L’intento è quello di promuovere la partecipazione attiva dei più giovani al mondo del lavoro, incentivare la formazione di competenze in linea con le richieste dei territori e delle imprese, superare il divario tra domanda e offerta di lavoro attraverso il supporto dell’intelligenza artificiale generativa. Sono questi, secondo il ministero del Lavoro, gli obiettivi con la quale è nata l’applicazione AppLI. Chi invece nutre aspettative meno rosee sullo strumento è la Nidil-Cgil. Non possiamo pensare, afferma la segretaria nazionale Luisa Diana, che solo un app possa farsi carico dei Neet, che sono il frutto di un contesto sociale non facile. Se è uno strumento aggiuntivo, se la pensiamo come una sorta di esca per avvicinare i giovani ben venga. Ma poi ci devono essere politiche di supporto che al momento sono carenti.
Segretaria Diana cosa ne pensa della nuova app lanciata dal ministero del Lavoro per aiutare, in particolare, i Neet?
Il giudizio non è positivo.
Perché?
Perché pensare di risolvere il problema dei Neet con un app vuol dire essere fuori strada. Si tratta di persone che, oltre al fatto di non studiare e di non avere un’occupazione, provengono da contesti sociali difficili che sono la causa della loro condizione di Neet. Per costoro serve la presa in carico dei centri per l’impiego. Devono essere accompagnati dalla sensibilità di un operatore che sappia far venir fuori le problematiche. Il tutto non si può ridurre a uno strumento che incrocia domanda e offerta. Non è così che funziona.
Potrebbe essere una sorta di esca per avvicinare i più giovani che magari con più difficoltà si relazionano ai centri per l’impiego?
Vista in questo modo può avere un senso. Il punto è che dietro a questa esca non c’è nulla. Se è uno strumento aggiuntivo ben venga. Ma non può essere la panacea di tutti i mali. Anche il SIISL, la piattaforma del ministero del Lavoro per l’inclusione sociale e lavorativa, richiede alle persone di attivarsi, di compiere una serie di azioni e di adempimenti, ma non intercetta i motivi del perché ci si trova in quella situazione. Figuriamoci un app che prende le offerte di lavoro dal SIISL e le propone all’utente.
Ultimamente c’è stata maggiore disponibilità di risorse, penso al piano GOL, per rafforzare i centri per l’impiego. Si è fatto abbastanza?
Purtroppo no. Ovviamente non tutte le regioni sono allo stesso livello. Ci sono le virtuose e quelle che lo sono un po’ meno. Ciò che manca è l’assunzione e la stabilizzazione di nuovo personale che possa incrementare la rete dei Cpi. La vicenda dei navigator è emblematica. Avevamo lavoratori altamente qualificati che, da precari, dovevano aiutare altre persone altrettanto precarie. È una situazione che non deve più ripetersi. Inoltre bene la digitalizzazione, senza però che vada a sostituire il fattore umano. Da ultimo c’è il tema delle agenzie private, alle quali si sta dando sempre più spazio. Questo comporta lo smantellamento del perimetro pubblico e il fatto che i profili più facilmente occupabili vengano dirottati sul privato, mentre quelli che richiedono un lavoro più lungo sono gestiti dai Cpi.
Qual è la percezione culturale della disoccupazione?
Se è un giovane a essere disoccupato c’è più stigma sociale perché passa l’idea che non abbia voglia di lavorare, che sia troppo choosy. Con una persona più grande questa percezione muta leggermente. Il problema non è solo la carenza di lavoro ma anche la bassa qualità dell’occupazione offerta, che non garantisce prospettive per il futuro e non attrae.
Il sindacato come riesce a intercettare queste persone e che supporto date farle uscire dalla disoccupazione?
Abbiamo il nostro programma SOL, che un servizio di orientamento al lavoro, che aiuta i disoccupati. Sono persone che riusciamo a intercettare con i nostri servizi e che più di altri si avvicinano a noi perché hanno un forte bisogno di comunità. Questo lo abbiamo constatato ancor di più con la campagna referendaria. Quello che noi proponiamo è una job guarantee dove lo stato deve porsi non solo come soggetto che tutela ma anche come datore di lavoro.
Ossia?
Ci sono molte mansioni e lavori da fare, che possono creare occupazione stabile e di qualità. Non si parla quindi di occupazioni saltuarie o di lavori socialmente utili.
Tommaso Nutarelli