Perché una delegazione di sindacalisti della Cgil Lombardia va in viaggio per tre settimane in Cina? Susanna Camusso, che di questa organizzazione è la segretaria generale, spiega in questa lunga intervista i motivi che l’hanno spinta partire con i suoi colleghi, le impressioni che ne ha tratto, soprattutto gli insegnamenti. Perché si è trattato soprattutto di un viaggio di studio, finalizzato a capire cosa sia davvero l’economia globalizzata e cosa ancora può fare l’Italia per non perdere anche questo treno, forse l’ultimo.
Susanna Camusso, perché questo viaggio?
Perché abbiamo bisogno di conoscere, di capire. Perché dobbiamo uscire dallo stupido giochino della Cina vista come opportunità o come pericolo. Dobbiamo capire cosa è la Cina, come si muove. La Cina e le imprese che vanno in Cina. La letteratura, la stampa, gli indicatori economici non bastano, bisogna vedere direttamente, con i propri occhi, parlare con gli interlocutori giusti, che non siano solo i sindacati.
Che impressione ti ha fatto vedere di persona questa grande nazione?
Rispetto a quando ero venuta qui, alcuni anni fa, è tutto cambiato e con grande velocità. L’Europa, vista da laggiù, è vecchia e ferma, non è più il luogo dell’innovazione e della formazione del pensiero. Come non lo sono più nemmeno gli Usa. L’ombelico del mondo è lì. Ma soprattutto è evidente che della Cina non avevamo capito niente, noi del sindacato, noi della sinistra. La lettura che andava per la maggiore, tutta comunismo o libero mercato, non funziona assolutamente, queste non sono categorie sufficienti, sono categorie europee, non spiegano cosa sia oggi la Cina e cosa possa divenire.
Cosa è davvero?
La prima cosa da dire è che quello cinese non è libero mercato. Loro regolano e vogliono regolare il mercato. Non a caso recentemente hanno deciso di rallentare lo sviluppo per aggredire i loro principali problemi, la salvaguardia dell’ambiente e il risparmio energetico, sacrificando anche il flusso degli investimenti stranieri, pur di ottenere risultati concreti in quelle direzioni. Mandano via le aziende che inquinano, consumano troppa energia, non importano alta tecnologia. Semplicemente non gli interessano, e se ne sbarazzano. Questo non è liberismo e, del resto, non è un caso che i cinesi regolino il flusso delle nascite da quarant’anni.
Il punto è che i loro piani quinquennali non restano nel cassetto.
Assolutamente no. La differenza con altre esperienze del passato è proprio nella capacità dei cinesi di pianificare e poi di realizzare quanto è stato deciso. Molto dipende dal fatto che esiste una forte struttura oligarchica, le autonomie sono molto relative.
C’è poca democrazia?
La Cina non è un paese democratico, ma non è solo repressivo. Non sarebbe sufficiente obbligare tutti a fare certe cose. C’è invece un forte senso di appartenenza e quindi di adesione agli obiettivi scelti.
Da cosa deriva questo sentimento?
Credo influiscano due fattori. Il primo è il fatto che si sentano al centro del mondo, proprio per quel forte nazionalismo che li anima. Per realizzare quel sogno sono tutti uniti. E poi gioca la ridistribuzione, il fatto che ci sono benefici un po’ per tutti, per cui ciascuno ha un suo ritorno. E’ rimasto il mito della scodella per tutti, solo che non è più solo una scodella, e comunque c’è qualcosa per tutti.
Repressione ce n’è, però.
Ci saranno pure forme di repressione, ma non ossessive.
E i cinesi le accettano?
Loro accettano l’autorità, rispettano le linee gerarchiche. Ci può anche essere qualche forma di ribellismo, o anche solo di malcontento, anzi, c’è sicuramente, ma non si mette in discussione il senso di marcia, la sua direzione.
Come guardano gli stranieri?
Con sufficienza e anche prepotenza, ma anche con la convinzione che il mondo esterno c’è e pesa. Certo non ci stanno a essere un paese sottosviluppato, da sfruttare. Non accettano alcuna subalternità.
La loro forza emerge anche nel fatto che hanno saputo darsi questi due nuovi obiettivi, la difesa dell’ambiente e il risparmio energetico.
In parte è un ribaltamento della loro politica. Ma non è cosa recente. Non è un caso che abbiano fatto grandi investimenti in Brasile nella siderurgia. Il loro obiettivo non è l’industria pesante, ma l’innovazione, a tutti i livelli. Si sentono e vogliono comportarsi come un grande paese.
Sono leaders?
Si ritengono leaders, che lo siano è più complesso. Certo le nuove generazioni, anche europee, guardano alla Cina con rispetto, come il vero centro dello sviluppo degli anni futuri. E non è cosa di poco conto. Come conta il fatto che i loro cervelli, quelli che vanno a studiare o a perfezionarsi all’estero, poi tornino qui. Perché pensano che lo sviluppo sia qui e non valga la pena andare altrove.
La loro scommessa è enorme, considerando quanto debbono fare. Ce la possono fare?
La sensazione epidermica è che possano riuscirci. Le difficoltà sono enormi, ma i risultati ci sono, dimostrano che se vogliono qualcosa riescono a ottenerla. Non è un caso che dichiarino, come hanno fatto a noi, che la Cina “è” la base produttiva del mondo. Loro pensano davvero di esserlo e si comportano di conseguenza.
Come hai trovato il sindacato in Cina?
Anche qui ho visto elementi di novità importanti. E’ un sindacato di Stato, istituzionalizzato, fortemente legato al Partito comunista cinese, ma non è un sindacato che si occupa solo del tempo libero. E’ attento alle direzioni di marcia indicate dai piani del Governo, ma contratta. Hanno una funzione negoziale, in qualche modo vicina a quella che svolgiamo noi in Europa. Hanno autonomia di pensiero e di azione rispetto al partito e al Governo. Sono il sindacato degli iscritti, non di tutti i lavoratori, ma l’iscrizione è libera, mai coatta. Credo che in questa loro crescita culturale molto abbiano influito le tante imprese straniere che sono andate a investire lì.
La loro forza sta nei bassi salari che favoriscono ingenti esportazioni?
Che i salari siano bassi è indiscutibile. A Shanghai sono meno bassi che altrove, e segnano una qualche crescita, perché in questa municipalità ci sono tante imprese straniere e perché lo sviluppo lì è partito prima, ma in generale i salari sono enormemente bassi rispetto all’Europa. Ma non c’è sfruttamento della manodopera, le condizioni di lavoro, per quello che abbiamo potuto vedere, sono molto contraddittorie, perché se ci sono alcuni posti in cui si lavora male, in tanti altri invece le condizioni di lavoro sono buone. Certo, non sappiamo come si lavora e si vive nelle zone rurali, ma nemmeno nelle aziende tessili per esempio. Abbiamo visto delle aziende metalmeccaniche, per lo più del settore dell’automotiv, e in alcuni casi la realtà di lavoro era ottimale per ambiente di lavoro, luce, aria pulizia, posizioni ergonomiche, ai livelli nostri in tanti casi. Del resto, hanno leggi molto avanzate nel campo del lavoro.
Leggi che poi vengono applicate?
Ci sono violazioni, sono i primi a dirlo, ma le loro leggi non sono grida. Qualcosa sfugge al controllo, ma assolutamente non tutto.
La Cina in grande e tumultuosa crescita. E l’Italia?
L’Italia deve scommettere sulle gamme alte della produzione. Altrimenti sarà spazzata via. Non ci basta il nostro glorioso passato. Non è un caso che il vicesindaco di Tianjin per farci piacere abbia ricordato l’Italia per la Chiesa cattolica, il diritto romano e la prima università al mondo. Il passato è stato grande, ma adesso dobbiamo guardare al futuro, cambiare rapidamente le nostre abitudini, tornare a investire e a intraprendere come una volta.
I cinesi sono stati capaci di cambiare. Noi possiamo riuscirvi?
Agli stessi ritmi, certamente no. E forse nemmeno a ritmi più bassi. Il nostro problema è che siamo degli individualisti. Quello cinese è un modello collettivo, senza però essere collettivismo. Da noi è il singolo che decide. Ma questo impedisce quella coralità che sembra essere la loro carta vincente.
Che si propone il sindacalista che torna dopo un viaggio di tre settimane in Cina?
Di guardare tutto con occhio diverso. Per esempio, le delocalizzazioni. E’ evidente che chi va in Cina non lo fa per avere manodopera a basso costo, quindi l’intera partita va riconsiderata.
Ed emergono errori compiuti in passato?
Emerge tutto il nostro provincialismo. Per esempio nelle liberalizzazioni: ci siamo preoccupati delle singole aziende, non abbiamo mai preso sufficientemente in considerazione i nodi delle strategie nazionali, delle politiche economiche nel loro insieme. Ancora, abbiamo guardato troppo distrattamente alla realtà delle piccole e medie imprese, le abbiamo considerate un problema, non una ricchezza. Una miopia che paghiamo cara.

























