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Home - Approfondimenti - La nota - ArcelorMittal, nessun passo avanti, e rischi seri all’orizzonte

ArcelorMittal, nessun passo avanti, e rischi seri all’orizzonte

10 Luglio 2019
in La nota
ArcelorMittal, nessun passo avanti, e rischi seri all’orizzonte

Nulla di fatto. L’annunciato, e atteso, incontro al Ministero dello Sviluppo economico sull’ex Ilva si è concluso verso le 7 e mezza di sera con un rinvio a un giorno non ancora fissato della settimana prossima. In sintesi, si potrebbe dire che non sono stati fatti passi avanti. Ma, come vedremo, a causa dell’accavallarsi delle notizie e dell’intrecciarsi dei problemi si è profilato il rischio che, lungo il percorso della vicenda Ilva, possano venir fatti dei significativi passi indietro.

L’incontro fra Governo, azienda e sindacati di cui stiamo parlando era stato fissato per le ore 16:00 di oggi presso la sede del Ministero dello Sviluppo economico sita, a Roma, all’incrocio fra via Veneto e via Molise. Si può dire, però, che gli eventi principali della giornata relativi alle vicende dell’ex Ilva si siano svolti prima e altrove. Dando anche la sensazione di un brusco ritorno al passato, ovvero ai momenti più travagliati o, quanto meno, più ingarbugliati di questa complessa vicenda.

Ma cominciamo dal principio. Ovvero dai due antefatti dell’incontro odierno.

Primo antefatto. ArcelorMittal, ovvero il colosso franco-indiano dell’acciaio che nel giugno del 2017 si era impegnato col Governo italiano ad acquisire, attraverso la formula dell’affitto di ramo d’impresa, i “complessi aziendali” del gruppo Ilva posto da tempo in Amministrazione straordinaria, e che poi nel settembre del 2018 aveva raggiunto un accordo anche con i sindacati che prevedeva l’assunzione immediata di 10.700 lavoratori, annuncia, a fine giugno, cha da lunedì 1° luglio metterà in Cassa integrazione per 13 settimane 1.395 lavoratori. I sindacati dei metalmeccanici contestano la decisione e proclamano per venerdì 5 luglio 8 ore di sciopero per turno di lavoro nello stabilimento di Taranto, l’acciaieria più grande d’Europa.

Secondo antefatto. Sempre in giugno, per esplicita volontà del MoVimento 5 Stelle, ovvero della forza di governo che ha il suo capo politico in Luigi Di Maio, l’uomo che ha assunto il doppio ruolo di Ministro del Lavoro e di Ministro dello Sviluppo Economico, viene introdotta nel cosiddetto decreto Crescita una norma che cancella, a far data dal 6 settembre prossimo, la cosiddetta impunità per reati ambientali connessi alla gestione dello stabilimento di Taranto. Al che l’azienda acquirente dell’ex gruppo Ilva, ovvero, appunto, ArcelorMittal, annuncia che, se le cose non cambieranno, lo stesso 6 settembre abbandonerà l’impresa.

Ora qui va ricordato che, formalmente, l’occasione dell’incontro odierno era un’altra, e cioè quella di effettuare una verifica dell’andamento dell’accordo del settembre 2018. Ma è evidente che i due antefatti di cui sopra avevano proporzioni tali da trasformare quello che avrebbe potuto essere un appuntamento rutinario in qualcosa di più complesso.

Ma ecco che, a movimentare ulteriormente la giornata, si sono prodotti i due eventi cui abbiamo sopra accennato.

Primo evento. Sul Sole 24 Ore (e quindi possiamo idealmente collocare questo fatto a Milano) esce un articolo di Paolo Bricco intitolato “Ilva, ecco il contratto che dà ragione ad ArcelorMittal”. Secondo Bricco, “ArcelorMittal può recedere dal contratto di affitto”, preliminare all’acquisto di Ilva, in “una serie di ipotesi”. “Già il contratto d’affitto con obbligo di acquisto di rami d’azienda, siglato il 28 giugno 2017, era – prosegue Bricco – abbastanza nitido. Ma l’accordo di modifica del contratto, che risale al 14 settembre 2018, è ancora più chiaro.”

In sostanza, secondo Bricco, se “cambia il quadro giuridico generale, che rappresenta lo sfondo regolamentare su cui si è svolta l’asta internazionale che ha visto prevalere ArcelorMittal”, e quindi, in particolare, se “viene cancellata la non punibilità per reati compiuti da altri, prima dell’arrivo a Taranto del nuovo proprietario”, ArcelorMittal “restituisce le chiavi dello stabilimento”.

Ma non basta. Sempre secondo Bricco, “nell’addendum al contratto siglato il 14 settembre 2018 si legge: ‘L’affittuario potrà altresì recedere dal contratto qualora un provvedimento legislativo o amministrativo, non derivante da obblighi comunitari, comporti modifiche al Piano Ambientale come approvato con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017 che rendano non più realizzabile, sotto il profilo tecnico e/o economico, il Piano Industriale’”.

Secondo Bricco, che scrive un articolo basato su una attenta lettura di specifici testi contrattuali, ArcelorMittal, nei suoi rapporti col Governo italiano, sta quindi in una botte di ferro. Una buona notizia per l’Azienda e, assieme, una cattiva notizia per il Governo. Che, nel pomeriggio, mentre è in corso l’incontro al Mise, risponde diffondendo una nota, piuttosto confusa, che sembra ribadire la volontà del medesimo Governo di non recedere da quanto sancito col cosiddetto decreto Crescita e, nello stesso tempo, di assicurare all’Azienda che non corre nessun rischio legale. Rassicurazioni, queste, che, se dovessero mantenersi sul piano di una semplice dichiarazione di buone intenzioni, difficilmente potranno convincere l’Azienda.

Fin qui, insomma, il rischio di un imminente recesso di ArcelorMittal dal contratto del settembre 2018 appare tutt’altro che scongiurato. Perché se l’Azienda si sente minacciata dal cambio delle carte in tavola realizzato dal Governo col decreto Crescita; e se, d’altra parte, l’Azienda stessa pensa di poter vincere a mani basse una eventuale causa civile contro il Governo; cosa potrà spingerla a non sottrarsi a una situazione in cui si sente minacciata?

Ma, a parte queste considerazioni, relative al prossimo futuro, la lettura dell’articolo di Bricco crea negli osservatori della vicenda Ilva la spiacevole sensazione di un improvviso ritorno al passato. Perché come abbiamo appena visto, quella che Bricco riporta, peraltro giustamente, sotto i nostri occhi è una vecchia conoscenza degli appassionati della storia dell’Ilva: il famoso Dpcm del 29 settembre 2017. Ovvero quel provvedimento con cui il Governo Gentiloni (titolare del Mise Calenda) aveva cercato di mandare avanti la baracca tarantina, creando una cornice legale che consentisse, da una parte ai Commissari straordinari ancora in carica, e dall’altra all’azienda acquirente, cioè ad ArcelorMittal, di portare credibilmente avanti e di implementare le opere di risanamento ambientale necessarie per compatibilizzare l’attività produttiva dello stabilimento tarantino con l’ambiente circostante, a partire dalla città di Taranto.

Il Dpcm è diventato quindi il bersaglio, potremmo dire la bestia nera, degli ambientalisti duri e puri. Quelli che, in ultima analisi, puntano da tempo alla chiusura dell’Ilva. Laddove quelli che potremmo definire come ambientalisti riformisti – alla Calenda, per intenderci – hanno sempre pensato che solo mantenendo vivo e attivo lo stabilimento tarantino si possano creare le condizioni per assicurare una credibile volontà di risanamento ambientale e compatibilizzazione produttiva.

L’anno scorso, l’accordo del settembre 2018, accordo con cui il biministro Di Maio era riuscito là dove Calenda aveva fallito, ovvero nel trovare il consenso dei sindacati grazie a miglioramenti effettivi negli impegni che ArcelorMittal veniva ad assumere in materia di occupazione, sembrava aver avviato la vicenda Ilva verso un orizzonte più sereno. Adesso, la mossa fatta col decreto Crescita, mossa che cancella lo scudo giuridico che protegge l’Azienda acquirente da responsabilità in materia ambientale risalenti a periodi precedenti al suo arrivo, riporta tutto indietro di due anni, fino al 2017.

Secondo evento. Un salto all’indietro ancor più significativo è poi quello connesso a un altro evento che, sempre oggi, ha preceduto l’avvio dell’incontro al Mise. Non siamo più a Milano né a Roma, ma a Taranto. Da qui, nel primo pomeriggio, parte una notizia sorprendente che, da un lato, è anche preoccupante, mentre, dall’altro, ha il pregio di chiarire quali siano i pericoli giuridici in cui possa incorrere chi si assume l’onere di gestire l’impianto Ilva.

“La Procura di Taranto – scrive dunque il sito della Gazzetta del Mezzogiorno – ha disposto l’avvio delle operazioni di spegnimento controllato dell’Altoforno 2, uno dei tre dello stabilimento siderurgico ArcelorMittal, ex Ilva.” Perché questa decisione della Procura tarantina? Il fatto è che nel 2015 al cosiddetto Afo 2 si produsse un incidente mortale, di cui rimase vittima un operaio che si chiamava Alessandro Morricella. “L’uomo – scrive ancora la Gazzetta – perse la vita travolto da una colata incandescente.” A un primo sequestro dell’altoforno, seguì istanza di dissequestro avanzata dagli amministratori dell’ex Ilva. Ma ecco che il Gup tarantino, Matteo Carriere, rigetta tale istanza. Coi tempi cui la giustizia italiana ci ha purtroppo abituato, sono passati quattro anni dall’incidente mortale. Quel che non può non essere segnalato, è però la curiosa coincidenza temporale in base alla quale lo spegnimento di Afo 2 viene annunciato proprio a ridosso dell’incontro al Mise. Ma tant’è.

In sintesi, quattro anni fa, un incidente mortale funesta una delle strutture produttive su cui si articola il grande stabilimento tarantino. E dopo una serie di istanze e contro istanze, nell’ipotesi che l’altoforno sia ancora pericoloso come quattro anni fa, ovvero che nel frattempo non sia stato fatto nulla per ridurre le sue condizioni di pericolosità, il nuovo proprietario si vede arrivare l’ordine di avviare le operazioni di spegnimento.

Con queste premesse, è tanto se l’incontro al Mise si è comunque avviato. Ma, certo, non ha potuto far molto di più che registrare una situazione in cui i sindacati sono in polemica con l’azienda per il fatto che quest’ultima ha assunto, come detto, la decisione di mettere 1.395 lavoratori in Cassa integrazione per 13 settimane. Ancora, una situazione in cui l’azienda, da parte sua, è in polemica con il Governo che ha voluto inserire nel decreto Crescita la norma volta a deprivare l’azienda stessa dello scudo volto a proteggerla da azioni legali originate dai guasti prodotti dalle gestioni precedenti al suo arrivo. E in cui, infine, il Governo, non avendo di meglio da fare, se la prende con la stampa che diffonde analisi a suo giudizio infondate.

Morale della favola: come detto, l’incontro è stato aggiornato a data da destinarsi, anche se nell’ambito della prossima settimana. La prospettiva è incerta. Ma quel che è abbastanza chiaro è che, fino a quando Governo e azienda non avranno chiarito la questione dello scudo legale, gli altri temi di discussione, a partire dall’analisi dei volumi produttivi, e delle ricadute occupazionali di questi ultimi, resteranno confinati in una sorta di Limbo.

@Fernando_Liuzzi

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