Questo nuovo libro di Baglioni si pone in logica continuità con un suo precedente lavoro sulla disuguaglianza sociale (La disuguaglianza e il suo futuro nei paesi ricchi, Il Mulino, Bologna 2018). Considerazioni sull’intreccio tra disuguaglianza e mobilità emergono peraltro in molte parti di questa nuova pubblicazione.
La mobilità sociale è l’oggetto “per eccellenza” della sociologia, ovvero il tema al quale questa si è maggiormente distinta per il suo contributo alle scienze sociali. Anche nel nostro paese, essa è stata fonte di importanti ricerche e di un dibattito con andamenti alterni e visioni contrastanti. In particolare, sono molti a sostenere che l’ “ascensore sociale” si sarebbe bloccato, che ricchi e poveri sarebbero sempre gli stessi, che le posizioni sociali tenderebbero a permanere nel cambio generazionale, insomma che in Italia non esisterebbe mobilità sociale, o forse non è mai esistita.
Per verificare tale ipotesi, Baglioni fa ricorso a due approcci, quello della “misurazione” e quello della “narrazione”, utili per l’analisi relativa a tre cruciali fasi evolutive del modello socioeconomico italiano: la prima fase che inizia con gli anni ’80 del secolo XIX e si conclude con la fine della seconda guerra mondiale; la seconda dei “trent’anni gloriosi”, dal 1945 agli anni ’70; la terza che va dagli anni ’80 al 2019 (volutamente, l’autore ferma la sua analisi a prima della pandemia e della relativa situazione di emergenza).
Sulla base di tale schema, il libro è suddiviso in tre parti: la prima parte è dedicata alle questioni teoriche e all’analisi quantitativa del fenomeno (dati, classifiche, componenti, ecc.); nella seconda parte viene riservato un corposo e necessario spazio all’analisi narrativa più dettagliata delle manifestazioni della mobilità sociale e dei suoi effetti, “del suo intreccio con le forme dell’economia, della tecnologia, delle istituzioni politiche, dei costumi e della cultura”; la terza parte si sofferma sulle ragioni della riduzione della mobilità intergenerazionale in Italia.
Partirei proprio da quest’ultimo interrogativo e dalla ipotesi che l’autore avanza alla fine della sua ricca e articolata riflessione: l’ipotesi della “saturazione”, secondo la quale “la quota di popolazione dei paesi ricchi che si trova nella parte media, medio-alta o altissima della scala socio economica è decisamente aumentata nel secondo dopoguerra e, quindi, lascia poco spazio per processi di mobilità intergenerazionale, tanto più con livelli di crescita economica assenti e modesti”.
La prima parte di queste ipotesi evidenzia la posizione di Baglioni che tende a smentire o, meglio, a moderare l’idea molto diffusa che l’Italia sia e sia sempre stato un paese senza mobilità sociale. Secondo l’autore, infatti, il fenomeno della mobilità sociale sarebbe da considerare separatamente nelle tre fasi citate. La prima fase è caratterizzata da grandi processi di mobilità sociale, seppure prevalentemente di tipo orizzontale, di fatto mobilità geografico professionale. La seconda fase dei trent’anni gloriosi successivi alla seconda guerra mondiale si caratterizza invece per una struttura sociale nella quale si riduce drasticamente la popolazione agricola a vantaggio degli operatori economici industriali: imprenditori, operai, impiegati pubblici e privati, borghesia urbana, professionisti e commercianti. Ma è soprattutto nella terza fase, dagli anni ‘80 in poi, che la mobilità sociale in Italia decresce e si distanzia dagli altri paesi europei.
Nella parte dedicata all’analisi quantitativa della mobilità sociale, Baglioni affronta anche alcuni nodi teorici, a partire innanzitutto dalla fondamentale distinzione tra uguaglianza ed equità. La prima sarebbe stata spesso applicata nella storia secondo l’ideologia dell’ugualitarismo che “si propone di raggiungere non solo la meta della pari opportunità di tutti i cittadini per i beni materiali e non nel corso della loro esistenza. La sua applicazione di fatto comporta un sistema coercitivo; ignora o trascura le differenze di capacità, di aspettative delle donne e degli uomini; distrugge le premesse e le applicazioni della libertà”. Per quanto riguarda l’equità, il richiamo a Rawls è d’obbligo, come pure la risolutiva citazione di Veca: “puoi lottare per una società migliore non per una società perfetta”. Resta però aperta la questione sulla possibile relazione tra equità e mobilità sociale. Come si vede, torna spesso il nodo teorico e pratico, non sempre risolto, del citato intreccio tra mobilità e disuguaglianza sociale.
Per quanto riguarda i fattori principali che possono favorire la mobilità sociale, la considerazione di alcuni tra i più rilevanti, tra i quali la crescita economica e l’innovazione tecnologica, consente di affrontare altri importanti nodi teorici. In particolare “la crescita economica più adatta è quella che si esprime con un andamento positivamente costante del livello di produttività…Ciò significa avere un sistema efficiente e competitivo. Anche prima ma certamente di più nel nostro periodo, risulta primario il requisito di migliorare la qualità del capitale umano, la quota dei manager e degli specialisti, la presenza di persone tendenti all’apprendimento continuo. Tutto ciò, oltre che essere oggettivamente necessario, amplia il numero dei candidati alla ascesa di ruolo e di status”.
Più complessa appare la questione teorica della relazione tra innovazione tecnologica e mobilità sociale, peraltro in buona parte collegata al ruolo della stessa crescita economica. Qui Baglioni richiama la teoria economica tradizionale, secondo la quale l’alta marea della crescita e dell’innovazione tecnologica tendono ad innalzare tutti i battelli, seppure in maniera disuguale. In realtà, osservo che gli economisti sembrano essere sempre meno d’accordo su questa teoria e tendono invece a sottolineare il fatto che il progresso tecnologico negli ultimi decenni sia skill-biased, abbia cioè favorito in maniera particolare i lavoratori più qualificati e penalizzato quelli meno qualificati. Secondo questa teoria, nota come Skill-Biased Technological Change (SBTC), si assisterebbe di fatto ad una grande svolta rispetto al passato, quando gli effetti della tecnologia erano invece economic-wide, di portata universale, ovvero un fattore neutrale a vantaggio di tutti i lavori.
Gli effetti dello sviluppo del progresso tecnologico sono stati interpretati in maniera prevalentemente deterministica dalle teorie economiche. Ad una prima fase del capitalismo nel diciannovesimo secolo e prima metà del secolo ventesimo, caratterizzata da un effetto skill-replacing (o unskill-bias) della tecnologia, avvantaggiata da un contesto di grande disponibilità di lavoro dequalificato, sarebbe seguita una nuova fase nei decenni più recenti, nella quale tende a prevalere appunto un effetto skill-biased delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), avvantaggiate da (e correlate a) maggiore disponibilità di lavoratori più istruiti e qualificati e dalla riduzione costante dei prezzi di tali tecnologie. L’innovazione tecnologica, negli ultimi decenni, sarebbe associata alla riduzione di compiti cognitivi e manuali di routine e alla crescita di compiti cognitivi e manuali non di routine. Il modello economico in questo caso predice che nei settori e nelle occupazioni ad alta intensità di lavoro di routine si farà maggiore ricorso alla tecnologia per “sostituire” il primo tipo di compiti, in quanto più facilmente gestibili dalle tecnologie dell’informazione, mentre crescerà la domanda di lavori non di routine per i quali la tecnologia può risultare “complementare”. La teoria SBTC ha suscitato ampie e contrastate reazioni. Ma non si può sottovalutare il fatto che i processi innovativi più recenti comportano la crescita della domanda di lavoratori più istruiti, con un vantaggio comparato dei compiti non di routine e complessi rispetto a quelli di routine. Da qui l’importanza dell’istruzione quale fattore cruciale per la mobilità sociale, come sottolineato peraltro dallo stesso Baglioni in molte parti del libro. Anche se in Italia, per le ragioni sopra richiamate, il ritorno dell’investimento in istruzione, che pure è ampiamente dimostrato, risulta inferiore alla media dei paesi economicamente più sviluppati.
Occorre infine soffermarsi su un fenomeno di mobilità sociale che Baglioni pone in particolare evidenza e che in qualche misura attenua l’ipotesi di una completa assenza di mobilità sociale nel nostro paese. Si tratta dei processi di “micro” o “mini-mobilità sociale” molto diffusi nelle pratiche di lavoro. L’autore ne individua parecchi in senso discendente, soprattutto nei periodi di crisi: la perdita del posto, il passaggio al part-time non volontario, lo spostamento su mansioni meno apprezzate, i rapporti di lavoro precari, le maggiori difficoltà nel conciliare vita e lavoro soprattutto per le donne, la percezione di maggiore incertezza del lavoro, ecc. Ma processi di mini-mobilità sociale possono avvenire anche in senso ascendente, soprattutto in termini di avanzamenti di carriera e di cambiamenti/miglioramenti del posto di lavoro. In sintesi, sono processi che prevedono avanzamento o retrocessioni “all’interno di un’impresa o di uno specifico contesto produttivo…” oppure riguardano “il cambiamento del posto di lavoro, della scelta professionale e del settore, della condizione lavorativa (dipendente, autonomo, cooperatore), del contesto (locale, regionale, nazionale, extranazionale)”.
L’ipotesi della “saturazione”, relativa sostanzialmente alla mobilità intergenerazionale, andrebbe quindi moderata con la considerazione di questi processi di micro-mobilità sociale, che a mio avviso costituisce un importante valore aggiunto del libro di Baglioni. Resta comunque aperta la questione tutta italiana del circolo vizioso di una bassa qualità del lavoro, che continua ad esprimere livelli altrettanto bassi di produttività, limitando quindi la crescita e la mobilità sociale.
Serafino Negrelli, Università di Milano Bicocca