Dopo l’ultima sconfitta elettorale e politica del Pd, ovvero le elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia, sconfitta che è arrivata quattro mesi dopo quella ancora più grave delle politiche di fine settembre, non basterà un nuovo o una nuova leader a rianimare un partito che se non è morto poco ci manca. Chiunque vincerà le primarie del 26 febbraio, – Stefano Bonaccini o Elly Schlein, visto che gli atri due sono ormai fuori dal gioco – dovrà fare i conti con un qualcosa che nessuno sa più cosa sia. La domanda, questa proprio epocale, è tanto semplice quando micidiale: che cosa è il Partito democratico? E soprattutto cosa vuole essere, ammesso e non concesso che sia in grado di continuare a esistere? E ancora, chi vuole rappresentare, ammesso e non concesso che esista ancora una fetta consistente di italiani che intenda farsi rappresentare dal Pd e per fare che cosa?
Mentre scriviamo queste righe nulla è chiaro, poco si capisce delle intenzioni dei due pretendenti alla leadership, se non che Bonaccini è un politico di sinistra (chiamiamola così) più classico, cresciuto in una famiglia comunista e certamente non ricca, che ragiona su vecchi schemi della politica, ma che ha cercato di liberarsi da quella “zavorra” anche cambiando la sua immagine.
Mentre Schlein è più moderna, attenta ai diritti civili di tutti, che guarda alle classi sociali – ancora esistono? Sì, ancora esistono! – con uno sguardo aperto ai grandi cambiamenti avvenuti nella nostra società negli ultimi decenni. Ma nessuno dei due ha ancora espresso un’idea convincente sul perché e sul come possa esistere un partito di sinistra in un’Italia che vota a destra e che purtroppo, almeno nella sua maggioranza relativa, si riconosce in quei valori –anzi, disvalori – che la destra esprime. Altrimenti questa destra non avrebbe vinto le elezioni, politiche e regionali.
Allora, se tutto questo è vero, non sarà giunto il momento di smettere di pensare ossessivamente a chi sarà il nuovo leader, come fosse un demiurgo capace di dominare il tempo e lo spazio, e quindi di creare l’Universo, ma invece di pensare al genere di universo che si vuole essere? Insomma, parliamoci chiaro, il Partito democratico sembra ormai un malato terminale, che forse può essere tenuto ancora in vita –chiamiamola vita per carità di patria – attaccato alle macchine, ma che non riesce più ad avere un senso politico ed esistenziale. Quindi, sarebbe giunto il momento per tutti coloro che ancora credono che una sinistra in Italia esista e possa crescere, quelli che insomma non si arrendono al vento che tira in questo periodo (parliamo delle persone e non solo e neanche soprattutto dei dirigenti), di darsi una mossa. Cominciando col ribellarsi alle liturgie che da troppo tempo sono il leit motiv del Pd, a cominciare dalle primarie che ormai risultano troppo vecchie e spesso scontate per poter mobilitare elettori e militanti, o chi vorrebbe diventarlo ma non si sente a proprio agio in quel mondo.
È quel mondo, ossia il mondo che è nato ed è cresciuto attorno al Pd ma che oggi risulta asfittico ed esangue, che va rifondato, anzi – meglio – ricostruito come si fa con un paese raso al suolo del terremoto. Ovviamente non tutto sarebbe da buttar via, qualche pezzo pregiato si può e si deve conservare, se ci sono dei muri che ancora stanno in piedi è giusto lasciarli lì, ma tutto il resto va rimesso in piedi partendo quasi da zero. Dove zero non significa cambiare semplicemente il nome del Partito – scorciatoia che aleggia e che già qualcuno ha espresso pubblicamente – ma, come diceva Cartesio, nomina sunt consequentia rerum, dunque sono le cose che vanno cambiate, sono le cose che danno senso a tutto il resto, a cominciare dai nomi. Al contrario di quel che diceva il conte di Salina nel “Gattopardo”, stavolta bisognerebbe cambiare tutto per cambiare tutto.
E allora, cari dirigenti di quel che resta del Pd, cari dirigenti di quel che resta della sinistra diffusa, cari militanti ed elettori che non volete la destra al potere, mettetevi una mano sulla coscienza – se ancora ne avete una – e come si diceva una volta, “al lavoro e alla lotta”. Sarà una lunga strada, quella che con una frase fatta si definisce una traversata nel deserto, ma chissà che alla fine non si riesca a trovare un po’ d’acqua, capace non solo di dissetare gli assetati ma anche di dar loro la forza e l’intelligenza per capire che una fase è ormai finita e che l’Italia ha bisogno di una sinistra nuova, ovviamente unita, che si prepari alla prossima sfida con la destra. Non tanto e non solo per sconfiggere la Meloni o chi per lei, ma per offrire al Paese un Progetto. Concetto caro a Bruno Trentin: qualcuno se lo ricorda?
Riccardo Barenghi