Nella possibilità, ad esempio, di scegliere, poi comprare un biglietto aereo, fare il check in, spedire il bagaglio e il primo rapporto umano che incontrate è con la hostess che vi scorta al vostro posto sull’aereo (finchè dura). Per quanto possa essere costato quel software, lo si ammortizza in fretta. E, al contrario di Baxter, è scalabile all’infinito a costo zero, come tutti i prodotti digitali.
Il risultato, dice un rapporto di Bca Research, è che l’automazione, anziché sostituire i netturbini, rimpiazza sempre più lavori come le traduzioni, il controllo crediti, la gestione dei portafogli di risparmio. Occupazioni, fino a ieri, ambite e ben remunerate. Secondo Bca Research, l’effetto è quello di spingere verso qualifiche più basse e buste paga più magre la nuova occupazione, deprimendo il livello generale dei salari anche dove i senza lavoro sono pochi.
Maurizio Ricci